“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 03 April 2019 00:00

La poesia di un'isola in Cees Nooteboom

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Nel 2016 Einaudi ha pubblicato un’antologia delle raccolte poetiche di Cees Nooteboom, scrittore olandese (L’Aja, 1933) di cui sono stati tradotti in Italia diversi romanzi, racconti e reportage di viaggio. Quest’anno è uscito un suo nuovo volume di versi, L’occhio del monaco, sempre per l’editore torinese, con l’attenta versione di Fulvio Ferrari.

Si tratta di trentatré composizioni in forma chiusa, di tre quartine caudate, in cui la coda è costituita da un emistichio reso perlopiù in italiano in settenario o in quinario. Secondo la nota conclusiva dell’autore, le poesie − scritte tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016 − traggono ispirazione da esperienze oniriche o visionarie vissute nell’isola frisona di Schiermonnikoog, letteralmente “isola dei monaci grigi”, nome derivatole dall’abbazia cistercense lì edificata nel medioevo.
Sono versi sospesi in una fredda atmosfera nordica, pregna di silenzio e solitudine, sullo sfondo di bianche sabbie sottili, correnti marine agitate, venti gelidi, pioggia sferzante. Nelle sere illuminate dalla luce del faro, o nelle albe gelide, uniche presenze di vita sono i gabbiani lamentosi, le funeree cornacchie, le martore zampettanti tra le dune.
Altrimenti, sono i fantasmi del passato che tornano ad assediare, benevoli o minacciosi, la memoria del poeta, rinfocolando rimpianti, sensi di colpa, nostalgie: i genitori, i fratelli, la prima donna amata: “Qui incontro chiunque, demoni di altre / vite, animali d’un blasone dimenticato, / donne in forma di leone, unicorni, / maiali in maschera... // Così tutto ritorna”, “lo stridio d’un primo desiderio, / disperso e frantumato contro una quantità / di anni, il cardo del non voler dimenticare, / portami con te, portami con te, // ma dove?”, “Perché non ci lasciano in pace, i morti?”.
I sogni, confusi con la realtà quotidiana di giornate vuote, nel paesaggio di un’isola concreta che diventa archetipica, conducono con sé messaggeri di un’aldilà irraggiungibile: un “dio faticoso” seduto sul bordo del letto, “sei angeli con ali stanche”, un oscuro monaco cechoviano, filosofi greci dialoganti di argomenti etici, Paul Valéry che interroga Leonardo da Vinci sull’esistenza dell’anima. Quesiti eterni su cui Nooteboom sembra accanirsi, in un’esplorazione assidua del perché dell’esistere, o nell’indagine tormentante sull’essenza della poesia, sul dovere testimoniale della parola (“Quando comincia un mottetto, / una poesia, una luce che appare senza fonte? / Chi pensa un primo verso prima di pensare?”).
Incubi e fantasie si alternano a riflessioni meditative, stimolate quasi dall’assenza di suoni e dal vuoto di figure umane dell’ambiente, di cui il poeta sa sottolineare con acuta sensibilità il fascino segreto e impalpabile: “Nubi di zinco, casematte d’acqua, grigie, / vaganti alla luce del pomeriggio, rumore d’onde”, “non dune, ma rocce, / nere, piante con uncini e denti, capaci di bere la pietra aggrappate alla sabbia”, “Vento, la prima luce, / il mattino pieno di chiacchiere di uccelli, cannaiole, / avocette, // svassi, una lingua che non parlo, che ascolto”.
Proprio alla quiete secolare dell’isola grigia, Cees Nooteboom pare voler chiedere il velo di nebbia clemente “che tutto nasconde”, affinché ogni cosa torni “in ordine”, “a posto”, offrendo finalmente una risposta a chi da tanto tempo la sta cercando.

 

 

 

 

 

Cees Nooteboom
L’occhio del monaco

Traduzione di Fulvio Ferrari
Einaudi, Torino, 2019
pp. 69

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