“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 20 March 2020 00:00

L’inverno del loro scontento

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Con l’introduzione di Harold Bloom e la bella traduzione di Greti Ducci, le edizioni BUR hanno riproposto a un prezzo modico, nella collana Grandi Classici, uno dei più meritatamente famosi romanzi di Edith Wharton, scritto nel 1911: Ethan Frome.

La Wharton, nata a New York nel 1862 e morta in Francia nel 1937, fu la prima donna a vincere nel 1921 il Premio Pulitzer con L'età dell'innocenza. Discendente di un’antica e ricca famiglia di New York, dopo la separazione dal marito (un banchiere colpito precocemente da disturbi psichici), si trasferì in Francia nel 1907, dedicandosi alla letteratura su consiglio e incoraggiamento dell’amico Henry James. La sua copiosa produzione narrativa ebbe prevalentemente come oggetto i rapporti tra il singolo individuo e la società di appartenenza, regolata da rigidi schemi di comportamento e da una mentalità conservatrice e classista. Nel corso della prima guerra mondiale, la scrittrice si adoperò in favore dei disoccupati e dei rifugiati, ottenendo il riconoscimento della Legion d’Onore francese.
Da Ethan Frome è stato tratto nel 1993 un film diretto da John Madden e interpretato da Liam Neeson e Patricia Arquette.
Harold Bloom nell’introduzione afferma che questo romanzo breve è “la più americana” tra le storie raccontate da Edith Wharton, la più riuscita e certo la più letta: da essa sprigiona il senso tragico di un ambiente immerso non solo nel gelo e nel bianco indifferente dell’inverno, ma nell’apatia dei movimenti al rallentatore dei personaggi, nello squallore di una povertà immodificabile degli interni abitativi, nella “sofferenza cupa, insopportabile e, nel vero senso della parola, inutile” dei due protagonisti. Un dolore che permea il racconto e a cui non ci si può ribellare, trattato dall’autrice con pacato fatalismo, senza alcuna concessione alla retorica e al pietismo.
Ethan Frome si staglia nella narrazione come una figura scultorea, indimenticabile, nella sua muta rassegnazione a un destino feroce: il suo silenzio, la sua disperazione repressa e tormentata ha tuttavia la forza prometeica di una protesta contro il cielo: inascoltata proprio perché disumana.
Già nelle prime pagine viene presentato nella sua consistenza fisica, cui si contrappone una reticenza verbale che produce sospetto e timore: “Anche allora, sebbene non fosse più che una rovina di uomo, egli era la figura più imponente e impressionante di Starkfield. Non era solamente la sua altezza che lo distingueva, perché i nativi del luogo si riconoscevano facilmente per la dinoccolata, longilinea figura dalla razza straniera, più tarchiata: era l’aspetto possente e noncurante che aveva quantunque fosse zoppo e ciò gli impedisse ogni passo come lo strappo di una catena. Vi era qualcosa di lugubre e scostante sul suo volto, ed era talmente irrigidito e brizzolato che pensai fosse un vecchio, e rimasi sorpreso di sentire che non aveva più di cinquantadue anni”.
L’aspetto inquietante di Ethan non ne rispecchia la scalfibile emotività, la delicatezza dei sentimenti, l’espressa volontà di mettere in secondo piano i propri desideri di fronte a quelli altrui.
Le vicende della sua triste esistenza vengono raccontate dai compaesani con reticente pudore, ma anche con rispettosa solidarietà: “malattie e dispiaceri: ecco cosa è stata la porzione ben colma di Ethan, fin dalla prima portata… viveva in una profondità di isolamento morale troppo vasta per potervi accedere casualmente… sembrava far parte del muto, malinconico paesaggio, una incarnazione del suo gelido dolore, con tutto ciò che di caldo e di sensibile vi era in lui ben sepolto sotto la superficie; ma non vi era nulla di ostile nel suo silenzio”.
Ethan da giovane avrebbe voluto studiare ingegneria, si interessava alla tecnica e a ogni aspetto delle scienze cui riusciva ad avvicinarsi con i pochi mezzi messigli a disposizione dall’ambiente contadino e arretrato in cui viveva, nel New England; dapprima la morte del padre, poi la demenza della madre e le difficoltà dell’azienda agricola di famiglia, l’avevano indotto a sposare una lontana parente, più anziana di lui, Zeena − acida, malaticcia e rancorosa −, obbligandolo a rinunciare ai suoi sogni di riscatto sociale e culturale. La sua esistenza opaca e rassegnata sembrò improvvisamente rischiararsi con l’arrivo in famiglia di una giovane cugina della moglie, Mattie, tanto gentile e affettuosa quanto incapace di muoversi nella rude concretezza della cerchia parentale in cui era stata accolta.
Il sentimento di attrazione reciproca che inevitabilmente nasce tra Ethan e Mattie è avvertito come colpa e trasgressione, quindi negato interiormente e contrastato negli atteggiamenti: si esprime in improvvisi trasalimenti, in impercettibili sguardi incantati, in frasi troncate sul nascere, in involontari ed emozionati contatti di mani.
Quando la moglie megera, improvvisamente messa in allerta dalla propria gelosia e malignità, fingendo un aggravarsi della sua salute impone alla ragazza di andarsene da casa per lasciare il posto a una nuova domestica, i due giovani decidono di sacrificare il loro amore davanti all’invincibile dominio della cattiveria. Il loro immolarsi non si risolverà, come sperato, in un definitivo scomparire insieme nella morte, ma in un ulteriore e ancora più tragico destino comune di sofferenza.
Questa vicenda sentimentale, di un’intensità ascetica (come giustamente suggerisce Harold Bloom) trova nello sfondo sociale e naturale in cui si situa una rispondenza che la rende ancora più drammaticamente suggestiva.
L’inverno e la neve del paesino di Starkfield congelano i rapporti umani, rendendoli più lenti e più consapevoli, nella maestosità silenziosa e bianca del paesaggio, nella luce implacabile del giorno, nella vastità dei boschi, nella cupezza delle notti: “Dall’altra parte della cinta di abeti si stendeva ondulata dinanzi a loro la campagna aperta, grigia e solitaria sotto le stelle. A volte il sentiero li portava sotto l’ombra di una scarpata o attraverso la sottile oscurità di un gruppo di alberi spogli. Qua e là si vedeva, lontana nei campi, una fattoria, muta e fredda come una pietra tombale. La notte era così silenziosa che sentivano la neve gelata scricchiolare sotto i loro piedi. Il rumore della neve che cadeva da un ramo carico lontano nei boschi echeggiava come un colpo di moschetto, e a un certo punto una volpe abbaiò, e Mattie si strinse vicino a Ethan e accelerò il passo”.
Un passo accelerato che porterà entrambi a una rovinosa sciagura, più desiderata che involontaria.





Edith Wharton
Ethan Frome
Introduzione di Harold Bloom
Traduzione di Greti Ducci
Bur Rizzoli, Milano, 2018
pp. 145

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