“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 03 April 2021 00:00

Francesca La Cava. Le architetture di un corpo sospeso

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Roma, 25 aprile 2020.
Valuta attentamente i termini, come stesse raffinando un suo linguaggio in continuo divenire. Ponderata, edotta, conscia e decisa: Francesca La Cava è un’artista che si muove in una dimensione tutta sua e muove chi l’ascolta con la profondità del suo pensiero, con i suoi grandi occhi bruni, che indagano lo spazio limitato, e con le sue mani pronte e repentine, che nonostante lo schermo del pc, causa primo lockdown Covid, mi accompagnano lungo i percorsi, i muri e le architetture della sua poetica.



Docente, danzatrice, coreografa e direttrice artistica di Gruppo e-Motion. Ma che valore ha per te la coreografia?
Credo che la coreografia sia innanzitutto un’esigenza. Comunicare attraverso la danza e, magari, in sintonia con più arti. Non a caso da certi periodi storici, anche complicati, sono emersi talenti degni di nota. Un artista ha bisogno di comunicare, attraverso il suo linguaggio, il proprio pensiero come fosse una necessità. È come scrivere un libro, lasciare testimonianza di un pensiero.


Come consideri il rapporto tra il corpo e lo spazio in cui si muove?
La danza già di per sé è architettura. L’architettura dà forma agli spazi in cui noi poi viviamo, ma questo lo fa anche il corpo. Se io voglio dare forma a un luogo in cui vivo danzando ottengo esattamente lo stesso risultato dell’architettura. Durante il processo creativo si pensa a dare forma a uno spazio (qualunque esso sia) con un lavoro sul corpo che inevitabilmente ci rimanda all’architettura.

L’architettura emoziona, invitando lo spettatore a riflettere sulla propria condizione. La coreografia fa lo stesso. In che modo?
Il coreografo può disegnare, fare bozzetti, schizzi, scrivere ma la ricerca vera e propria deve avvenire nel suo corpo. Bisogna andare in profondità e agire da essere umano. Il pubblico lo riconosce. Il nostro corpo pure. Bisogna essere onesti e prendere le distanze dalla moda, che non permette di tirar fuori il genio, la “follia”. Se è vero che la coreografia è necessità, allora devo abbandonarmi al mio pensiero, farmi attraversare il corpo ed entrare in quello stadio “post-liminale” che mi concederà una comunicazione vera con il pubblico. Abbiamo bisogno di stupirci, degli altri e di noi stessi.

In un momento così delicato per la danza, ci sentiamo come “in sospensione” e obbligati a “reinventarci”. Quali sono, secondo te, le prospettive future della coreografia?
Mi piace molto la parola “sospensione”. Immagino qualcosa in alto, sospesa appunto: come un uccello che si eleva e guarda il mondo, così l’artista fa lo stesso. Succederà qualcosa, sì. Storicamente, dopo ogni grande accadimento, nasce qualcosa di nuovo e di diverso. Non credo che l’artista debba “reinventarsi”, ritengo invece che cambierà il modo in cui fa arte. Forse una delle strade che dovremmo intraprendere è quella di pensare alla danza fatta in altri luoghi. Ispirarci nuovamente, portando con noi ciò che il passato e la natura ci hanno lasciato. Stando in alto, in questo momento di sospensione, osserviamo e rivalutiamo tutto ciò che ci circonda e di cui, forse, ci eravamo dimenticati. La scatola teatrale adesso non c’interessa più? Può essere. Magari poi ritorneremo a viverla più in là, come se appartenesse anch’essa alla teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici.


Sul finire del nostro incontro virtuale Francesca si accende una sigaretta. Sta pensando alle sue ultime parole, lo si capisce dallo sguardo. Espira del fumo che per un attimo sembra danzare per noi.
Mi regala un ampio sorriso, ci salutiamo.





N.B.: le foto a corredo sono di Paola Castro Suarez e Paolo Porto

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