“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 06 September 2020 00:00

Pura poesia

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Al sesto squillo del campanello ci affacciammo alla finestra del salotto, dal terzo piano vedevamo con facilità chi fosse in strada davanti al portone del palazzo, centottanta secondi dopo era in casa nostra a fumarne una, la rullò in tempi record, “fa troppo ridere come le chiamano qui, galinhas, vi rendete conto? Galinhas!”, e a raccontarci che non era andato a Milano da suoi genitori perché non ne aveva avuto voglia, non era in buoni rapporti con loro. Questa era una parte di verità, l’altra è che si ritrovava sempre a corto di denaro, il suo stipendio, poco meno di mille euro mensili che percepiva come i suoi colleghi italiani assunti in uno dei tanti call center presenti in città, lo sperperava in divertimenti e vizi vari e l’acquisto di un biglietto low cost andata e ritorno non rientrava tra le sue priorità.


“Stasera ragazzi mi adottate, lo sapete, no? Vengo con voi ovunque andate!”, ci disse mentre ci trovavamo tutte e tre seduti sul divano, ormai sempre più logoro e sdrucito, a formare un improbabile trio di scavezzacolli.

“Ma non potevo scegliere un coinquilino diverso?” quasi mi sussurrò Marco in cucina dove mi ero spostato, me l’aveva ripetuto più volte da quando vivevamo sotto lo stesso tetto, “non è obbligatorio far entrare in casa Simone ogni volta che citofona e stasera ci si accolla pure!”. Io e Marco, due dottorandi all’estero come tanti, avevamo scelto di non tornare dalle nostre famiglie per le feste e di rimanere a Lisbona. Sette etti di spaghetti per tre, conditi con una quantità spropositata di olio extravergine e con la mia riserva speciale di parmigiano, conservata gelosamente e segretamente dal mio ultimo volo Roma Ciampino − Lisboa Portela. Era l’occasione giusta per condividere questo bene prezioso, qui si trovava solo a prezzi stratosferici e in alcune catene di supermercati. Guardai lo schermo del mio cellulare: 14.02.

“Accompagnatemi alla Bica, devo incontrare una persona, stanotte farò un lungo viaggio” disse Simone.

Quando si diceva la Bica s’intendeva la Rua da Bica de Duarte Belo, la via dell’Elevador, della funicolare, a due passi da Rua da Rosa e dal Bairro Alto dove avevamo appuntamento quella sera. Ci trovavamo in prossimità del Largo do Calhariz, nel punto più alto della Bica, da qui osservavamo la strada ripidissima, vertiginosa e il  fiume Tago, Tejo in portoghese, sullo sfondo. Questa strada durante il giorno è  sempre stata la più fotografata dai turisti, di notte invece, soprattutto in quegli anni, era la zona dove i ragazzi s’incontravano per bere all’aperto e per rifornirsi di sostanze stupefacenti e dove Simone stava aspettando il suo spacciatore di fiducia e noi lì con lui, senza nessuna voglia, a fargli compagnia. Guardai lo schermo del mio cellulare: 21.42. “Dai, siamo in ritardo, ti facciamo anche imbucare a cena e...”,

Non feci in tempo a terminare la frase che arrivò un ragazzo molto giovane, si appartò per qualche minuto con Simone a pochi metri di stanza da noi, gli confabulò qualcosa e se ne andò velocemente. Ci avviammo finalmente all’appuntamento.

“Qua il cielo è immenso, lo vedi e lo vivi in ogni momento”, ripeteva spesso Frank, proprietario insieme a Maria fino a qualche anno prima di uno dei locali più famosi a via del Pratello, erano stati più volte in vacanza a Lisbona fino a innamorarsene e alla fine avevano deciso di trasferirsi definitivamente nella capitale lusitana, nacque così TascaBO, un bar/ristorante aperto da pranzo a mezzanotte, frequentato da molti stranieri e diventando nel corso del tempo un punto di ritrovo e una sorta di secondo consolato per gli italiani che vivevano in città. Il loro locale portoghese era dedicato a un loro amico, un poeta scomparso diversi anni prima e che girava tra i locali di Bologna, scrivendo e lasciando dei propri versi sui tovaglioli di carta. Quella sera organizzavano un evento privato nel loro spazio, il classico cenone di fine anno, erano stati invitati i clienti più affezionati, oramai amici, con quali avevano legato di più nel loro primo periodo lisboeta. Simone non c’era mai stato a TascaBO, quando arrivammo in ritardo e a sorpresa con il nostro amico gran fumatore di galinhas, spiegammo la situazione alla coppia bolognese, lo fecero sedere vicino a noi senza problemi.

“Wow che sballo questa, adesso ci attacco bottone”, esclamò Marco, poi si avvicinò repentinamente alla bionda che parlava e rideva con con una sua amica, mentre Simone era andato alla ricerca di una birra in bottiglia in uno dei tanti bar pronti a tirare fino al mattino, eravamo nuovamente alla Bica, dove si erano riversati in tantissimi dopo la mezzanotte.

Eravamo fuggiti dal locale di Frank e Maria, prima di ritrovarci invischiati in una di quelle spiacevoli situazioni dove ognuno cominciava a dire la sua, “andiamo di qua, no andiamo di là”, senza che alla fine si prendesse una decisione. Doveva essere una deviazione momentanea, dopo la cena e i festeggiamenti di mezzanotte dai nostri amici bolognesi, non avevamo dubbi su come continuare la nottata, saremmo andati alla Fábrica a proseguire la festa e ad ascoltare un concerto dove si esibiva un mio amico.

“Ma con chi cazzo sta parlando? E che cazzo fai da solo qui? Ma le vedi? Andiamo immediatamente a parlarci anche noi!”.

Simone era tornato con un paio di birre, me ne offrì una ma quando vide il mio coinquilino flirtare con le due ragazze non perse tempo e si avvicinò trascinandomi con lui. Cominciavo a sospettare che alla Fábrica ci dovevo andare da solo, a sette chilometri da dove mi trovavo in quel momento e a Capodanno, quando prendere un taxi, un uber o un autobus era un vero e proprio terno al lotto, mi maledivo per aver dato retta a quei due, “dai, un salto veloce alla Bica e poi andiamo”. Guardai sul display del mio cellulare: 00:42, mi dissi che c’era tempo e che dovevo stare tranquillo, perché il mio amico non avrebbe cominciato a suonare prima delle tre.

La Fábrica, un’antica fabbrica di armi e di materiale bellico, fu per decenni un edificio abbandonato, tornò in vita grazie all’impegno e alle battaglie di un collettivo politico che ora gestiva lo spazio attraverso una concessione comunale. Concerti musicali, presentazioni di libri e proiezioni di film oltre ad altri eventi culturali anche di carattere internazionale, uno su tutti, il festival internazionale di fotografia. Alle prime ore del primo giorno del nuovo anno, intorno alle tre di mattina, avrebbe suonato anche Mick, un mio amico musicista italiano che viveva a Lisbona già da molto tempo, si sarebbe esibito insieme a un gruppo africano molto famoso in Portogallo in quel momento. Per la festa di Capodanno, oltre al classico cenone, era stato organizzato un concerto non stop da mezzanotte alle sei di mattina dove si sarebbero alternate diverse band nazionali e straniere. La Fábrica si trovava in un quartiere in continua crescita, se ne parlava già da diverso tempo sui giornali e sulle riviste portoghesi, situato a sud dell’Oceanário di Lisbona, tra il museo dell’Azulejo e Parque das Naçoes, era rimasto a lungo abbandonato e disabitato prima di vivere una veloce e brillante riqualificazione. C’era stato negli ultimi anni uno sviluppo creativo, molti magazzini e palazzi abbandonati presenti nel territorio venivano recuperati, nascevano nuovi spazi sociali, gallerie d’arte contemporanee e luoghi di coworking, giovani artisti e imprenditori con la loro intraprendenza e determinazione stavano trasformato il volto di Marvila, divenuto ora un quartiere sempre più di moda e ricercato da chi poteva togliersi lo sfizio di vivere in un ambiente  artistico e bohémien.

“Posso dartene tre a prezzo dimezzato, trenta euro anziché sessanta, cenone escluso però, poi fai sempre in tempo rivenderteli se decidi di fare altro quella notte”, Mick l’incontrai casualmente a metà dicembre di un tardo pomeriggio, ero appena uscito da un supermercato dove andavo solitamente a far spesa, stavo tornado a casa, mentre lui si stava dirigendo in pub nelle vicinanze dove avrebbe suonato quella sera.

“Peccato che non riesci a passare, comunque se ci dovessi ripensare, suono fino a  mezzanotte”.

“Guarda non credo ci sarò stasera, penso invece che ci  vedremo il 31”, gli risposti e lo salutai, proseguendo verso casa mia con i tre biglietti in tasca che gli avevo appena acquistato.

“Dai che si è liberato, prendiamolo al volo”, si gettò su un tavolino e delle sedie libere, davanti all’entrata del Cubano, un pub che conoscevo e che si trovava all'inizio di una traversa della Bica. Simone si era accorto in mezzo alla confusione di un tavolo, pochi secondi dopo ero seduto a fianco a lui, mentre sull’altro lato si era accomodato prepotentemente Marco, in mezzo tra Gisele e Dafne, quest’ultima arrivata tre giorni prima da Rio de Janeiro per trascorrere l’ultimo dell’anno insieme alla sua amica del cuore fin dai tempi delle scuole superiori. Gisele invece nella capitale portoghese ci viveva da tempo, illustratrice per diverse case editrici, arrivata grazie a uno scambio culturale anni prima, aveva deciso di trasferirsi definitivamente.

“Non c'è tempo da perdere” disse Simone prendendo qualcosa dalla tasca e mettendosela  in bocca, poi cominciò a rullare galinhas una dopo l’altra, le accendeva, faceva due tiri e le passava. Dopo venti minuti seduti ancora a quel tavolo, Gisele, palesemente provata rispetto a tutti da quella fumata collettiva, riuscì a ricomporsi:

“Ragazzi, io e Dafne andiamo all’Ipanema, lo conoscete? C’è un concerto, ho appuntamento lì con dei miei amici, volete venire con noi?”.

“Certo!”, le rispose Marco prontamente, non aveva mai smesso di parlarle e di sorriderle fin dal primo approccio per strada. Ci apprestavamo così dirigerci a Cais do Sodré dove si trovava l'Ipanema, guardai sullo schermo del mio cellulare: 01:42, mi dissi che c’era ancora del tempo e di stare calmo. L’Ipanema era quasi nella Pink Street, questo pezzo di asfalto colorato di rosa menzionato sulle migliori guide turistiche del mondo per essere l’arteria principale e più cool del divertimento notturno e giovanile della città. Quando finalmente arrivammo mi rullai una sigaretta di tabacco e me l’accesi, guardai ancora sullo schermo del mio cellulare: 02:02, c’erano voluti venti minuti a piedi, più del doppio che ci si metteva  normalmente per arrivare a Cais do Sodré partendo dalla Bica. Tra strade affollate e deliri vari, tra chi urlava, si baciava, ballava e si drogava all’aperto, ci trovavamo finalmente di fronte al locale musicale più frequentato dalla comunità brasiliana. Era stracolmo, la calca che si vedeva dalla vetrata era impressionante e fu impossibile accedervi, Gisele si mise comunque alla ricerca dei suoi amici, inizialmente sperando di trovarli in mezzo alla folla, poi provò a chiamarli più volte al cellulare senza successo, passò più di mezz'ora e dopo l’ennesima sigaretta, era davvero arrivato il momento di muovermi e di trovare il modo di andare alla Fábrica con o senza Marco.

“Vedo la scia della mia mano che si muove, si! Finalmente cazzo, si parte!”.

Cominciavano i primi effetti del suo trip, aveva ingerito dal Cubano un quartino di francobollo imbevuto all’LSD davanti ai nostri occhi e senza che ce ne rendessimo conto. Guardai sullo schermo del mio cellulare: 02:52,

“Marco io vado, rimani, non ti  preoccupare”, gli dissi sorridendo e strizzandogli un occhio, mi dileguai e dopo essermi fatto largo tra la folla di gente che invadeva le vie di Cais do Sodré e aver percorso diverse centinaia di metri a piedi, arrivai in uno slargo completamente vuoto, non c’era l’ombra di un taxi. Di prenotare un uber, sempre ce ne fosse stato uno a disposizione a quell’ora, non se ne parlava, il mio telefono si era appena scaricato. Pensai gli autobus notturni per un attimo ma a quell’ora e in quel giorno erano un’incognita, mi rimaneva solo una possibilità: cominciare a camminare lungo la frente ribeirinha, il lungo fiume che si sviluppa a Lisbona sulla riva del Tejo, otto km circa che partono dal Padrão dos Descobrimento e dalla Torre de Belém fino alla stazione ferroviaria e metropolitana di Santa Apolónia, e sperare una volta arrivati lì, di trovare un taxi nel piazza antistante, dove se ne trovava sempre qualcuno libero e a tutte le ore. Lo sapevo bene, abitavo lì vicino, nel quartiere di Alfama. 
Da Cais do Sodré a Santa Apolónia, dovevo percorrere poco più di due chilometri, mentre camminavo riflettevo che per quanto potessi andare spedito non avrei impiegato meno di venti minuti a cui ne dovevo aggiungere altri dieci, il tempo che un taxi ci metteva mediamente dalla stazione per raggiungere la Fábrica. Arrivai alla stazione, non c’era nessuno, la strada e la piazza erano desolate, guardai l’orologio in alto collocato sopra l’entrata principale di Santa Apolónia: 03:20, scartai anche la possibilità di attendere disperatamente il passaggio di un bus notturno. Per un attimo mi balenò l’idea di continuare a piedi, fui abbastanza lucido e razionale per evitare di intraprendere tale avventura, altri quattro chilometri, significavano almeno quaranta minuti, troppo per riuscire ad assistere all’esibizione di Mick insieme alla band africana del momento. L’autostop era l’unica possibilità, fermo e lungo la strada rullai l’ennesima sigaretta e l’accesi, dopo dieci minuti non era passata nessuna automobile. Mi arresi, spossato, più mentalmente che fisicamente, era il momento di rientrare a casa, la mia notte di Capodanno finiva ingloriosamente nella mia stanza da letto mentre quella di Marco continuò oltre l’alba a casa di Gisele. Non seppi mai cosa fece invece Dafne, ma immaginavo si fosse conclusa nella stanza degli ospiti che le aveva messo a disposizione la sua amica brasiliana. Quando passai a TascaBo una settimana dopo, Frank e Maria mi raccontarono che furono costretti a cacciare via le persone, alle cinque di mattina c’erano ancora una dozzina di clienti che non volevano tornarsene a casa, finirono per litigare con alcuni di loro. E Simone?

Una troupe televisiva si trovò a passare per lavoro, intorno a mezzogiorno di quel primo gennaio, nello slargo dove si stava svolgendo in quel momento una scena che ritennero così importante da filmarla. Divenne un reportage di colore per il notiziario della sera, fu rilanciato anche in rete e in pochissimo tempo fu uno tra i video più virali e popolari del mese sui social network. Simone mi faceva spesso venire in mente, non so perché, un verso di José de almada negreiros nel suo poema rosa dos ventos in bella vista all'interno della stazione metropolitana di São Sebastião: “Até hoje fui sempre futuro”. Mentre la troupe televisiva lo filmava, venne fermato e perquisito dalla Polizia, ballava da solo a Cais do Sodré in Praça de São Paulo, in una piazza vuota e con un cielo terso a fargli da cornice. Pura poesia, come la scritta che appariva sempre più spesso sui muri dei palazzi in Alfama vicino casa mia.

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