“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 08 November 2013 01:00

Viandanti

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L’insistenza dello sguardo va continuamente alla scena e, precisamente, all’elemento fisso che fa da fondo del palco e che è una scenografia dietro la scenografia: alte palizzate disegnate con tratto nero e colori tra il grigio chiaro e il grigio scuro, a rappresentare (in maniera dichiaratamente fasulla) un qualsiasi casermone di un quartiere qualsiasi di chissà quale città. Le finestre sono chiuse, come sigillate perché non vi passi aria; non vi sono tracce di vita all’esterno (né fiori, né abiti stesi ad asciugare, non una testa che faccia capolino da una vetrata); non si nota neanche una macchia di colore: solo grigio chiaro, solo grigio scuro. Uno, due, tre, quattro facciate ben disposte in orizzontale lungo tutta l’ampiezza del palco; in alto sulla destra si percepisce la stilizzazione di una grande arcata, negli angoli vi sono dei tubi calcati in rilievo, mezzo tondi.

Perché badare all’unico elemento silente di tutto lo spettacolo? Perché notare questo fondale che non fa rumore, che non ha parte attiva, cui non ci sarà mai rimando esplicito, mai un’attenzione veicolata, mai un'indicazione di merito? Perché è probabilmente l’elemento-chiave per comprendere la forma dello spettacolo, la sua funzione taciuta, il suo valore più discreto.
Davanti a queste abitazioni che sembrano tracciate con una grossa matita, infatti, staziona quella che tutti prendono per l’unica scenografia significativa: un accatasto di materiale disparato, un insieme da trovarobato, un cumulo che accumula tutto (sedie di legno, un tavolino, del pentolame, un materasso, un megafono, gigantografie, una testa di pagliaccio in cartapesta, una scala in metallo, un cappello, un gallo in forma di pupazzetto convivono con i microfoni, i leggii, gli strumenti musicali, le casse d’alluminio o di plastica che sono servite per il trasporto teatrale). Ecco: è il contrasto tra questa sorta di campionario ed i palazzi che si notano sul fondo che ci dà la netta sensazione che si rappresenti innanzitutto il nomadismo artistico, fatto di viaggi più o meno faticosi o leggeri, di spostamenti celeri o lenti, di stanzialità momentanea, che dura per qualche sera – quante sono le repliche – prima di levare l’ingombro: si riempiranno di nuovo le casse, le valigie, i bauli; si darà una bella spazzata al palcoscenico; torneranno a rigirare le ruote e chi c’è stato non ci sarà più.
Sono degli avventurieri, i teatranti; sono dei girovaghi, dei passaterra, degli oltreconfine. Sono naviganti di strade, sono marinai di campagna, sono barcaroli che non salpano verso l’orizzonte ma che l’orizzonte lo cercano incuneandosi in un mare fatto di vicoli, quartieri, nere vedute; ampie strade perfette, piccoli scorci sgretolati. Sono vagabondi quanto i vagabondi che serriamo nei campi di cemento delle periferie: anche lì materassi, anche lì cianfrusaglie, anche lì pentolame; anche lì strumenti musicali, qualche storia, una notte che deve passare.
La scenografia, questa scenografia volutamente zingaresca quindi, è una messa in evidenza del ruolo che Paolo Rossi assegna agli artisti, ammesso che gli artisti facciano ancora gli artisti: occorre il viaggio, la distanza, occorrono i chilometri sotto le suola, l’incontro con più sguardi possibili, occorre la casalinga sensazione di non essere a casa, occorre inoltrarsi, portare, condividere, se si riesce occorre trasmettere, mostrare, raccontare, far vedere, far sentire, cercare di lasciare qualcosa prima di andare di nuovo, diretti verso la prossima tappa, verso il prossimo luogo.
L’amore è un cane blu è innanzitutto questo: un crocicchio di artisti sceso dalle montagne laterali d’Italia e che percorre lo stivale stanziandosi per qualche sera – ed ogni sera per un paio d’ore – in una città differente, davanti a persone diverse. Per chi si stabilisce fisso tra quattro pareti, per chi non varca mai il nome della propria città, per chi si accontenta dello sguardo d’amici, parenti, conoscenti – con cui scambiarsi il favore di guardarsi – senza mai tentare l’azzardo, fosse pure in perdita, di incontrare volti mai incontrati, un diverso accento, una diversa maniera di battere le mani o di fischiare, è una lezione da tenere a mente: i teatranti – da Arlecchino, nato in una stazione di posta, in un luogo di passaggio e di transito – sono viaggianti: giungono, si fermano, parlano, ricevono ciò che hanno da ricevere, poi riprendono il movimento e tentano altrove: fin quando gli è consentito, fin quando hanno ancora la forza.
Da questa voluta impressione da migrante deriva la forma dello spettacolo che – se è vero che, per darsi unità, usa il pretesto di un film che si dovrebbe fare e che chissà se si farà mai (“Il film è in divenire, non abbiamo ancora il titolo”; “Sarà un western balcanico-carsico-psichedelico”; “Sarà un film d’amore e d’anarchia, d’amore e di politica”) – risulta soprattutto un insieme alternato di sketch, di frammenti discorsivi, di tirate satiriche e di canzoni, di strampalonerie suonate come per scherzo, di pezzi melici indignati o commossi.
“Siamo in prova” dice la scritta sul cartone da pacchi, incorniciato nel legno e tirato su in alto, ma quel “Siamo in prova” è la smentita ostentata, il fasullo che dichiara il fasullo, giacché non v’è alcuna prova in atto, né alcuna improvvisazione è realizzata: tutto è calcolato al millesimo, tutto è preparato perché funzioni: “Sono tre mesi che proviamo per far finta di essere in prova”. Ecco che si rimanda all’altro tema di fondo, quello che tiene insieme le pezze che fanno l’abito variopinto della serata: “Per raccontare una balla occorre dire la verità”. Ovvero: abitiamo un Paese nel quale i militari sono operatori di pace, la guerra è una missione umanitaria, i migranti sono criminali in quanto migranti; abitiamo un Paese nel quale la distanza tra le parole e le cose è diventata uno squarcio che sembra illimitato, nel quale "bene" non vuol dire più “bene”, nel quale "male" non vuol dire più "male"; abitiamo un Paese che ha fatto scempio progressivo del linguaggio (pasolinianamente potrebbe dirsi che politica, burocrazia, industria e poi commercio, televisione, pubblicità e tecnologia hanno polverizzato le pagine dei vocabolari, ridotto la possibilità di lessico, asciugato le labbra, resi inerti i discorsi, tramutato in chiacchiere o in banalità ogni opinione possibile); abitiamo un Paese nel quale allo scempio del linguaggio è inevitabilmente seguito lo scempio di tutto il resto: istituzioni e diritti, rivendicazioni e doveri; abitiamo un Paese del quale siamo sempre più spettatori e meno cittadini, sempre più gente e meno popolo, sempre più acquirenti e meno persone; abitiamo un Paese che è ancora un Paese perché esiste una sotterranea e strisciante e costante e ostinata forma di resistenza nascosta che non ha a che fare coi partiti, con i leader, con le forme organizzate di rappresentanza, con gli slogan che marciano, con i televenditori di cambiamento ma che si regge sulla necessaria esigenza di bellezza, di pace, di cultura, d’incontro, di riconoscimento reciproco, di bisogno degli altri.
È questo Paese che Paolo Rossi attraversa partendo dal Carso, comportandosi come ha da comportarsi un artista, un teatrante, un saltimbanco ovvero un ciarlatano, un guitto, uno stanziale provvisorio: recitando simpatia per ottenere accoglienza; giocando con la ruffianeria per il locale (la maglietta e la sciarpa del Napoli; il suono di 'O surdato 'nnammurato); istituendo immediatamente un rapporto diretto, senza alcun filtro apparente, senza alcuna separazione nel mezzo (l’invito a ballare, a salire sul palco, a segnarsi per un casting; l’offerta di una zuppa, l’intervallo trascorso assieme); soprattutto mescolando e rimescolando le proprie storie (Il castello di Duino, le grotte carsiche, Il bosco Cappuccio, le strade chiare tra le bianche pareti di crosta e le leggende, qualche vicenda, certi intermezzi dialettali d’origine) alle storie degli altri (Euripide, Ovidio, Shakespeare e Beckett ma anche Ungaretti, Saba, Orson Welles e Jannacci, Emilio Zapata e Bertolt Brecht) perché si sa che ogni singola narrazione cui si dà vita è la riedizione di qualcosa che è stato già detto dagli altri, cui si aggiunge il proprio tono, la propria furberia.
Dunque doppiezza tra sincerità e mestiere, tra libertà e calcolata funzione di scena, tra simpatia e complicità interessata perché un attore è pur sempre un attore: ribelle nella disciplina, fanfarone con la bravura.
E se non tutto tiene perfettamente, se talora il ritmo cala o qualche passaggio si mostra come un piccolo inserto vuoto, ecco che giungono istanti nei quali si riceve e si prova un fermento, un brivido che pizzica la pelle, una suggestione che riempie lo sguardo, una voce che s’impossessa dell’udito e che ti costringe a rimanertene come intontito, in ascolto, suggestionato dalla melodia o dal frammento di un monologo di poesia o di civiltà: una poesia di Ungaretti; l’immagine di Enrico Berlinguer; il bambino che si chiede quanto largo è il mare che sta attraversando in barcone.
Unendo autobiografia e biografia, finzione e cronaca, passato e presente; legando le "storiette" alla musica, le note alle allusioni o ai rimandi, le gags alle citazioni più dotte, Paolo Rossi e il suo seguito cercano così di ridare il “vero significato alle parole” – vero “come il sapore di un pezzo di pane o di una mela” – perché si riacquisti “il senso della realtà che abbiamo smarrito”, perché “si torni coraggiosi” ed ostili in questo “regime di approssimazione” cui abbiamo fatto abitudine, in cui siamo affondati con comodo.
È ciò che resta alla fine: terminati gli applausi, spente le luci, chiuso il teatro.
Sfumata la sera, passati gli artisti.

 

 

 

 

L'amore è un cane blu. La conquista dell'Est
di e con Paolo Rossi
scritto con Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi
e con la supervisione di Riccardo Piferi
musiche originali Emanuele Dell'Aquila
eseguite da I Virtuosi del Carso: Emanuele Dell'Aquila, Alex Orciari, Stefan Bembi, Denis Beganovic, Mariaberta Blašković, David Morgan
foto di scena Gioia Casale
produzione La Corte Ospitale
durata 2h 10'
Napoli, Teatro Bellini, 5 novembre 2013
in scena dal 5 al 10 novembre 2013

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