“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Serena Martucci

Scienza-Verità/Errore-Dubbio

Maglione scuro, pantaloni chiari. Poi una sorta di basco nero e un grembiule da fabbro, da artigiano. Nero lo sfondo, come se non servisse. La voce bassa e suadente basta a creare tutto il resto, lo spazio e il tempo. Unico elemento e coprotagonista in scena un globo spinoso che pende da una catena collegata ad una carrucola; il mondo apparentemente, sapremo poi che si tratta dell’universo. Universo che noi, nonostante tutto ancora pervicacemente impregnati di aristotelismo e Scolastica, continuiamo a pensare in termini di perfetta e circolare ciclicità.

Magia dell'uovo

Cominciamo ab ovo. Anzi prima dell’uovo, c’è una gallina? Potrebbe chiamarsi Cicirinella e ingravidare per ingestione uno Zeus/Pulcinella, che si divide in tanti pulcinellini multicolori, che dal '600 hanno trapiantato per il mondo un seme di Napoli, ma che non sono altro che gli eredi, forse, di misteriose e più antiche tradizioni, che si ritrovano, pare, da Creta all’America Latina.

La bellezza fragile dell'umanità

Sfondo nero. Una sedia, un microfono, un leggio. Un uomo abbigliato in maniera informale, ma con la kippah, promette parole, melopee, storie. Propone un viaggio e si propone come nocchiero, lo seguiamo, solo a tratti con un po’ di stanchezza, e ci libriamo con lui, o come lui cerchiamo di librarci ad altezze vertiginose dello spirito, che tuttavia sempre ci restano precluse e un po’ goffi, noi e lui, cerchiamo comunque di trattenere l’eco di un mondo che non conosciamo, che conosciamo solo di riflesso a sua volta riflesso di altri echi, proprio come nella storia dei maestri Chassidim all’approssimarsi del pericolo.

... E aspiette che chiòve...

La (multi)sala Assoli accoglie il suo pubblico variopinto e blasonato per la trasposizione in napoletano di Plou a Barcelona di Pau Mirò. Scena articolata, eppure essenziale, in cui ogni dettaglio, ovviamente studiato nella sua apparente casualità, suggerisce già un odore, un suono, un’atmosfera. Sullo sfondo vetri riparati con lo scotch da pacchi, un piccolo frigorifero di modello antiquato, una tenda volgarmente colorata e intessuta di paillettes. In primo piano il letto, rosa con i cuscini di raso rosa fucsia, un comodino sgangherato, una poltrona sbilenca e rattoppata.

Arriverà Astolfo a salvarci

“La polvere è la carne del tempo”. Bell’incipit per una vecchia storia cavalleresca mille volte rinata. L’antico tomo si anima e Orlando, Bradamante, Angelica, Ferraù, Brandimarte, Ruggiero e tutti gli altri, prendono corpo e si rivestono di nuova carne e voce. Buio. Voci. Luce. Una giostra. La giostra dei cavalieri, gioco bellico, e la giostra delle passioni, gioco eterno. Contrappunto di voci, contrappunto di sessi. Le battaglie degli uomini cedono luogo all’unica battaglia, fatta di inseguimenti e scaramucce, illusione del possesso e continua ricerca.

Il teatro cerca casa... e porta a casa Lucia Migliaccio

Una parete viva di libri fa da sfondo. Tra gli scaffali occhieggiano due marionette (Don Qujiote e Sancho Panza?), una lampada Falkland di Munari illumina con morbida discrezione un salotto caldo e accogliente.
Brusio animato e allegro. Pubblico adulto, forse un po’ attempato, ma si vede, qua e là, per fortuna, qualche volto più giovane, che colora di profumo l’affollato salotto. Sulla scena, separata idealmente, ma non fisicamente dal pubblico, c’è già un’installazione: una nuvola, di rete metallica a trama fitta. Sembra quasi fatta di fumo, ha un’essenza magmatica e un cuore pulsante, fatto di luce, che si intravede sotto la rete, anch’esso di massa metallica aggrovigliata.

Date un'illusione e...

Le illusioni possono prendere corpo.

Le illusioni hanno un corpo, scarpe nere con la fibbia, calze bianche, calzoni lunghi color panna, la redingote nera e la gobba. Le illusioni si mescolano alla realtà, danno corpo, profumo e senso alla realtà. Si incontrano dietro schermi sottili di carta, nitide e piatte silhouettes, come cartoncini ritagliati e applicati sul fondale di un teatro di ombre, proiezione della realtà.

Il drappo rosso della Madre

L’Elicantropo ci accoglie in una luce polverosa. Gli attori sono già sulla scena, ombre livide, mentre prendiamo posto sui seggiolini o (i meno fortunati) sui cuscini rossi del gremito teatro.
Lo spettacolo inizia. Le figure si muovono ritmicamente come i personaggi meccanici di un presepe. Le figure sono livide, non si distingue cosa fanno, ma si percepiscono distinti i suoni del lavoro, metallici, ritmici, con una loro musica.
La Madre, Pelagia Vlassova, domina la scena, icona livida anch’essa.

Il mito eterno della porta di confine

Il filo della casualità, il nastro rosso, il laccio che tiene insieme le cose, l’abitudine, il mondo che gira, con i suoi ritmi e i suoi automatismi, le percezioni inveterate, l’irriflessività dell’esistere, tutto questo ad un certo punto può sciogliersi, oppure può spezzarsi. E quando il filo si spezza, quando le persone sono sostituite dal vuoto della loro assenza, ci si pongono domande, le grandi domande, ci si interroga sull’esistente e l’inesistente e la linea di confine, tra il reale e l’irreale, il pensato e il vissuto, si fa labile, incerta, fluttuante, e come equilibristi si ondeggia, sospesi sul vuoto, sull’abisso delle domande senza risposta, del buio del non conosciuto.

Nessuna via d'uscita

L’Accademia siamo noi. Platea (piuttosto scarna purtroppo) imbarazzata, sospesa, in attesa. Le luci in sala non si spengono, non subito, e sulle spine ci si chiede se è già cominciato, se quei passi che risuonano alle spalle siano già l’inizio dello spettacolo... e quando i passi si fermano e si seggono dietro di noi (sì dietro!) la seconda, terribile domanda, che non si osa rivolgere accanto, ma risuona nei precordi senza osare volgere lo sguardo è: “ci si è seduti troppo avanti?!”. E un altro pensiero, malevolo, figlio dell’imbarazzo destabilizzato, sarebbe già pronto ad archiviare la provocazione metateatrale, l’Accademia è già pronta a classificare, scrollandosi di dosso la sgradevole sensazione di straniamento.

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il Pickwick

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