“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 15 February 2021 00:00

Andy Warhol (per interposta persona) e “Il male”

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A Jed Johnson si deve quello che è considerato, a tutti gli effetti, l’ultimo film di Andy Warhol. Il male di Andy Warhol (1976) − questo il titolo civettuolo della pellicola − assume nella logica del cinema narrativo i temi tradizionali dell’underground, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto della psicologia e l’irrisione per la verosimiglianza.

Si narra della storia della signora Hazel Aiken, in apparenza una laboriosa casalinga, che accumula dollari dirigendo un’anonima assassini, tutta composta di ragazze disposte a eseguire i delitti su ordinazione per pochi dollari richiesti dalla mediatrice. Nella casa della Aiken vivono anche la nuora di lei, Mary, con un figlio mongoloide e la madre anziana. A volte vi passano ore o nottate le ragazze-killer, come P.G., Glenda e Marsha; un giorno vi si impianta da padrone L.T., un giovanotto che si è reclamizzato con una bella collezione di morti ammazzati e che Hazel intende usare per l’eliminazione di un fanciullo di famiglia borghese anormale. Mentre le ragazze compiono puntualmente i loro feroci compiti, L.T., messo di fronte al fanciullo handicappato, si ribella. Nel frattempo il poliziotto di colore Hughes, a conoscenza delle attività della banda Aiken e disposto a proteggerla in cambio della concessione delle grazie della Aiken che concupisce, viene rigettato e offeso dalla stessa. La uccide soffocandola nell’acqua di un lavandino.
Opera a suo modo deliberatamente primitiva, ai limiti dell’euristica in materia di grottesco quotidiano e di rovesciamento degli usi sociali, il film di Johnson matura nella concretezza iconograficamente stralunata del frammento stilistico a effetto corale, tentando programmaticamente la descrizione parossistica della pura artificiosità del collasso sociale non in termini di un processo di realismo ma per mezzo della rappresentazione della rappresentazione, ovvero attraverso la documentazione iperrealistica del falso modello dell’immagine iterativa nell’era della mercificazione capitalistica, fino a un’insostenibilità visiva che oltrepassa i limiti del suo stesso cattivo gusto: ma il film non è un’ipostatizzazione dei postulati del radicalismo teorico di Warhol, che aveva tentato con esiti mediocri la contaminazione commerciale col cinema underground attraverso la parodia del cinema horror. Nel film di Johnson la follia si consuma in uno scenario di inquietante normalità, tra individui laidi e mostruosi, pessimisticamente dominato dall’inferno del denaro. La metafora di Warhol, che al suo compagno Johnson ha affidato la regia (anche se si ritiene che il suo ruolo abbia riguardato solamente la scenografia e le luci), è cupamente lapalissiana, anche se schiarita nei suoi feroci assunti dall’acre umorismo del dialogo; inoltre, e in ciò il film ha una sua perturbante audacia, adopera una certa bizzarria diegetica come strumento di serrata polemica nei confronti del matriarcato americano; inclinazione squisitamente misogina − come per tutti i lavori di Warhol − che produce la nausea del femminile attraverso il disgusto delle proprie azioni.
L’originalità del film è nella scelta del corpo sociale cui segnare a debito la turpitudine dei propositi omicidi: non più il mondo sotterraneo e marginale del sottoproletariato artistico, ma la classe media americana e il suo sogno divenuto presto un sozzo incubo autofagocitante. La scelta del cattivo gusto, mutuata dai primi film di John Waters, converge con quella ideologia della putrefazione che individua nella metropoli americana il luogo in cui ogni ipotesi di normale esistenza si degrada fino all’autunno della civiltà; per esprimere ciò, Johnson ha dovuto cedere al didascalismo crudele di una rappresentazione programmaticamente anticonvenzionale ed estenuata negli eccessi della sua piega in fondo massimalista (si pensi all’intera sequenza del bambino gettato via dalla finestra e spedito a sfracellarsi sul selciato tra pozze di sangue e brandelli di materia), ma ha saputo raccontare un universo grezzamente autentico e differenziato in virtù di uno stile acerbo (in buona misura adeguato al racconto) e dell’ottimo lavoro di montaggio affine a quanto lo stesso Johnson, proprio in questo ruolo, ebbe a fare con i film della trilogia di Paul Morrissey.





Retrovisioni
Il male di Andy Warhol
regia Jed Johnson
soggetto e sceneggiatura Pat Hackett, George Abagnalo
con Carroll Baker, Perry King, Susan Tyrrell, Stefania Casini, Cyrinda Foxe, Susan Blond, Matthew Anton, Cathy Roskam, Mary Boylan, Gordon Oas-Heim, Michael Forella, Kitty Bruce, Tere Tereba, Brigid Berlin, Renée Paris, Tom Quinn (II), John Stork, Lawrence Tierney, Geraldine Smith, Maria Smith, Ruth Jaroslow, Tamara Horrocks, Charles Mac Gregor, Joe Lambie, Tito Goya, Vasco Valladares, Barbara Hunt, Pat Way, Jane Fort, Jerry Rosemberg, John Dunn
musiche Mike Bloomfield
montaggio David E. McKenna
produttori Jeff Tomberg, Andy Warhol
casa di produzione Factory Films
distribuzione New World Pictures
paese USA
lingua originale inglese
colore bianco e nero
anno 1977
durata 105 min.

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