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Wednesday, 29 April 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a VicoQuartoMazzini

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Ventottesima intervista per Lo stato delle cose. In questo appuntamento incontriamo Michele Altamura e Gabriele Paolocà di VicoQuartoMazzini.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

VicoQuartoMazzini è compagnia con sede a Terlizzi in provincia di Bari. Tra le loro opere più significative ricordiamo: Diss(è)nten, Amleto FX, Bohème!, Karamazov, Vieni su Marte.


Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La costruzione di un’impalcatura di senso, di un edificio creativo da dare in mano allo spettatore. Un giocattolo con cui farlo giocare, lo spettatore, il tempo necessario a far sì che ritenga imprescindibile quella porzione di vita che gli ha dedicato. La creazione scenica è qualcosa che causa dipendenza, ti causa dispiacere per chi non può provarla ma è anche un vortice dove spesso non ti vorresti trovare. È un lavoro da alchimisti, da divinità mancate, da studiosi incalliti e artigiani istintivi. Ha bisogno di cura e di follia, di costanza e istinto. Si deve sapere da dove si viene, da dove veniva chi prima di noi ha avuto la prontezza di lasciare una traccia che possa fare un minimo di chiarezza, e poi si deve andare senza paura, sperando che la “tua” traccia si imprima senza che tu te ne renda troppo conto.
Ogni volta che decidiamo di dar vita a una nuova creazione impieghiamo mesi interi a interrogarci umanamente chiedendoci cosa davvero riteniamo urgente. Non ricerchiamo un’urgenza generica (l’urgenza non va confusa con l’attualità) ma cerchiamo di scavare umanamente in noi stessi alla ricerca di un magma che ci spinga a creare, a costruire una drammaturgia e salire sul palcoscenico. Non facciamo teatro militante ma siamo alla costante ricerca di un teatro “politico”, e per essere politico è necessario che sia estremamente personale, che ci riguardi personalmente senza essere per forza biografico. Abbiamo bisogno di pensare molto in fase preliminare perché abbiamo sperimentato che è l’unico modo per non essere mentali durante la creazione vera e propria e concentrarci, invece, sui meccanismi che liberano l’istinto. Non è l’unico approccio possibile, non è un metodo né un impianto teorico. È il modo più funzionale che abbiamo faticosamente sperimentato per mettere a disposizione il nostro corpo di attori al servizio delle nostra arte. Alimentare l’istinto vuol dire approfondire la nostra pratica attorale, registica e drammaturgica, prova dopo prova, replica dopo replica.
Perché sia efficace il nostro lavoro necessita di tempo e di risorse produttive. Ci piacerebbe poter immaginare di disporre delle stesse risorse produttive di cui disponevano i grandi maestri che tanto ci piace rimpiangere. Abbiamo bisogno di avere la libertà di poter comprare un pianoforte per poi poterlo bruciare in scena, abbiamo bisogno di mangiare mentre cestiniamo un’idea per mesi interi, abbiamo bisogno di poter pagare una decina di attori, dei più bravi, per poi guardare tutti insieme, incantati, un maestro delle luci che fa gridare la scena durante le prove.
L’istinto teatrale non ha a che fare con la spontaneità, piuttosto ha a che fare con lo studio, con la pratica. In un sistema che ti chiede di essere sempre pronto a cogliere le occasioni produttive, a partecipare ai concorsi, ai bandi, ai premi, abbiamo deciso di prenderci il nostro tempo.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Se è insufficiente a livello nazionale, figurarsi quanto può essere faticoso costruire la propria casa al sud, dove si sente fortissima la mancanza di fondazioni che possano sostenere il lavoro di un’impresa creativa, dove i contributi regionali (quelli comunali non esistono) arrivano con mesi (se non anni) di ritardo, dove le strutture non hanno la forza (e a volte la volontà) non solo di sostenere, ma addirittura di ospitare semplicemente una replica del tuo spettacolo. Il nostro ultimo lavoro in Puglia è stato replicato per sole due volte. Non è una polemica, è un semplice dato da cui far partire un’analisi.
I festival si moltiplicano è vero, ma questo moltiplicarsi causa un progressivo assottigliarsi delle risorse e, con queste poche risorse, i festival con un occhio volto alla ricerca devono sobbarcarsi tutte le istanze di quelle compagnie che non trovano spazio nei circuiti ufficiali, quindi, i questuanti alla porta dei direttori artistici di questi festival aumentano.
La percezione che si ha delle istituzioni (Stato, Regioni, Comuni) è quella di un proprietario di casa che cerca continuamente, in tutti i modi, di metterti alla porta. Tutto quello che è rimasto di buono nel rapporto tra istituzioni e cultura sono le briciole di una gestione politica che nei decenni scorsi ha finanziato, lautamente, lo spettacolo dal vivo. Ma adesso i politici non ne possono più di noi teatranti, ci vedono come un peso: “Piange l’intero stato sociale, voi di cosa vi lamentate!”. Avremmo bisogno di politici che vadano a teatro, che leggano di teatro, che ne riconoscano il ruolo educativo all’interno della società per far sì che le poche risorse che ci sono vengano distribuite non per questioni clientelari ma per vero spirito di servizio pubblico.
Ma non vogliamo lamentarci e basta. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo costantemente di proporre soluzioni. Ad esempio, crediamo che si debba potenziare il rapporto tra le strutture e le compagnie. Durante una riunione di C.Re.S.Co., qualche mese fa, abbiamo lanciato una provocazione: non dare più contributi ministeriali alle compagnie oberandole di lavoro amministrativo e di parametri al limite della follia, e istituire dei bonus per le strutture che sappiano prendersi cura delle realtà produttive dando loro una casa, sostenendole (non solo economicamente) nel loro percorso di crescita. È un’utopia?


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Se la gente tornasse a teatro, reclamasse teatro, ecco che i problemi di circuitazione finirebbero. Ma l’amara verità è che la gente non va più a teatro. Le statistiche dicono che siamo i più ignoranti di Europa. Dobbiamo rassegnarci al fatto che noi italiani non siamo come (un esempio a caso?) i tedeschi, che vedono nell’accesso al teatro un proprio diritto.
Forse dobbiamo considerare defunto il concetto di circuitazione come lo abbiamo sempre immaginato, più dai racconti dei nostri “genitori artistici” che dalla nostra diretta esperienza a dirla tutta.
Forse è il momento di capire che per salvarci dobbiamo fare le cose “insieme”, mettere in comune le competenze e non immaginarci più come delle monadi, gli uni contro gli altri per giunta. Siamo troppo impegnati a garantirci la sopravvivenza per alzare la testa e capire che solo facendo rete potremo salvarci. In Italia c’è un reale problema di sovrapproduzione: si produce più di quel che il mercato può realmente sostenere. Non lo diciamo noi, lo dicono i dati. Il sistema dovrebbe favorire le sinergie, le relazioni. Un buon direttore artistico dovrebbe esser capace di proporre delle visioni che prevedano la collaborazione tra gli artisti, non fare “la spesa” per la sua programmazione come si farebbe al mercato. Allo stesso tempo, noi artisti dovremmo dialogare di più in modo da arricchire la nostra cifra artistica con nuovi incontri e contemporaneamente potenziare la nostra “voce” politica.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la vostra opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l'esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Finché il teatro non diventerà un’app non morirà mai. Mai. È un’arte démodé, lo sappiamo bene. In un momento storico in cui tutto deve essere facile, veloce noi dobbiamo rivendicare il diritto a essere complessi, lenti. Il teatro richiede uno sforzo per chi lo fa e per chi lo guarda (critico o spettatore) e in questo c’è ancora la sua unicità. La superficialità in cui siamo immersi si scioglie come neve al sole di fronte alle “grandi storie” che il teatro sa raccontare. Sarah Kane diceva che il teatro non morirà mai perché qualsiasi comunità di esseri umani, anche dopo un disastro nucleare, avrà la necessità, nell’istante successivo al soddisfacimento dei propri bisogni primari, di raccontarsi storie. E non è una questione stilistica perché le grandi storie le si possono raccontare con le parole, con la danza, con la performance. Sopravvivremo se sapremo essere all’altezza delle grandi storie di cui è pieno il mondo, tutti i giorni.


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un'epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo voi gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Chi decide di fare arte lo fa perché un giorno lontano e sbiadito ha sentito una “vocazione”. La vocazione è fatta di tutte le immaginazioni che hanno popolato la sua infanzia, è qualcosa di misterioso. Risiede nella memoria, nelle visioni che hanno origine fuori dal teatro. La scintilla della vocazione nasce da elementi esterni che hanno a che fare intimamente con la nostra realtà. Tenere viva quella vocazione, ricercarla costantemente, è un modo per confrontarsi col reale, per non scollarci mai del tutto da quella dimensione quando creiamo in teatro. Solo tenendo vivo questo legame in maniera intima e totalmente personale saremo capaci di produrre creazioni che non siano “a tesi”, militanti o civili. Quando si dice che il teatro debba essere specchio della realtà spesso si cade in equivoco. Lo specchio non riflette soltanto: riflette e ribalta l’immagine. Senza quel ribaltamento non esiste rappresentazione.

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