“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 01 January 2013 01:00

Ionesco cabaret

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“Ho riunito nel mio ufficio Billetdoux, Vauthier e Ionesco ed ho chiesto loro di scrivere qualcosa per me. Si conoscevano di vista; si sono piaciuti; hanno passato la notte insieme. La cosa è finita alle sei del mattino a Montparnasse. Tastarono tutti gli argomenti tranne quello che avevo loro proposto: una lite tra due che si amano e, per cornice, una camera con tre porte ed un letto. Il che non toglie che quindici giorni dopo io avessi le mie tre commedie in un atto” e che, tutte e tre, proponessero “una lite tra due che si amano” e, per cornice, “una camera con tre porte ed un letto”.
Così Antoine Bourseiller, che nel 1962 si dilettò a “rimescolare le scene delle tre opere” tagliando, incastrando, rifinendo e montando singoli passaggi dei singoli scritti in un’unica messinscena intitolata Camicie da notte. Fu un fallimento.

Bertrand Poirot-Delpech, critico de Le Monde, ne scrisse: “Considerato nel suo complesso il risultato si è rilevato del tutto artificioso. Lungi dall’assicurare uno spettacolo concertato, la comunanza solo teorica dell’ispirazione e l’incastro gratuito degli sketches fanno pensare al vecchio cabaret”.
Nello spingere a forza sul palco di nuovo Ionesco ed il suo contributo d’allora (Delirio a due) ciò che si mostra ancora di qualche valore è ciò che – allora – sembrava non averne per niente: l’allusione “al vecchio cabaret” ovvero a quell’insieme ridondante e manierato, palesemente fasullo, dolce ma ingenuo, di miniature mimiche, smorfie, piccole clownerie per cui un numero segue ad un numero (e talora riesce anche a far ridere) svelando la natura burlesca dell’impegno teatrale.
Vaudeville di cartapesta; insieme di trucchi volutamente svelabili; recita di una recita che propone futilità e inezie. Imitazioni, trucchi di magia mal riusciti, montaggi da cinema anni Venti. Improvvisi farseschi, parodie, intermezzi cantati, numeri degni di stravaganti buffoni, pagliacci falliti, imbonitori di chissà quale piccolo palco di chissà quale piccolo luogo.
Vignette animate, cadute vistose, utilizzo folclorico degli oggetti di scena (uno scacciamosche che diventa microfono; un cappello che diventa bicchiere nell’origliare a parete; lo scambio forsennato tra una bottiglia d’acqua ed un grosso proiettile) e tutta quella teatralità stravagante e assai mesta di cui il Teatro con la maiuscola d’obbligo ritiene di poter fare a meno. Ecco Il gioco della coppia al Theatre De Poche.
Ecco una pantomima (parola degnissima, di cui raramente si comprende ancora il valore) che – pur rispettandole – affievolisce le allusioni distopico-ideologiche del testo (la guerra, le esplosioni, i cadaveri) tanto quanto affievolisce il senso d’assurdo e di tragica mestizia dolente (il delirio, la reciproca accusa, la sopportazione truce e crudele) per far risaltare – quasi oltre l’eccesso – il carattere comico dell’atto unico di Ionesco.
Per questo chi scorge ne Il gioco della coppia un trattato sulla coabitazione frustrante tra l’uomo e la donna coglie solo la patina frettolosa dell’operazione tentata (il tema del litigio tra Lui e Lei è un topos vecchio almeno quant’è vecchio il teatro) e si svia tanto quanto chi volesse farne strumento per indagini politico-sociologiche (in tal senso sono un di più le immagini che proiettano l’esterno di enormi palazzoni da periferia cementificata tanto quanto i microchip disegnati alla schiena: richiami alla parcellizzazione ed all'automatizzazione contemporanea), a rischio – invece – di lasciar correre l’elemento più vivo della recita intera: la giocoleria, l’andatura canzonatoria, la propensione allo scherzo, al trastullo, al marionettismo evidente.
Il plurilinguismo vagamente accennato (con inserti d’inglese e tedesco). L’attore che apre, chiude, riapre, richiude, riapre, ancora richiude, riapre e richiude la finestra sul fondo. La parlata che s’incanta come s’incanta un vinile incantato. L’incapacità di mantenere due oggetti (casca la vestaglia, si rialza la vestaglia e casca il materasso, si riprende il materasso e ricasca la vestaglia, si riprende la vestaglia e ricasca il materasso). La rottura d’un vetro che non è un vetro. Una piccola esplosione su scena, con un po’ di fumo che si alza. Gli abiti indossati al contrario. La scomparsa della luce con le battute che proseguono al buio. Certi inciampi voluti. Il calco ai passaggi metateatrali. I rimandi a un beckettismo immediato (“Basta, me ne vado”. Resta. “Basta, questa volta me ne vado”. Resta ancora. “Allora addio, me ne vado”. Resta e non perché la maniglia si stacchi dalla porta ma perché il palcoscenico è l’unico luogo davvero possibile). Sono la mascherata evidente offerta ad un’opera che vive del proprio umorismo tra logica falsa (“Ho abbandonato i miei figli. Non avevo figli, ma avrei potuto averne”); sistematica contraddizione (“Salgono”. “No, scendono”. “No, salgono”. “Scendono”. “Ti dico che salgono”. “Ti dico che scendono”) e la concatenazione di termini, i fraintendimenti di senso, la superficialità disinvolta e la farsa d’agitazione e tumulto.
Con un’aggiunta ulteriore che rafforza il senso al finale: cala un grosso orologio (in luogo delle teste mozzate e dei corpi privi di capo previsti nel testo dell’opera), le lancette corrono celeri, gli interpreti tornano al posto d’inizio; le luci si riaccendono dov’erano accese, i pannelli che fanno da sfondo ristabiliscono la scena d’avvio, spariscono le comparse, lo specchio ritorna uno specchio, la scrivania ritorna una scrivania. Il materasso è di nuovo piegato e riposto, alla destra del palco. La fine è l’inizio, l’inizio è la fine. Altra allusione alla sussistenza innaturale del teatro, che sopporta la propria vita sera dopo sera dopo sera, ripresentandosi nuovamente in assito (e così leggiamo dal testo: “La guerra è finita”. “È vero, ma ricominceranno certamente. Certamente”. “Non sapranno mai comportarsi come si deve. A che cosa serve?”. “Serve a far passare la vita”).
Ecco: per “far passare la vita” il teatro replica le medesime burle, le medesime frasi, le medesime storie: sera dopo sera dopo sera.
Bertrand Poirot-Delpech, il critico de Le Monde, visto lo spettacolo al De Poche forse avrebbe riscritto: “Considerato nel suo complesso il risultato si è rilevato del tutto artificioso” in quanto “l’incastro gratuito degli sketches" fa pensare "al vecchio cabaret”.
A quel vecchio cabaret che, “per quanto a tratti stucchevole”, era capace di “far riaffiorare l’evanescente sogghigno a chi vi trovava rifugio” (Angelo Maria Ripellino).
Futile, mesto, "a tratti stucchevole" e divertito, illusorio, motteggiante e satirico. Il buon vecchio cabaret.

 

 

 

Il gioco della coppia
da Delirio a due di Eugène Ionesco
regia e adattamento Sergio Di Paola
assistente alla regia Leda Conti
con Peppe Miale, Lorena Leone, Leda Conti, Stefano Pascucci, Mauro Rea
scene Ferrigno-Alovisi
costumi Alessandra Gaudioso
videoproiezioni Mariano Soria
disegno luci Ettore Nigro
produzione Le Pecore Nere
Napoli, Theatre De Poche, 30 dicembre 2012
in scena dal 22 dicembre 2012 al 6 gennaio 2013

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