“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 17 April 2013 11:54

Pensai

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“Noi proviamo continuamente a sgusciare via da noi stessi, ma questo tentativo fallisce regolarmente, pensai, e in questo tentativo seguitiamo a incaponirci perché non vogliamo ammettere che a noi stessi non scamperemo mai se non con la morte. Adesso è scampato a se stesso, pensai, in maniera più o meno ripugnante. Farla finita a cinquant’anni, cinquantuno al massimo, ha detto una volta. Alla fine, pensai, si è preso sul serio”. Un frammento de Il soccombente, perché cominci l’articolo.

La scrittura di Bernhard è la scrittura del penultimo istante. Chi parla – sempre – è un sopravvissuto, uno scampato, uno sfuggito alla catastrofe, colui che – dopo la catastrofe – ancora ha parola. “E io solo sono scampato per recarne novella”: potremmo citare il Libro di Giobbe.
D’intorno a colui che parla e – parlando – ricorda, non c’è che distruzione: gli alberi sono spezzati, i ruscelli non scorrono, le montagne sono croste appuntite, le case sono tombe, le città cimiteri. Non s’ode altro fiato, non s’ode altro passo. Un uomo, sopravvissuto alla propria stessa esistenza, sta per fermare il proprio tempo ed il proprio respiro – che s’affanna e che rantola, spossato dagli eventi – e s’impegna perciò ad esalare la storia prima che giunga l’ultimo istante e, con esso, la morte. Nel riportare all’inizio un frammento – uno dei tanti possibili de Il soccombente – la nostra intenzione è di non badare al suo contenuto ma alla forma e, in particolare, alla reiterazione di un verbo: “Pensai”.
“Pensai”. “Pensai”. “Pensai”. Non si comprende Il soccombente se non si bada alla replica ossessiva e fastidiosa di questo “Pensai” che graffia, incide e ferisce quasi ogni pagina, quasi ogni frase. “Pensai” è la parola-chiave de Il soccombente per tre motivi: determina il ritmo della narrazione e, dunque, della sua ripetizione (sia lettura o recitazione); chiarisce che siamo in presenza di un monologo e, quindi, di una voce sola, alla prima persona singolare; volge il proprio fiato al passato generando una stratificazione temporale. “Pensai” è un abisso: letterario, memoriale, cronologico.
Non si comprende il lavoro svolto da Nadia Baldi su Il soccombente se non si bada alla replica ossessiva e fastidiosa di questo “Pensai” che graffia, incide e ferisce quasi ogni attimo dello spettacolo, quasi ogni suo momento teatrale. Da dove giunge il “Pensai”? Chi lo emette? Qual è la sua fonte, quale la gola che lo partorisce e lo genera? “Pensai” è detto – in apparenza – da Marina Sorrenti, che affianca Roberto Herlitzka in scena eppure – chi scrive – ha la sensazione che uno sforzo immaginativo (al contrario) debba farsi: Marina Sorrenti è su palco, ne carezza le quinte, i suoi talloni (nudi) toccano le tavole (nude) dell’assito ma lo sforzo che la regia ci impone è di comprendere ch’ella non c’è, che fisicamente non esiste, che la sua è una concretezza visibile che va resa trasparente perché ne rimanga soltanto il “Pensai”.
Marina Sorrenti è il passato ed, essendo il passato, è la memoria ed, essendo la memoria, è la narrazione letteraria de Il soccombente.
Marina Sorrenti non esiste se non come esiste il tempo vissuto che s’impone di vivere ancora divenendo uno spasimo, un dolore e un continuo pensiero ineliminabile che induce allo strazio, di sé e delle proprie carni, attraverso i ricordi.
Marina Sorrenti è l’abisso – letterario, memoriale, cronologico – dello spettacolo. I suoi piedi non sono piedi, le sue dita non sono dita, non sono capelli i suoi capelli, il suo volto non è il suo volto; ella non passa, non parla, non smuove un oggetto qualsiasi tra i pochi oggetti di scena (una delle quattro piccole lampade, un foglio di carta, la sedia nel centro) perché – per quanto appartenga alla nostra visione – ella non c’è se non come simbolo, segno o rumore di ciò che appartiene soltanto all’uomo, a Roberto Herlitzka, a colui che ha diritto a parlare.
Marina Sorrenti è prodotta da Roberto Herlitzka, appartiene a Roberto Herlitzka, è una sua promanazione: ella è tanto la storia ch’egli narra (cui infatti può rivolgersi con toni insistiti o deliranti) quanto la forma verbale ch’egli produce (i tratti alle pareti non ratificano graficamente le insistenze, i ritorni, i rovelli del flusso monologico?).
Una e una cosa dunque, entrambi e fino al termine, fino all’istante (l’ultimo) nel quale ella lo accoglie: come un burrone accoglie un suicida, come il passato accoglie chi vi si lancia o vi si abbandona, oramai derelitto.
Con la denotazione del ruolo di Marina Sorrenti altro va sottolineato della regia (ché del romanzo nulla ha da dirsi, essendo il più letto di Bernhard, il suo più discusso e criticamente analizzato).
Va sottolineata la scena composta dalle pareti di ardesia perché di lato, e sul fondo, possano essere impresse – a gessetto – certe esasperate persistenze del testo: i nomi, le date, i disegni allusivi alle pagine ed a concetti, pensieri o brandelli delle pagine stesse.
Va sottolineato l’utilizzo dello luci, la cui pallida flemma rimarca la necessaria sovrabbondanza di buio (connotazione cromatica della condizione claustrofobica del delirante), e che – gioco interessante – misura cronologicamente il racconto dandogli la durata di un giorno: due chiarissimi fari di lato albeggiano – infatti – all’inizio dell’opera mentr’essa termina con un faro soltanto che, da sinistra, tramonta verso destra: emblema, è il sole che si china lasciando che la notte sia notte, che la fine sia fine.
Va sottolineata la cura nel mantenimento della forma-monologo per cui, ad esempio, anche le battute dette da Marina Sorrenti (le frasi della locandiera, della sorella di Wertheimer, di Franz) vengono sibilate nel contempo da Roberto Herlitzka perché ad egli appartengono giacché – nel libro – tutto appartiene a chi ricorda, confessa e commenta.
Va sottolineata la capacità complessiva di fare del palco una tana o una stanza della memoria (nera, visionaria, chiusa sbarrata) nella quale un uomo, solo, può concentrare il proprio pensiero generando il proprio delirio: è questa comprensione de Il soccombente di Bernhard come luogo necessariamente murato (perché non una sola immagine – un primo piano, un luogo ameno, un divano – possa disperdersi libera, volando lontana ed altrove) a permettere a Roberto Herlitzka di adempiere al suo compito con l’attesa maestria: allucinato ed ironico, lirico e megalomane, paranoico ma dolcissimo, ora nichilista ora veggente, ora malato ora schizofrenico, Roberto Herlitzka – placido pazzo dostoevskijano contraddistinto da sguardi sul vuoto, grigi capelli, dita magrissime, guance scavate, fronte segnata – rende lo spettacolo della verbalità disturbante di Bernhard rendendone le frasi interrotte e spezzate, i ritorni circolari e costanti, i ritmi scuciti e dimessi: senza mai davvero fare pausa, senza mai davvero andare a capo.
Va sottolineato il coraggio di sfidare il pubblico con l’esposizione di questo tormento. Verranno, infatti, gli applausi e nel loro battere saranno ugualmente percepibili note distinte e diverse: emozione e sollievo, ardore e senso di liberazione, ringraziamento sincero e desiderio di fuga.
È questo, d’altronde, l’effetto molteplice che genera Bernhard; è questo l’effetto molteplice che genera l’inferno mortifero, scorticato e stridente, di ogni suo testo; è questo l’effetto molteplice che genera un uomo giunto al penultimo istante.
Poi esala la storia, la notte fa la notte, la morte fa la morte. 

 

 

 

Il soccombente
di Thomas Bernhard
riduzione dall'omonimo romanzo a cura di Ruggero Cappuccio
regia Nadia Baldi
con Roberto Herlitzka, Marina Sorrenti
musiche originali Marco Betta
ambientazioni videografiche Davide Scognamiglio
progetto luci, costumi e scene Nadia Baldi
assistente alla regia Davide Paciolla
luci Giuseppe Falcone
fonica Valerio Rodelli
grafica Giovanni Natiello
produzione Teatro Segreto, Neraonda
durata 1h 20'
Napoli, Teatro Nuovo, 16 aprile 2013
in scena dal 16 al 21 aprile 2013

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