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Friday, 17 January 2014 00:00

L'arte della danza di Valeria Apicella

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Danzatrici e danzatori si spingono all’estero per cercare una realtà diversa e più stimolante e rincorrere i loro sogni. Così decise anche la danzatrice napoletana Valeria Apicella che, diciassette anni fa, si spostò a Parigi per lavorare con uno dei suoi coreografi preferiti (Paco Décina), poi alla Biennale di Venezia con Carolyn Carlson ed in Germania con Sasha Waltz, il suo “secondo amore” dopo Décina.
Oggi porta a Napoli il debutto di un suo nuovo spettacolo, Elle est là #4, frutto di tre anni di lavoro in residenza ad Epinay sur-Seine, presso la Maison du Théâtre et de la danse (MTD), dove ha lavorato anche ad altre realizzazioni come il trittico Psalm che comprende Psalm a secret song 2011, Travelling 2012, Golden Room 2013, aprendosi ad un lavoro anche sulla voce, il video, l’installazione e la poesia.

Dopo tanti anni di lavoro fisico per modellare il proprio corpo ed eseguire coreografie di altri, Valeria ha deciso di creare una sua compagnia, cie 3.14, insieme a Cyril Béghin, critico cinematografico e di trovare spazi dove sperimentare in maniera sempre diversa – partendo dall’istinto e da un potente motore interno – racconti, questioni, sensazioni, vissuti che si concretizzano nell’espressione del corpo, non solo in senso puramente coreografico, ma in continua ricerca, dove si aprono porte, mondi e realtà, relazioni ed innovazioni, in continuo divenire, in continua scoperta di forme di supporto che arricchiscono un linguaggio poetico che dal movimento arriva all’essenza ed all’essenziale.
Dopo la visione di Elle est là #4 al Teatro Piccolo Bellini, ho raggiunto nei camerini la coreografa-danzatrice per chiederle qualcosa sul suo percorso e sulla sua nuova creazione.

Perché hai deciso di far debuttare Elle est là #4 a Napoli?
È stata una richiesta del Teatro Bellini, che ha deciso di inaugurare una stagione, al Piccolo, di “weekend-danza” al fine si sensibilizzare il pubblico ai nuovi linguaggi artistici della danza contemporanea. Questo spettacolo, dunque, ben si adattava a questa richiesta. Il mio lavoro parte dal corpo, ma si serve anche dell’installazione ed infatti la scelta di lavorare con l’attrice, Arianna D’Angiò, è proprio conforme al fatto di voler mettere in scena un “discorso” più vicino al pubblico, più concreto ed essenziale. Credo si evinca bene che, nello spettacolo, si parla della donna, argomento che abbiamo deciso di affrontare ormai da anni. Da quattro anni lavoro con Arianna, che ha cominciato con me ed altre danzatrici una trilogia, Psalm, in cui si lavora su corpo ed installazione.

Cosa ti ha spinto ad andare a Parigi per danzare?
Vivo a Parigi da diciassette anni. Mi ha spinto il desiderio di lavorare con Paco Décina, che sentivo filosoficamente legato al mio modo di vedere la danza e mi intrigava molto il fatto che fosse anche lui napoletano. Sono stata la sua “porta-parola corporea” per tredici anni. Inoltre ho incontrato Carolyn Carlson alla Biennale di Venezia ed ho lavorato con Sasha Waltz. Sasha mi ha strappato da Paco, come un amante che ti allontana da tuo marito. Paco, infatti, era gelosissimo, tanto che non voleva che io lavorassi con lei. Io credevo di fare tutte e due le cose, anzi tutte e tre, perché intanto già stava nascendo la mia compagnia.

Quando è nata la tua compagnia?
Una decina d’anni fa. Mi viene da dire sempre cinque anni, ed il mio assistente mi ricorda che è da tempo che lavoriamo.

Com’ è nato questo binomio installazione-corpo?
È nato da poco, nell’ultimo periodo. Soprattutto a seguito di un incidente fisico che ho subito, un incidente al cuore, e così mi si è presentata la domanda: ed ora come faccio se il corpo non ce la fa? Allora ho trovato altre possibilità, cominciando con la voce, nel tentativo di sviluppare un parlato poetico. Ho fatto, allora, delle registrazioni. Poi ho cominciato a perdermi sempre di più ed a ritrovarmi, contemporaneamente. Due anni fa ho fatto un film. Ho capito che il corpo è occhi, tatto, peso, stazza. Io mi definisco una ricercatrice. Ho tanti amici che sono ricercatori in economia o in altro e dico loro: “Anche io sono una ricercatrice”, interrogo il corpo che mi rimanda a quello stato emotivo, ad una certa spazialità, ad un tempo senza inizio. Da lì, allora, se hai un occhio per le luci ed il video, tracci la tua strada di creazione coreografica. Ora, per esempio, sto andando in una scuola per imparare ad usare il cemento e sto cominciando a realizzare le mie prime sculture in cemento. Basta passare alla pratica, attivarsi e così si è aperti ad imparare. Sto imparando così a sperimentare la trasmissione del corpo sulla materia, sull’immagine e la trasmissione di quello che siamo. Da quando mi sto allargando, anche il lavoro sul corpo si sta chiarendo all’interno del linguaggio coreografico. Lo capisco, ora, che la mia attenzione è su altro e che mi sto liberando. E ne ho bisogno, perché sono sempre stata una danzatrice molto potente tecnicamente, avevo bisogno di scoprirmi maestra in questo, ad essere più umile ed incontrare il corpo sotto altre forme, e sotto l’occhio della fragilità di altri mezzi. L’incidente mi ha aperto a questo, mi ha fatto sentire un handicap e mi ha aperto delle porte diverse, mi ha fatto capire dove bisogna mirare, ovvero all’essenza.

Mi racconti della scelta degli oggetti in Elle est là #4  in relazione al sottotesto del lavoro?
Vuoi proprio saperlo. Mi riferisco ai bambini non nati ed a questi embrioni di vita che attraverso il corpo di una donna, pur non nascendo, lasciano dei segni e delle domande. La scelta dei bicchieri d’acqua è legata al fatto che, in Giappone, i bambini non nati si chiamano Les enfants d’eau, “i bambini d’acqua”. Ora il riferimento all’acqua, in fase di creazione, è nato in maniera molto intuitiva, in quanto ho cominciato a lavorare con i bicchieri d’acqua solo perché non avevo tanti mezzi e perché c’erano dei bicchieri in sala. Li ho installati ed ho cominciato a lavorare con il vuoto, con il piccolo, ciò che sembra non essere importante: l’acqua, la polvere.
La cosa che mi interessava all’inizio di questa ricerca era essere in studio non come corpo danzante ma come corpo che percepisce lo spostamento della polvere, l’acqua che cade, in modo tale da capire che questa è la vita e si muove, non ero io a farla muovere. Ho sviluppato, quindi, la ricerca dell’essere in relazione al movimento delle cose, ed ho cominciato in maniera sconfortevole, perché avevo una tendinite ed ho sentito di nuovo la costrizione dell’handicap. Sento di essere molto intuitiva, nel senso che installo, mi metto nello spazio e non so neanche come ma qualcosa accade.

Come si svolge la tua ricerca?
In genere parto da dove sono ora, mi sorge un quesito e cerco di capire che formazione sta prendendo, non in senso intellettuale, ma istintivo, poi interrogo la materia ed esploro. In questo caso ho pensato di esplorarla con Arianna, che in quanto attrice era più consona a questo tipo di ricerca ed è una partner con cui mi sono sempre trovata bene. Poi è emerso l’incontro con l’informazione che in tal modo si è chiarita. I bicchieri d’acqua, allora, sono un’evidenza. Quelli tutti accartocciati richiamano delle installazioni di pietra che esistono in tutte le parti del mondo, una sorta di cimiteri degli enfants d’eau. La parte in cui abbiamo le calzamaglie velate in volto rappresentiamo le donne che hanno vissuto la vita e la morte e ce ne possono dare un racconto. Quando un figlio nasce, è un corpo che si stacca e vive; quando non nasce, invece, è qualcosa che era in potenza vita ma che non vive e quindi non può più abbandonare il corpo della donna. Inoltre mi ha interessato fare una ricerca in questo ambito, perché è un argomento di cui si preferisce tacere piuttosto che parlare e volevo quindi esplorare il rapporto tra ciò che si può e ciò che non si può dire, un tabù.
Resta in queste donne un rapporto con la polvere ed insomma con qualcosa che è un aldilà fuori dalla materia. Ma tutto ciò, ovviamente, senza voler marcare a livello intellettuale il lavoro, ripeto. Questo è ciò che è emerso dalla sperimentazione di quel famoso quesito che mi è sorto e che ho voluto osservare, creando corpi ed oggetti sulla scena.

Come hai trovato il pubblico napoletano?
Il pubblico napoletano mi piace sempre molto. Lo trovo attento e, paradossalmente, è molto sensibile a queste questioni, perché riesce a connettersi con il proprio vissuto e poi ho potuto incontrare tutti i miei amici che in questi giorni sono venuti a vedermi e sostenermi.

 

 

 

NB. Le foto a corredo dall'articolo sono di: prima e seconda immagine, Paola Pasini (http://www.paolapansini.com); terza e quarta, Sergio Ceglio.

www.valeriaapicella.fr

 

 

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