“Nel nostro mestiere spesso ci accorgiamo di destare attrazione finché siamo mascherati. Quando ci vede alla luce delle nostre esibizioni e rappresentazioni, la gente crede di amarci. Ma se ci mostriamo senza maschera, siamo tramutati in men che niente. Sono solito dire che noi siamo noi stessi al cento per cento solo quando ci troviamo sul palcoscenico”.
(Ingmar Bergman)
- Il settimo sigillo
- Daniele Magliuolo
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Il caso dei gemelli dagli opposti caratteri è un topos drammaturgico e cinematografico che ben si presta come escamotage narrativo, sia drammatico che – spesso – comico. Questo dualismo a volte non è altro che una metafora del carattere duplice presente in ciascuno di noi, della compresenza, affianco al lato manifesto della personalità, di quello oscuro (celato anche a noi stessi). Ovvio che il cinema – più del teatro – come regno del possibile offra il doppio ruolo ad un unico attore. Cinema come campo dove nulla è impossibile, luogo della finzione, della menzogna costruita ad arte e per l’arte. La definizione vale anche per la politica, almeno per quella attuale, che celebra i suoi riti sulla piazza mass-mediatica dopo essere fuggita dalle piazze reali (frequentate solo in periodi elettorali).
- Viva la libertà
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Geppy Gleijeses porta alla luce un inedito del repertorio di Raffaele Viviani: A Santa Lucia, (nel titolo originale Santa Lucia Nova).
Il regista partenopeo sceglie di innalzare ai fasti della ribalta una commedia in versi, prosa e musica portata in scena da Viviani nel 1943. Gleijeses, nei doppi panni di regista ed attore debutta al Bellini di Napoli con la commedia in due atti.
A fare da cornice all’azione è il ristorante “Starita” del Borgo Marinari di Napoli, che in senso metaforico e fisico fa da spartiacque agli avventori che vi gravitano attorno.
- A Santa Lucia
- Raffaele Viviani
- Geppy Gleijeses
- Lello Arena
- Marianella Bargilli
- Daniele Russo
- Gigi De Luca
- Gina Perna
- Angela De Matteo
- Luciano D'Amico
- Gino De Luca
- Antonietta D'Angelo
- Rino De Luca
- Vincenzo Leto
- Giusy Mellace
- Salvatore Cardone
- Aniello Palomba
- Eduardo Robbio
- Pierpaolo Bisleri
- Guido Ruggeri
- Luigi Ascione
- Teatro Stabile di Calabria
- Teatro Quirino Vittorio Gassman
- Santa Lucia Nova
“È strano che tu non riesca ad afferrare il nocciolo della questione. Riesci solo a percepirne i contorni. E non capisci quanto sia grave”.
La scrittura di Yasmina Reza potrebbe definirsi attraverso questa battuta rubata ad Art: la definizione di un contorno con, al centro, qualcosa di grave e sfuggente, di profondo e di pallido, di pressante e accennato. Yasmina Reza scrive di massimi temi (il delirio, la violenza, il conflitto, l’amore e l’odio tra gli uomini, la bramosia di possesso, il desiderio di conquista o abbandono, lo sfruttamento dei deboli, la viltà verso i fragili, la prostrazione ai più forti) cesellando una cornice e ponendovi al centro una trama di icone, di segni, di simboli che non sono che tratti, rimandi, allusioni. A chi guarda interpretare l’insieme.
L'arte come pharmakon. Fabio Imperiale e Stefano Parisio Perrotti
Written by Delio SalottoloL’arte è anche un mestiere, c’è ben poco da fare. Ma dire questo è dire nulla, in realtà. Il problema sta proprio in quell’“anche”, se proprio volessimo fare riflessione spicciola. Ma cosa si intende per mestiere? C’è l’artigianalità dell’artista vecchia maniera, cioè l’artista chiuso nel suo laboratorio, che incontra e si scontra con i materiali, che si sporca le mani, che lavora nell’officina della sua creazione, c’è poi l’intellettualità della rappresentazione di una pura idea mentale, come nell’arte concettuale, cioè il lavorare su una determinata relazione concettuale, sulle forme e sulla riduzione, c’è poi anche la serialità ossessiva delle forme d’arte più contemporanee (se è lecito utilizzare questa espressione) che compresa la tendenza epocale replicano e riproducono un modello, un’idea, figurativa o non, e ne fanno la propria personalissima cifra stilistica e la propria personalissima forma di sopravvivenza economica.
Prima della scena. L’attore è già in scena. Jeans e maglione di lana anni ‘90. Aria stordita. Farfuglia qualcosa tra sé e sé, mentre strofina ritmicamente, compulsivamente quasi, la mano sinistra lungo il fianco. Piano piano, mentre Giampiero Judice comincia a parlare, si smorzano le luci e comincia il suo monologo. Nulla in scena, oltre il buio fondale. Solo un lampadario minimale, una piccola luce elettrica che suggerirà per tutto il tempo una luce irreale, artificiale, di realtà altra, quale quella che ci colpirà, ci martellerà impietosa per tutto lo spettacolo.
La pièce, ideata e diretta da Dario Aggioli, è ambientata in un manicomio, in una clinica vicino Torino, dove si trovano ricoverati Enrico, nostalgico dei discorsi del duce, e il Professor Ferruccio, un ebreo romano, che costretto a fuggire dopo l’emanazione delle leggi razziali in Italia, viene ricoverato in un manicomio con il falso nome di Angelo. Gli Ebrei sono matti rappresenta un tributo alla verità troppo spesso misconosciuta da parte della storiografia di stampo positivista interessata più ai fatti politico-militari che a preservare la memoria di certi “Schindler” che, come Carlo Angela, salvarono molti Ebrei dai campi di sterminio.
Assistendo a Brother & Sister Art mi sono più volte domandata : “Ma cosa sto guardando?”. Pian piano ho cercato di darmi delle risposte. Brother & Sister Art ripropone alcuni monologhi del repertorio di Benni, però no, non solo monologhi. Nel finale c’è Sherlock Barman a due personaggi. Brother & Sister Art è un adattamento di alcuni divertenti testi teatrali di Benni. No, c’è anche Volano, che tanto divertente non è e il proprietario dell’impresa di fiori è il protagonista di un racconto.
Ciascuno sta solo nel cuor della fabbrica
Written by Michele Di Donato“C’era una volta una città dove si producevano le nuvole: rosa, bianche, nere”; l’incipit da favola introduce quel che rivela ben presto favola non essere. Metti una scena vuota; metti su quella scena vuota un corpo e uno scheletro metallico e quel che prende forma, attraverso quel corpo, attraverso il suo contorcersi, piegarsi, flettersi attorno a quella struttura metallica, non è una favola, ma un triste regesto di cronaca di inizio millennio. Che replica tristi regesti di cronaca già abbondantemente reiterati in una fine millennio non ancora del tutto archiviata.
La XXIV Rassegna del Cinema d’Autore Visioni a cura del "Centrodonna" di Avellino in collaborazione con "I Quaderni di Cinemasud" è cominciata mercoledì 13 febbraio al Cinema Partenio e proseguirà per altre 10 settimane. Come sempre la scelta dei film è improntata alla presentazione di opere d’autore – quasi sempre provenienti dai festival più importanti – che non sono state distribuite nel capoluogo irpino. Film d’apertura è stato Moonrise Kingdoom. una fuga d’amore, settimo lungometraggio di Wes Anderson (che ha inaugurato la scorsa edizione del Festival di Cannes).