“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Roberta Andolfo

I napoletani a Parigi negli anni dell’Impressionismo

È sempre interessante approfondire il rapporto fra l’arte napoletana e quella francese a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. È interessante, specificamente, anche nella misura in cui l’arte italiana ha saputo dare non soltanto un contributo concreto alla nascita ed allo sviluppo della pittura e della scultura moderna in Europa già da prima della metà del diciannovesimo secolo, con un verismo ed una visione plastica e luministica propria e perspicace che restituiva l’attualità spiccando il volo da sicure ed insostituibili fondamenta, ma nel modo in cui ha saputo continuare ad elargire un apporto costante e differente attraverso il fermento creativo degli studi e degli esperimenti en plein air partenopei, viaggiando nel pre e nel pieno impressionismo, partecipando con una voce affine ma distinta, di forte identità, a quel nuovo sguardo sul mondo che di sicuro avevano vividamente coadiuvato.

“Caprò”. La deriva del desiderio

Caprò è l’etichetta che si è voluto affibbiare a un essere, soprannome tanto perentorio e assoluto da aver soppiantato del tutto il vero nome, trasformandosi nell’unica dicitura possibile per quel contenitore umano. Un’identità preconfezionata, imposta a prescindere dalla vera natura di un bambino costretto a diventare uomo troppo presto, senza aver potuto godere delle sane esperienze che lo avrebbero reso completo e gli avrebbero permesso di realizzarsi, senza neanche il beneficio del dubbio che la sua strada avrebbe potuto essere diversa, nell’assenza totale della libertà di scelta, del diritto di divincolarsi attraverso i giusti strumenti, a lui negati, dalla morsa dell’ignoranza e della grettezza, in un ritmo di vita allineato a quello della terra, dipendente nel pensiero, oltre che in ogni gesto quotidiano, dalla sterile e ciclica ripetitività del tempo della semina e del raccolto, dell’estenuante fatica del lavoro manuale che monopolizza l’intera esistenza, dispiegata in spazi angusti e violentemente limitanti, seppur pieni d’aria e di verde.

“Sutor”. Legami e destinazione

Quando questa realtà parallela si manifesta, il rumore di sfregamento di una lima ha già sortito il suo effetto straniante, restituendoci un luogo che si confermerà operoso e contemplativo. Appena il buio si dissolve è proprio così che la scena principia: nel mondo della certosina ma schietta lavorazione creativa.

Numero civico (terza parte)

Si congedò gentilmente affermando che doveva tornare alla sua scrivania e scomparve dietro le grandi ante di una doppia porta a vetri opachi, oltre la quale intravidi, solo per un istante, l’inizio di quello che poi scoprii essere un largo e lungo corridoio, corredato da diverse applique uguali a quelle della stanza dov’eravamo noi e, a differenza di quest’ultima, letteralmente illuminato a giorno. Fu in quell’istante che la mia attenzione si spostò completamente sulle altre persone presenti in sala. Nessuno di loro sembrava spazientito, nessuno sembrava aver fretta. Se ne stavano lì in perfetto silenzio ed era come se quella stasi aleggiasse nell’aria.

Numero civico (seconda parte)

Nei miei lunghi passi mi voltavo lentamente, di tanto in tanto, per ammirare quello scorcio di città per me così strano, dal momento che nella mia lunga vita non avevo mai goduto dello scenario che si svelava da quel particolare punto di vista rialzato. Ne rimasi affascinato. In lontananza alcune cupole familiari ed il monte su cui si estendeva il bosco. In realtà però, ciò che più d’ogni altra cosa mi incuriosiva, era osservare il formicolio della vita di un angolo di città così gremito ed affaccendato, anche o forse ancor di più, nelle fresche, umide ma terse sere d’inverno. Pur non offrendo la stessa vertiginosa visuale di un’alta vetta, le assicuro che è un punto di osservazione molto intrigante, quello. Anche se mi sembra di capire che lei sappia bene ciò di cui sto parlando.

“Genesi”: Sebastião Salgado al PAN

Sulla pinna della balena franca australe scorre quella luce opaca che si stempera nell’ombra, fa ritorno all’occhio e si rimpasta in una composizione resa possibile da un sguardo affascinato, e da un obbiettivo fotografico che per osmosi diviene capiente e saggio. Il lunghissimo viaggio di Sebastião Salgado intorno al mondo, durato otto anni, ha lo scopo di rendere onore al pianeta, intendendo per pianeta tutti coloro che vivono, dalla Durvillea Antarctica, pianta acquatica nell’arcipelago delle Falkland, all’isolotto a forma di fungo coronato dal baobab, dalla presenza meravigliosa dei “perfomers” delle tribù della Papua Nuova Guinea, segnata da una resa luministica che è contemporanea e ad un tempo antica, allo stuolo di pinguini illusoriamente sormontati da un soffitto di pietra scura, in realtà avvallamento della terra che corre in scorcio verso un lontano orizzonte in Antartide, o ancora dalle ospitali capanne in legno dei Korowai dell’Indonesia, costruite sugli alberi, ad altezze che talvolta superano i venti metri, alle valli immense e più profonde di quanto il nostro occhio possa arrivare a misurare con precisione.

Numero civico (prima parte)

Nel luogo in cui la salita raggiungeva la sua massima ripidità il traffico si era disperso e la folla di gente che si muoveva, forsennata, in tutte le direzioni, scendendo verso la piazza, o salendo alla volta del quartiere residenziale, si diradava fino a ridursi a pochissimi esemplari di persone, tutte assai diverse fra loro. Sulla mia destra una strada curvava sino a scomparire, su di un lato, dietro una possente ed alta parete di arginamento, costruita in pietra vulcanica. Duecentonovantanove, quella era ancora la mia destinazione e non avevo nessuna intenzione di farmene distogliere. È successo qualche anno fa, quando i cellulari non erano ancora abbastanza “intelligenti” da invadere il campo dei navigatori satellitari. Ero solo con i miei dubbi e cominciai a pensare di essermi perso nei meandri contorti di quelle strade e stradine, in una zona della città che non mi era affatto familiare. Mi ero riavvicinato a quel punto per la terza volta. Fu quello il momento in cui cominciai a spazientirmi. Ripetei i gesti che si erano già avvicendati in quel pomeriggio che era di certo freddo, ma comunque non tanto da risparmiarmi di sudare leggermente, mentre avvertivo sulla superficie della pelle, specie nei punti in cui il cappotto stringeva di più, una fastidiosa sensazione di calore.

“Proiezoni (oltre il tempo)”: Candeloro al MANN

Non ci sono strati di esistenza da nascondere dietro ad altri, e nemmeno piani di materia e luce di diversa dignità rispetto a quelli apparenti. In questi intagli di plexiglass l’artista suole scavare, definire un possibile attraversamento di tali diverse stratificazioni, e più fortemente la loro convivenza, rendendola chiaramente visibile, semplificandola a livello formale come si farebbe con una sezione abitativa, utilizzando lo skyline di città molto diverse fra loro, per tracciare le linee sovrapponibili della realtà, in direzione di una riflessione che sulle fattezze del moderno ricostruisce l’immagine mentale di ciò che compone il reale, analitica ma idealizzata, perché priva della consapevolezza di tutti i dettagli ed i dati universali, inconoscibili nella loro interezza e nel loro vero aspetto.

In mostra allo GNAM: Palma Bucarelli e Renato Guttuso

Intensissima l’attività che Palma Bucarelli ha perpetrato per tutta la sua vita, e significativo il suo lascito professionale e morale, di cui la collezione privata riflette appieno il senso e l’importanza. Lo sviluppo delle decine di opere in mostra, a cura di Marcella Cossu, esemplifica la lungimiranza e la profonda indagine teorica della storica direttrice del museo dal 1941 al 1975, nonché la sua autentica ammirazione per le più innovative ed acute ricerche artistiche.

Il ritorno dei replicanti: "Blade Runner 2049"

Quando si alza il sipario è innanzitutto la musica a rapirti. Gli strumenti utilizzati per crearla sono gli stessi impiegati nella realizzazione di Blade Runner, uscito nel non più tanto lontano 1982, e le melodie di nuovo incorporano le immagini, le quali si stagliano, dal primo respiro del film, su di una vastità imponente e desolata, che taglia il fiato. Così la pellicola avvolge ogni più piccolo dettaglio, non lo aggira mai, né lo suggerisce in una seducente nuvola di sensazione, sviscerando fin quasi all’ossessività ogni minuscolo grumo della trama.

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il Pickwick

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