“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 04 December 2012 18:28

Ucciderò Roger Federer (parte 3)

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3. “Non mi venderò più, mai più!”

Non si può certo dire che il piccolo signor F non si desse da fare nella vita, non che si dannasse l’anima pur di fare qualcosa ad ogni costo ma, come si suol dire, si muoveva parecchio, si guardava intorno con attenzione, non era una di quelle persone che si arrendevano facilmente, anzi era attentissimo a ogni evento che accadeva all’interno delle agenzie di lavoro interinale dei cui destini si sentiva partecipe – le disprezzava, chiariamo, e il suo odio a tratti era feroce, molti possono testimoniare di averlo sentito inveire contro quelle “vergognose istituzioni figlie di una vergognosa gestione dell’amministrazione pubblica” (usava spesso queste parole, ma ancor più spesso balbettava e sbagliava qualche finale di parola) ma egli non poteva fare a meno, nella sua “analitica” ricerca del lavoro, di entrare in contatto con quella “gentaglia incompetente” (ci scusiamo con tutti coloro che spendono la loro vita soffrendo e lavorando per le agenzie di lavoro interinale, ma per dovere nei confronti del lettore riportiamo le parole esatte del piccolo signor F così come c’è capitato a più riprese di sentirle pronunciare).

Insomma il piccolo signor F si dava da fare nella vita e lui in un certo senso ne andava fiero, sentiva il vigore della sua persona quando combatteva contro le avversità della burocrazia del lavoro, quando lo mandavano di ufficio in ufficio, quando gli promettevano e non gli mantenevano, quando costringeva se stesso a fare file su file, ore su ore, sperando che qualcosa potesse venir fuori dalla sua “situazione storica”, ma a lui non importavano quelle perdite di tempo, lui era fiero di se stesso, non troppo ovviamente, ma quanto bastava per poter condurre avanti la sua magra esistenza con quel pizzico di amor proprio che serve a tutti e così nella sua fervida immaginazione prendevano spesso forma riflessioni sulla virilità o addirittura su quella dinamica esistenziale che viene chiamata (dai nostri dotti intellettuali) “titanismo”, l’immagine potente, spesso a torso nudo (e quante volte si era ripromesso di mettersi definitivamente a dieta), di un uomo che combatte contro i destini avversi della realtà, ed è proprio così che a volte si immaginava il piccolo signor F, a torso nudo mentre combatteva contro il fato dalle fattezze orribili di antiche divinità della violenza (che nei nostri tempi, come dicono in molti, hanno piuttosto l’aspetto composto di un elegante e ordinato signore in giacca e cravatta che con le mani profumate e le unghie ben tagliate sorride a tutte le persone che incontra e distrugge almeno altrettante vite ogni volta che prende una decisione, anche se spesso, e molte altre persone se lo immaginano invece così, hanno la figura trasandata e sdrucita di un piccolo essere dai lineamenti del volto cadenti e indecisi, dalla pelle liscia come olio di ricino sulla quale spuntano radi peletti molto ma molto pungenti, che gestisce un piccolo ufficio o una grande azienda indossando maglioncini presi sulle bancarelle). Soltanto questa sorta di “spaghetti-titanismo”, tipica dell’era post-“tramonto dell’occidente”, gli permetteva di andare avanti e di mettersi alla prova partecipando a estenuanti colloqui di lavoro.

Lui raccontava – e non sapete la madre, sua unica confidente, almeno in quest’ultimo periodo della sua vita, quante volte aveva dovuto sentirsi fare questo racconto, ma a lei quel figlio vuoi o non vuoi piaceva ed era veramente triste e partecipe delle sue peripezie anche se solitamente non si lasciava andare a lacrimevoli commenti – che il primo passaggio consisteva nei colloqui collettivi, dove si doveva dimostrare di essere superiore agli altri in tutto e per tutto, dove bisognava essere capaci di mettersi in mostra sorridendo e mostrandosi spigliati, dove si doveva (“con il massimo rispetto” aggiungeva molto argutamente il nostro piccolo eroe) essere capaci di calpestare le altre persone non perché uno non ami e rispetti il prossimo (“questo non sia mai detto!” proseguiva nei suoi commenti sarcastici “d’autore” – era il suo racconto prediletto quello e non vedeva l’ora di incontrare sempre nuove persone per sfoggiarlo) ma perché purtroppo la vita è una giungla dove vince il più forte, etc. etc. Ma tutte queste cose – cioè il comportarsi come un essere di natura in un mondo selvaggio e feroce come quello della ricerca del lavoro – purtroppo non riuscivano al nostro piccolo signor F in primo luogo perché non era capace di dimostrarsi superiore agli altri anche nel caso in cui lo fosse realmente stato in qualcosa, anzi quando una volta ci aveva provato (se l’era messo proprio in testa!) era sembrato assolutamente ridicolo e dopo aver detto una sciocchezza qualsiasi (qualcosa del tipo “anche se il colloquio è collettivo, io non mi curo per nulla di coloro che sono qui presenti, ed è per questo che sono convinto di passare alla selezione successiva”) aveva suscitato l’ilarità generale e feroce dei colleghi non tanto per il contenuto (che comunque non brillava per intelligenza e sagacia) ma per la forma antiquata con la quale lo aveva espresso alzandosi di scatto in piedi e parlando macchinalmente come ripetendo a memoria una vecchia formula chimica di cui non si conosce più o non si è mai conosciuto l’esatto significato, un’ilarità tale che il ricordo di quegli attimi lo aveva tormentato per mesi quando la notte non riusciva a chiudere occhio e non voleva prendere più quei benedetti ansiolitici che il buon psichiatra, tal robusto dottor Z, gli aveva prescritto, e poi non riusciva nei suoi intenti in secondo luogo perché non era capace di sorridere senza alcun motivo e quando ci provava sembrava veramente una persona stupida (lo dobbiamo dire senza mezzi termini, purtroppo) e, anche dopo mesi di allenamento, non era riuscito a costruirsi un’espressione gioiosamente e fieramente ironica, in terzo luogo perché non riusciva a combattere, non era colpa sua, era dal punto di vista esistenziale un non-belligerante, ma non perché amasse la pace o fosse un appassionato di pacifismo militante (anzi spesso lo giudicava con disprezzo – faceva parte del suo “spaghetti-titanismo”), ma proprio perché non ci riusciva, era tendenzialmente una persona schiva ma non fiera e in più incapace non soltanto di lottare per la vita e il lavoro ma anche di mantenere una discussione su toni elevati perché essenzialmente introverso oltreché un po’ all’antica.

Il piccolo signor F proseguiva poi dicendo – mentre spesso la madre cominciava a sbadigliare ma non tanto per la noia del racconto ripetitivo quanto per quella insonnia che oramai da decenni la costringeva a svegliarsi sempre prima delle cinque del mattino, sbadigli che però sotto sotto infastidivano il nostro piccolo signor F – che se si è riusciti a passare il colloquio collettivo si giunge ai colloqui individuali dove una sorta di “psicologismo a buon mercato” dovrebbe indagare le motivazioni che spingono le persone a cercare proprio quel tipo di lavoro e non un altro (“perché poi ovviamente”, ripeteva costantemente il piccolo signor F, oramai scaltrito dalla sua esperienza sul campo e con la sua solita modesta arguzia, “uno sceglierebbe il call-center o il porta-a-porta per passione!”), infine, superata anche questa prova, c’è l’offerta di lavoro concreta “e allora c’è veramente di che divertirsi”, ripeteva e ripeteva il piccolo signor F all’anziana e malata madre, perché, se tutto va bene, nel senso che perlomeno vi è corrispondenza tra l’annuncio che offre il lavoro e l’effettiva offerta di lavoro proposta in sede, si tratta solitamente o di vendita porta-a-porta ad esempio di contratti telefonici con conseguente truffa per il povero vecchietto o vecchietta di turno, quando ovviamente il vecchietto o la vecchietta di turno scaltriti dall’esperienza o da qualche parente più giovane e avvezzo a queste modalità non chiama la polizia (“e giustamente!” amava aggiungere il nostro piccolo eroe), o ossessionanti call-center per vendere di tutto (e il piccolo signor F non usava “tutto” come iperbole) dall’olio d’oliva igt ai corsi d’inglese.

Il nostro eroe – e a questo punto bisogna sottolinearlo – aveva però maturato una certa “moralità” e non accettava mai lavori che potessero metterla in discussione. Mantenersi integri era per lui ben più di un dovere, era una forma di resistenza alle “porcherie” (è un termine da lui stesso molto usato) della realtà, era un modo per ribadire cartesianamente “io esisto”, una forma di costruzione della propria individualità e della propria personalità in maniera rigorosa e inattaccabile. Un modo per resistere ai continui fallimenti, senza cadere nella depressione maniacale. A volte (capitava il più delle volte dopo l’ennesimo fallimento lavorativo) si guardava allo specchio, osservava i suoi piccoli occhietti, il suo naso non grosso né piccolo, la sua bocca dal taglio insignificante ma non brutto, e, mentre rifletteva sul fatto che non sempre pienamente si riconosceva in quella non gradevolissima figura che lo specchio restituiva, diceva con immenso pathos e con gli occhi gonfi di ardore: “Non mi venderò più, mai più!”, anche se sapeva benissimo (e una parte della sua complessa mente impugnava costantemente queste considerazioni) che il conto in banca era sempre più esiguo e che i suoi amatissimi genitori non erano di certo eterni e che, dunque, si sarebbe certamente venduto (e anzi sotto sotto morbosamente lo desiderava) il prima possibile e al peggior offerente, se solo fosse stato capace una buona dannata volta di durare al lavoro più della settimana di prova (quella senza remunerazione, per intenderci). L’equilibrio mentale di questi tempi non è cosa facile, la stadera, per mantenersi in bilico sull’abisso, deve avere da un lato grandi proponimenti etici e una moralità da “brave persone” che permetta all’uomo di guardarsi allo specchio (e magari di riconoscersi) senza necessariamente sputarsi in faccia per tutto quello che compie quotidianamente, sull’altro piatto la possibilità anzi la necessità di essere moderatamente cinici laddove serva, e serve sempre quando si tratta di combattere per un posto di lavoro. Tutto questo, però, non aveva raggiunto il livello di chiarezza necessario nel piccolo signor F che maturava sempre più strane idee (e il lettore, forse, a questo punto se ne sta già rendendo conto) e che rischiava ogni giorno di perdersi, di lasciar pendere la stadera da un lato, di perdere l’equilibrio e di sprofondare in quell’abisso vischioso che è l’assenza di cognizione della propria esistenza.

Comunque, mentre pensava a come applicare nella realtà quotidiana, nell’angosciante “oggi” che quotidianamente gli si riproponeva, la massima “Ucciderò Roger Federer”, e mentre oramai si trovava a due passi dalla metropolitana che lo avrebbe condotto al Centro Direzionale, “luogo infido” pensava, si accorse di aver dimenticato quella piccola borsa, che di solito infila all’interno dello zaino, dove tiene i documenti e altri effetti personali, fondamentali quando si sta andando a fare un colloquio di lavoro. Era quello, se proprio vogliamo affermarlo, un giorno importante per il nostro piccolo signor F, o, per meglio dire, un giorno importante come vari altri nei suoi ultimi tre quattro anni e più.

Anzi – ed è il caso di sottolinearlo – si trattava di una “due giorni” importante. Era una “due giorni” che gli sembrava in un certo modo decisiva. Oggi un colloquio di lavoro, domani la prova pre-selettiva del concorsone. Non era più settembre ed era già ottobre (e abbiamo spiegato quanto i mesi del calendario influissero nella situazione emotiva del nostro eroe) ma quest’anno lavorativo poteva cominciare proprio bene, aveva riflettuto durante la notte il piccolo signor F che, stranamente, era trascorsa discretamente permettendogli di incontrare un po’ di sonno profondo. Si trattava di fare un colloquio di lavoro per un importante gestore di “corrente elettrica”, una di quelle tante aziende nate con le liberalizzazioni e che, come accade soltanto in Italia, si rivelano molto peggio del già discreto peggio rappresentato dall’ENEL, e il posto richiesto era qualcosa di molto vago ma riguardava l’amministrazione, quel classico lavoro di ufficio, quello “sicuro”, quello a cui tanto agognava il nostro piccolo signor F, e lui ci pensava spesso e quasi con commozione perché non aveva ancora smesso di sognare (questo era uno dei suoi limiti, le fantasticherie e le passeggiate), pensava spesso a un lavoro che potesse portare con sé uno stipendio fisso, una cifra che uno potesse gestire serenamente mese dopo mese come meglio crede, attraverso la quale fosse possibile fare progetti (e non sapete quanti ne aveva il nostro piccolo signor F, su tutti un nuovo impianto di illuminazione per la sua abitazione), una cifra con la quale ci si potesse permettere, che so, anche di andare a teatro (era un vezzo che al nostro eroe sarebbe piaciuto e ricordava, ma come se il ricordo fosse immerso in un passato vissuto da qualcun altro, che quando era un giovane studente poteva permettersi qualcosina di svago) o a mangiare fuori a base di pesce in uno di quei ristorantini al Borgo Marinaro, da cui salgono profumi ineffabili quando appunto il nostro eroe passeggia e fantastica sul lungomare.

Insomma bisognava ritornare a casa, prendere la borsa con i documenti, correre alla metropolitana e applicare la massima “Ucciderò Roger Federer” durante il colloquio, non c’era altra possibilità che questa.

 

 

 

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