“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 10 July 2018 00:00

Danza su parole

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Un palazzo di ferro e di vetro occupa quasi l’intero palco. La grande novità architettonica del secolo scorso: palazzi di ferro e vetro, come serre che custodiscono giardini, come gabbie per uccelli, palazzi che ingabbiano esseri umani. Ma belli, tanto belli da diventare uno dei simboli della Belle Epoque. Età dello splendore, dell’energia produttiva, del lavoro e del divertimento, età della giovinezza.

Sul palco, però, quel palazzo di ferro e di vetro, che si lascia guardare all’interno come in una radiografia, è ormai rovinato. Il tempo passato ha lasciato i suoi segni. La vernice non splende più e i vetri non sono del tutto trasparenti. La colonnina della corrente elettrica fa continuamente corto circuito, come improvvise scintille di energia vitale che non fanno altro che rendere, ai nostri occhi, più decadente e abbandonato a se stesso il vecchio palazzo. E dalla porta di vetro leggera entra ed esce uno straordinario esemplare di essere umano. La sua anima è chiusa nella gabbia del corpo ma egli sa come aprire le porte e farla uscire. Quel suo corpo ha pareti di vetro e scheletro di ferro. Lui sa farci guardare all’interno e sa creare delle vie di fuga per la propria anima muovendo i piedi, le mani e tutto il suo corpo come se esso si fosse sgretolato, come se il tempo passato non avesse lasciato i suoi segni su quel bellissimo palazzo di un tempo. C’è un'altra anima sul palco ma essa non ha corpo, non ha vetri. Il suo palazzo è ormai distrutto e l’anima, non vista ma percepita, è libera di muoversi anche oltre la quarta parete. Scende in platea, si arrampica sui palchetti, fa all’amore con le nostre anime, insinuandosi attraverso le orecchie o gli occhi con la forza devastante della parola poetica. Ma non parla la nostra lingua.
Brodsky/Baryshnikov al Teatro Politeama per il Napoli Teatro Festival comincia con un’attesa: il palazzo di vetro si apre e si chiude, Baryshnikov vi esce e vi entra, Brodsky si fa solo immaginare, il pubblico si lascia alle spalle la città con tutte le sue gabbie ed entra in uno stato d’animo più calmo. Per imitazione può imparare ad aprire a chiudere le proprie porte e fare entrare e uscire l’anima o solamente le parole del poeta. Poi finalmente Brodsky si fa sentire. Passa attraverso la bocca di Baryshnikov che recita le poesie del vecchio amico. Passa anche attraverso una macchina, capolavoro di ingegneria del secolo scorso. La voce del poeta russo è registrata sul Revox e le bobine girano e girano, diffondendola nel teatro. I versi scelti raccontano il tempo che passa inesorabile sui corpi. Parlano di vita di morte. Sono vite che durano un solo giorno come quella della farfalla o vite arrivate stanche al limite. Parlano di passi sicuri sul mondo solo quando i piedi si muovono sulla sabbia del deserto e di occhi che guardano nel buio l’arrivo di un grosso cavallo nero. Parlano della fine della tragedia o della fine di ogni cosa. È nei momenti in cui è in funzione il Revox che Baryshnikov danza. Il ritmo poetico è la sola musica dello spettacolo, nessuna nota è suonata da nessun altro strumento. Le parole di Brodsky sono musica e il corpo del danzatore, seguendola, si muove. E poiché è da questi movimenti che trae fuori il suo spirito, Baryshnikov danza nel palazzo di vetro. Forse per riuscire presto a recuperarlo e riportare il corpo fuori per leggere seduto o sdraiato su una panca, aprendo a caso una pagina di un taccuino, togliendosi i vestiti.
Sul palazzo di vetro, in alto, è proiettata la traduzione in italiano delle poesie recitate in russo. Le orecchie ascoltano quindi la lingua originale del poeta mentre gli occhi sono costretti a fuggire la scena per comprendere ciò che viene recitato. Se non si decide di voler lasciare la comprensione delle parole per vivere le atmosfere dello spettacolo, allora tutto quello che c’è sul palco è solo un’immagine sfocata sullo sfondo. Le pupille mettono a fuoco le parole e tutto il resto sbiadisce. Evapora Barishnikov, il palazzo, la colonnina che va in corto circuito. Quindi di tanto in tanto ho scelto di lasciar andare le parole e la mia ignoranza del russo e di guardare. Potrò ritrovare le parole in un libro, potrò leggerle e rileggerle per tentare di comprendere ma lo spettacolo è qui, ora e mai più. È richiesto ad ognuno dei presenti di sacrificare qualcosa.  






Napoli Teatro Festival Italia
Brodsky/Baryshnikov
regia Alvis Hermanis
con Mikhail Baryshnikov
scenografia Kristīne Jurjāne
light designer Gleb Filshtinsky
suono
Oļegs Novikovs
luci Lauris Johansons
video Ineta Sipunova
effetti pirotecnici disegnati da
 International Fireworks Design
manager di palcoscenico Linda Zaharova
macchinisti/sopratitoli Andris Skotelis, Kārlis Staņa
tour manager Elīna Adamaite
realizzazione tessuti
Deanna Berg MacLean
musica Jim Wilson “God’s Chorus of Crickets”, Kārlis Tone
foto di scena Salvatore Pastore
coproduzione New Riga Theatre e Baryshnikov Productions
direzione generale Baryshnikov Productions, Huong Hoang
lingua russo (con sopratitoli in italiano)
traduzione in italiano dei sopratitoli Matteo Campagnoli
durata
1h 30'
Napoli, Teatro Politeama, 29 giugno 2018
in scena 28 e 29 giugno 2018

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