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Tuesday, 24 September 2013 02:00

Filosofia della scienza: note per un'integrazione dei paradigmi scientifici

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"La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie”.

 

"Il vampirismo, per come immaginato e interpretato nel Secolo dei Lumi da fede, superstizione e scienza, è il tema de L'immagine del vampiro nel XVIII secolo tra teologia, medicina e filosofia, un saggio di Salvatore Grandone pubblicato da Roger Sarteur Editore di Aosta. L'autore, professore ordinario di storia e filosofia nei licei, dottore di ricerca al Centro di Ricerche sull'Immaginario di Grenoble, dottorando in scienze filosofiche alla Federico II di Napoli, offre spunti di riflessione critica sulle più celebri dissertazioni che nel Settecento affrontarono la questione del "non-morto", individuando i problemi suscitati dal fenomeno in fatto di teologia, filosofia e medicina. La questione teologica, con la resurrezione dalla morte, e quella medica del cadavere in trasformazione vanno a ibridarsi nello stile esposto in tali opere, ponendo interrogativi eminentemente filosofici sulle disfunzioni dell'immaginario stesso, sino a riflettere su diverse importanti problematiche di filosofia della scienza”.


                                                                                                                                                         (cit., dalla quarta di copertina)

Può riassumerci per Il Pickwick le tesi centrali del suo testo?

Il mio lavoro sviluppa essenzialmente una tesi: l’idea che tra paradigmi anche molto diversi siano possibili delle ibridazioni – verticali per i paradigmi appartenenti a periodi diversi, orizzontali per quelli che si costituiscono nello stesso periodo, o ad un tempo verticali e orizzontali. Tale assunto trae ispirazione dall’analisi del fenomeno del vampirismo nel XVIII secolo. Calmet, van Swieten e Davanzati studiano il tema, intrecciando concetti apparentemente incompatibili. Ma la ricezione non rigorosa, l’ambiguità nell’uso di termini che si prestano ad usi paradigmatici ambivalenti (ad esempio gli “spiriti animali”) e l’esperienza (diretta per van Swieten, indiretta per Calmet e Davanzati) generano delle configurazioni epistemiche ricche di spunti per lo storico delle scienza.

Professor Grandone, il suo testo invita a riflettere sul fatto che, nell'alveo della stessa rivoluzione scientifica, continuano a sussistere tradizioni di ricerca empirica che prescindono dalla matematizzazione della natura. Fino a che punto ciò è possibile?

La rivoluzione scientifica non provoca un immediato cambiamento di paradigma. Se tra gli scienziati si può ipotizzare, come fa Kuhn, che la rappresentazione della realtà cambi rapidamente in virtù della relazione virtuosa tra esperienza e nuovi strumenti cognitivi, nella cerchia più ampia degli intellettuali o delle persone semplicemente dotate di un livello medio d’istruzione un simile discorso non sembra applicabile. Nel mio studio ho cercato di mostrare come nell’immagine del vampiro di alcuni savants del XVIII secolo coesistano paradigmi diversi (cartesiano, aristotelico, etc.). Si tratta di veri e propri ibridi concettuali che mettono in luce il carattere non lineare dell’evoluzione paradigmatica. Infatti delle strutture concettuali possono essere incompatibili in sé, ma nel concreto atto ermeneutico la rigidità dei paradigmi può essere sfumata dai fraintendimenti, dagli slittamenti di senso più o meno involontari.

Ritiene che la transizione dal mondo del pressappoco all'universo della precisione vada riqualificata sottomettendo il mondo del pressappoco al rigore matematico?

Nella rappresentazione scientifica della realtà sono principalmente tre gli elementi che vanno presi in considerazione: l’esperienza, il paradigma e i soggetti (la comunità scientifica, i tecnici, gli intellettuali, etc.). La loro interazione genera le diverse rappresentazioni scientifiche della realtà. Sembra pertanto riduttivo legare la precisione al solo paradigma matematico, in quanto gli attori e l’esercizio costituiscono dei fattori altrettanto importanti. Ad esempio, in certi contesti un acuto esercizio del paradigma aristotelico può risultare più fruttuoso di quello cartesiano e l’esito dipende sia da chi pratica il paradigma sia dall’esperienza che ne deriva e dunque dall’oggetto su cui si applica. Certo l’esperienza allo stato puro non esiste, essendo fin dall’inizio impregnata di paradigmi (e più in generali di pre-comprensioni). Tuttavia, se i paradigmi si susseguono, questo non avviene per puro caso o cambiamenti di moda, benché il “far tendenza” possa anche entrare in gioco nell’affermazione di una certa rappresentazione scientifica della realtà.

Il suo lavoro mette in discussione il fatto che lo sviluppo della scienza avvenga attraverso un passaggio dallo stadio teologico a quello positivo, passando per quello metafisico. Al contrario, sembra che solo apparentemente l'impresa scientifica miri a una conoscenza dei fatti strettamente vincolati ai dati dell'esperienza, in quanto la scoperta di difficoltà spinge sempre alla formulazione di ipotesi occulte rese poi intellegibili. In altri termini, è corretto sostenere che la centralità della matematica accompagni e non sostituisca le spiegazioni occulte?

Citando Nietzsche, si potrebbe dire che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Tuttavia l’esercizio dei paradigmi incontra resistenze, scacchi che non derivano soltanto da una presunta incomprensione della loro configurazione epistemologica. Riprendendo un’idea di Putnam (la tesi del realismo interno), si potrebbe affermare che indirettamente la realtà comunica. Preciso: comunica, non parla. L’evoluzione delle scoperte scientifiche e le rivoluzioni paradigmatiche sembrano infatti confermare la tesi che la realtà in sé non abbia nessun linguaggio. Allo stesso tempo però negare un forma di isomorfismo anche solo parziale tra realtà e linguaggio è eccessivo, perché quest’ultimo sorge da un’esperienza anonima della realtà che ne permea la struttura. Tra predicativo e ante-predicativo vi è una certa analogia, per quanto i due ambiti fenomenici non siano sovrapponibili. È allora lecito sostenere che se è vera l’assenza nell’evoluzione della scienza di uno sviluppo lineare, come ad esempio la legge degli stadi di Comte, non si può neanche pensare ad un susseguirsi senza alcuna logica di paradigmi. La frangia occulta presente in un’ipotesi scientifica è la proiezione negativa di una realtà che resiste al riduzionismo logico. Che si tratti del paradigma cartesiano o di quello aristotelico, delle spiegazioni occulte si affiancheranno sempre, in quanto il residuo inintellegibile è un elemento strutturale di qualsiasi paradigma, trattandosi, in ultima istanza, di una presenza del reale che non potrà mai essere espunta dal logos.

È d'accordo con Popper nel ritenere che la linea di demarcazione tra scienza e pseudoscienza vada cercata nella possibilità di un controllo puramente deduttivo? Non si finisce per gettare l'empirismo dalla finestra?

Alla luce di quanto osservato, non ha molto senso distinguere in modo statico deduzione e induzione o negare l’elemento empirico in nome di un’assoluta centralità del paradigma come sistema di catene deduttive. Senza esperienza e soggetti il paradigma sarebbe vuoto, privo di senso. Certo l’esperienza si dà anche all’interno di paradigmi e i soggetti si comprendono e si affermano come tali nell’orizzonte di una più vasta pre-comprensione del reale che può includere i paradigmi stessi. I paradigmi sono però elaborati dagli uomini e si costituiscono in quell’esercizio-esperienza che “colora” le loro forme dell’oscurità di cui parlavamo. L’esperienza è già presente nei sistemi deduttivi che costituiscono le strutture concettuali proprie dei paradigmi e sono tutti quei luoghi oscuri dove la deduzione difetta richiedendo l’assunzione di nuovi ipotesi, assiomi, etc., a loro volta non in grado di saturare completamente l’a-logico.

Non pensa che proprio l'assenza di un metodo indicata da Feyerabend lasci la scienza in balìa del più forte, ovvero di colui che impiega alla cieca degli strumenti, imponendo la sua visione del mondo?

Con Feyerabend siamo in una prospettiva dove mi sembra siano centrali solo il paradigma e i soggetti senza tener conto della dimensione dell’esperienza e la conseguente centralità della prassi paradigmatica. È vero, la scienza è strumentalizzabile, come del resto ogni sapere, e la sua immagine del mondo può essere imposta. Ma tale deriva non ha una giustificazione ontologica, quasi fosse insita nella scienza stessa. Si tratta piuttosto di un uso improprio della scienza che rientra nelle sue possibilità, ma non le esaurisce.

 

 

Salvatore Grandone
L’immagine del vampiro del XVIII secolo tra teologia, medicina e filosofia

Roger Sarteur Editore, Aosta, 2010
pp. 64

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