“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Roberta Andolfo

Memorie ferroviarie

I percorsi abbandonati. Le stazioni morte. Sono lì, nell’entroterra impervio e roccioso, nella radura dolce, a lato del mare, a ridosso dei boschi che già un tempo sembrava impossibile abitare… figuriamoci adesso. Si estendono all’interno di sentieri rurali ed ora sembrano nascondersi a noi ma, una volta, erano investiti dello sguardo di tutti gli abituali passeggeri e placidamente, come sicura presenza, li attorniavano. Nonostante sia esistita un’epoca (niente affatto lontana) in cui tutti quei chilometri di binari erano largamente utilizzati, tutto sommato quegli anditi e quelle lande fatte di terre aspre, di spazi soltanto verdi, di silenziosi porzioni di mondo, dovevano pur sempre conservare il fascino dell’esplorazione. Nel cuore dell’Abruzzo vigeva la legge del segreto mistero, composto di anfratti ed ambigui passaggi che avvolgevano il treno all’esterno della sua struttura, e che forse solo lasciandosi tutto alle spalle, almeno per un po’, e gettandosi nel mezzo di quell’erba, a farsi strada tra rami, sassi, ruscelli e foglie, si poteva arrivare a sfiorare, e magari afferrare.

World Press Photo 2016 a Napoli

In prossimità del lungomare partenopeo, dentro l’eleganza di Villa Pignatelli, sono comparsi, il 4 novembre, centocinquanta scatti di fotoreporter professionisti (tra questi gli italiani Francesco Zizola e Dario Mitidieri). Le immagini arrivano da tutto il mondo e sono state accuratamente scelte dalla Fondazione olandese World Press Photo.

Marcello Cinque in mostra alla DAFNA Home Gallery

La luminosità delle pareti esposte al chiarore esterno grazie alla monumentale portafinestra che si apre sul terrazzo dello storico palazzo dei principi Albertini di Cimitile, esalta la levità delle opere in gommaspugna, e ad un tempo il contrasto fra l’ariosità dello spazio e le densità dei nuclei formali addensatisi a ridosso delle pareti, ma che rimangono sospesi a dialogare con il vuoto. Del resto molte delle creazioni, aderenti a quell’estetica che si realizza a metà strada fra arte e design, si plasmano sul modello strutturale delle forme animali del bestiario marino, di cui è qui esempio perfetto lo squalo.

La bellezza dietro l’orrore, Steve McCurry al PAN

Fissati su architetture di scale bianche, allineati all’altezza del nostro sguardo o poste molto più in alto, di traverso o dritte dinanzi a noi seguendo il tortuoso percorso di chi si lascia guidare dall’incontro folgoratore con le immagini, le fotografie di Steve McCurry sono come finestre. Più che guardare ad esse come se ci venissero incontro, siamo noi a doverle raggiungere, a doverci recare verso i tanti accessi a diverse dimensioni che si compiono proprio lì, in quello spazio dalle pareti neutre dove ognuna di esse esiste di per sé ed al contempo è legata indissolubilmente a tutte le altre.

"In Luce", Cesare Accetta al Madre

In luce come tutto ciò che viene trascinato fuori dall’ombra, talvolta come prima manifestazione di qualcosa che solo in quel determinato istante ha iniziato a esistere. In queste tre proiezioni che scorrono lentamente, senza sosta, sulle tre pareti della Project room del museo Madre, di nuovo su di un nastro di luce cammina il muto dialogo di Cesare Accetta.

Bergquist e gli encausti: "Ashes to Ashes"

La ricerca di un legame fra cose apparentemente opposte, luoghi presumibilmente troppo lontani per potersi assomigliare, origini differenti, continua ad essere sostanza pulsante della ricerca artistica. Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, all’interno del dialogo da lungo tempo aperto fra le opere antiche e quelle contemporanee, s’inserisce quest’autunno, sino alla fine di ottobre, la voce di Mats Bergquist.

Sguardi fotografici condivisi: “Io ti vedo”

Si può impostare un corso di fotografia in modo che somigli il meno possibile ad un usuale corso di fotografia. Si può strutturare l’incontro con l’altro intorno all’elastica ossatura della condivisione (e farne anche obbiettivo della crescita personale e creativa), più che intorno all’impartire lezioni. E lo si può fare per inseguire il giusto mood fotografico, che è poi una dimensione non dissimile da quella fase in cui si desidera dialogare al massimo livello con il pensiero che c’è dietro il nostro occhio, e di mettere gli altri nella condizione di dialogarvi a loro volta. Il fotografo Stefano Schirato presenta i tre colleghi in mostra confermando sin da subito la professionalità ormai già da tempo acquisita da questi operatori, ed evidenziando la loro volontà di mettersi in gioco con convinzione, ma soprattutto con perseveranza, insistendo con il loro sguardo su soggetti che vivono in situazioni difficili da concepire e da spiegare, stando da quest’altro lato della linea.

“Urban Rainbow” al Museo Michetti

Al Museo Michetti si apre un percorso già aperto, inoltratosi nei diversi spazi dell’arte, proiettatosi nel campo visivo di architettura, pittura, scultura, performance, dell’installazione e del design. Franco Summa, chiamato a risintonizzare le aree del museo sui diversi canali del proprio cammino artistico/filosofico, presenta un’accurata selezione delle “invenzioni” concretizzate da metà anni ’70 ad oggi.

"Segni svelati", opere grafiche per la Cappella Sansevero

Disvelare il segno. Disadornarlo per poter osservare la verità di cui si ammanta, di cui è portatore. Una volta fatto questo ricoprirlo nuovamente, ricostruirne la segretezza, reintegrandone il senso. È l’eterno processo di approccio al simbolo, che si rinnova all’infinito. Ed è affascinante quanto l’apparato semiologico e simbolico possa essere antidoto al fraintendimento di un messaggio, quanto possa fungere da catalizzatore di energie, di componenti sottese a quel messaggio, che vengono interiorizzate proprio perché mostrate di traverso, tra le righe.

Otto artisti giapponesi a Villa di Donato

Villa di Donato, con il suo essere così nel mezzo delle cose della città, ed allo stesso tempo distinguendosene ed elevandosi dalla “norma”, dai vicoli più contorti, dagli angoli solo abbozzati e dai modesti dettagli dell’abitato circostante, fascinosamente incongrui, è in grado di guidarci in uno scenario a parte, in una porzione al di fuori dell’urbe, come calatasi in quel luogo per incanto. Ma fa questo senza alterità, senza volontà di trionfo sugli anditi più dimessi, bensì restando “aperta” a ciò che l’attornia, e soprattutto a coloro che vogliono scoprirla.

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il Pickwick

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