“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 16 July 2018 00:00

La forza tragica e misteriosa di “mamma Africa”

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Orestea africana (Deg Nga Wolof), rappresentata al Teatro Romano di Volterra lo scorso 9 luglio, è uno spettacolo di grande suggestione. Si tratta di una rilettura dell’Orestea di Eschilo in chiave africana, connotata da musica, canti e balli, messa in scena dal regista Andrea Mancini insieme a un gruppo di richiedenti asilo provenienti da vari Paesi dell’Africa subsahariana e presenti a Collegalli, nel comune di Montaione, in provincia di Firenze.

La trilogia tragica dell’Orestea racconta le cupe vicende che seguono il ritorno in patria di Agamennone, al rientro dalla guerra di Troia: la sua uccisione da parte della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto, per espiare la colpa di aver sacrificato la figlia Ifigenia (condizione necessaria, posta dagli dei, per poter partire per la guerra) e, successivamente, la vendetta del figlio Oreste, il quale ucciderà la madre e verrà perseguitato dalle Erinni. La terza e ultima tragedia, Le Eumenidi, narra infine l’allestimento, sotto la guida della dea Atena, del primo tribunale della storia, la successiva assoluzione di Oreste e la trasformazione delle terribili Erinni, le dee arcaiche della vendetta, in Eumenidi, “le benevole”, divinità protettrici di Atene.
La rilettura in chiave africana realizzata da Mancini porta in scena, nella suggestiva cornice del Teatro Romano di Volterra, un gruppo di ragazzi richiedenti asilo connotando la trilogia eschilea con un profondo significato politico. L’esperimento del regista si ispira, per certi aspetti, alla rilettura che dell’Orestea di Eschilo diede Pier Paolo Pasolini. Nel 1960, infatti, il poeta tradusse la trilogia, col titolo Orestiade,  per una messa in scena di Vittorio Gassman e di Luciano Lucignani al Teatro Greco di Siracusa, rivestendola di un habitus politico sulla falsariga della lettura in chiave marxista offerta da George Thompson. Nella messa in scena di Gassman e Lucignani erano poi presenti degli elementi che rimandavano alla cultura africana, come la presenza di alcune colonne totemistiche o i costumi degli attori. Inoltre, nel 1969, Pasolini realizzò un documentario dal titolo Appunti per un’Orestiade africana, unico episodio realizzato di solamente progettati Appunti per un poema sul Terzo Mondo. Il film avrebbe dovuto rappresentare il passaggio di alcuni Paesi africani da una società di tipo arcaico e tribale a una modernizzazione post-colonialista, sul modello occidentale. All’interno di questo cambiamento, comunque, gli elementi arcaici e irrazionali dell’antica cultura, rappresentati dalle Erinni, sarebbero sopravvissuti accanto alla razionalità delle Eumenidi. Anche questa rilettura cinematografica della trilogia è intrisa di un profondo significato politico: Pasolini intervista alcuni studenti africani dell’Università di Roma discutendo con loro del graduale cambiamento della cultura africana legato al delicato processo di decolonizzazione, tema affrontato anche nel precedente documentario La rabbia (1963).
Il significato politico presente in Orestea africana appare diverso e profondamente più attuale. La presenza in scena dei giovani profughi che si esibiscono in una performance musicale intrisa di sonorità africane porta immediatamente di fronte all’occhio dello spettatore la ‘tragicità’ della situazione attuale: le migrazioni, gli attraversamenti sui barconi, le torture e la prigionia libiche e, da ultimo in ordine di tempo, la chiusura dei porti attuata dal Governo italiano, scelta che include in sé il rifiuto del ‘diverso’ migrante da parte dell’intera Unione Europea. La tragedia che abbiamo di fronte, perciò, è sì quella oscura e intrisa di orrore di Agamennone, di Clitennestra, di Oreste, ma anche quella di migliaia e migliaia di migranti che quotidianamente si trovano a dover affrontare viaggi terribili, torture, odio.
La scena si apre con canti e balli, con la musica ritmica dei “djembe”, i tradizionali strumenti a percussione tipici dell’Africa subsahariana. Un narratore, su un lato del palcoscenico, spiega succintamente le vicende della tragedia. Assistiamo così, dapprima, all’uccisione di Agamennone, pugnalato a tradimento e, successivamente, all’arrivo di Oreste, il quale è rappresentato come un viaggiatore, come un emigrante. Oreste, infatti, dominato dalla sua lucida determinazione, viaggiatore che nella trilogia eschilea si presenta sotto mentite spoglie, assieme all’amico Pilade, alle porte della reggia e che si fa riconoscere soltanto dalla sorella Elettra, diviene, nella rilettura di Orestea africana, un emigrante caratterizzato dal suo desiderio di conoscenza, di libertà, di fuga dall’oppressione atavica e dall’orrore di guerre inesorabilmente presenti. Dopo l’uccisione di Clitennestra, il personaggio è perseguitato dalle Erinni, le Furie, definite come “streghe della foresta”, rappresentate da un attore rivestito di un mantello colorato e  col volto coperto da una maschera tradizionale. La Furia danza ripetutamente e in modo ossessivo intorno ad Oreste ricordandogli la sua provenienza, “le danze della nostra tribù”, “le magie dello sciamano”, “la forza di mamma Africa”. La giustizia antica che perseguita Oreste, come sottolinea il narratore, è di matrice “tribale”, una “giustizia barbarica, occhio per occhio, dente per dente”. Mentre il personaggio si trova in piedi su una sedia, con la sua valigia in mano, limpidamente volto a un possibile avvenire, sentiamo le parole, ripetute in diverse lingue come una formula rituale, “forse è possibile”. La possibilità si dischiude di fronte ad Oreste-migrante: la possibilità di un nuovo futuro più razionale, dominato da un’ansia di pace e di libertà, però non dimentico del passato, della tradizione che fa inestricabilmente parte della propria natura di uomo. La necessità della sopravvivenza degli spiriti irrazionali ed arcaici, a fianco del cambiamento, è ribadita da un coro che, impugnando le spade, si dimena in scena mimando una lotta. La sopravvivenza delle Furie arcaiche e irrazionali a fianco della ‘nuova’ razionalità era già nel documentario di Pasolini, dove le stesse Furie venivano rappresentate da forme non umane: una leonessa ferita, degli alberi, “perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell’Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L’irrazionalità è animale. Le Furie sono il momento animale dell’uomo” (P.P. Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana, in Id., Per il cinema, vol. I, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano, 2001, p. 1183).
La conclusione della trilogia − la trasformazione delle Erinni in Eumenidi e l’assoluzione di Oreste – sfuma in una danza rituale collettiva accompagnata dai suoni dei “djembe” e di altri strumenti tradizionali. Quasi a voler rappresentare la lucida razionalità ateniese, il gruppo di attori e danzatori allestisce una performance quasi improvvisata, una collettività sociale che forse racchiude la fine delle peregrinazioni di Oreste, il suo arrivo in una nuova comunità, dove ancora tutto, in una dimensione di pace, forse, è possibile. La frenesia della danza, la sonorità ossessiva e rituale che la accompagna, la presenza così forte della ‘tradizione’ in un luogo forse nuovo ribadisce l’importanza della conservazione degli elementi tradizionali, la forza primordiale che ogni emigrante si porta dentro, il germe antico degli “spiriti della foresta” della propria antica comunità tribale.
Una volta conclusa la rappresentazione, dopo che la bellezza arcaica della cultura africana ha fatto rivivere le situazioni tragiche di una lontana grecità, resta il significato politico della messa in scena, il quale si trasferisce tutto nello sguardo e nel pensiero di noi spettatori: perché sta a noi, insieme a tanti altri ‘occidentali’ e europei, comprendere la complessa bellezza di queste culture arcaiche e lontane che a noi si avvicinano con la forza di una positiva ibridazione e unione. Forse, allora, le negative Erinni dell’odio e della paura che infestano tragicamente la nostra quotidianità potranno essere sconfitte in una costruttiva ibridazione fra culture.







Le immagini relative a Orestea Africana (Deg Nga Wolof) e poste a corredo dell'articolo fanno riferimento a una messinscena precedente.






Teatri di Pietra 2018

Orestea Africana (Deg Nga Wolof)
da Orestea
di Eschilo
regia Andrea Mancini
con Abdolie Bonjang, Lamin Cham, Benjamin Campaore, Alhaji Jadama, Valentine Jowe, Patrick Tadjuidie, Sarrjo Tourai
produzione Teatro della Conchiglia, Movimento Shalom
Volterra (PI), Teatro Romano, 9 luglio 2018
in scena 9 luglio (data unica)

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