“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 15 April 2013 11:01

L'inganno del tempo, di replica in replica

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La condizione di stasi, per la quale il presente è una galera mortifera, è inconciliabile con il teatro. L’immobilità, la fermezza assoluta del tempo e dell’azione nel tempo, la quieta assenza di prospettiva, che determina il blocco, è il vero tabù inesprimibile tra le quinte di scena. Qualcosa deve accadere, deve accadere qualcosa che dia un senso – e, se non il senso, almeno la percezione fisica e contenutistica – dello smuoversi delle lancette.

Rappresentare la condizione ingabbiata di chi è ingabbiato nell’attimo stesso che si trova a subire – questa insopportabile camicia di forza che è l’assenza d’ogni futuro – connatura, diversamente, il grande teatro passato. I personaggi di Čechov, ad esempio, lamentano i propri monologhi, occupandosi in tirate di rammarichi o standosene seduti sulle sedie, in un giardino che lentamente sfiorisce. I personaggi di Beckett, invece, tentano di fare del momento presente un eterno momento presente, consapevoli che – fin quando ‘il qui ed ora’ viene allungato – si allontana la morte, si allontana il finale. Perché si allontani il finale (tempo del giudizio, tempo di consuntivi) essi improvvisano burle, gags, piccole comiche o pantomime minuscole perché decorino l’inerzia e l’immoto.
Riflettere su Servizio di pulizia o corpo sociale significa, per chi scrive, riflettere sulla concezione del tempo e sulla sua resa teatrale. Ad altri apparirà di maggiore impatto il tema, visibile e mai sotteso, della precarizzazione del lavoro, dell’impiego mal pagato, dell’inganno del mercato che genera false occupazioni lenitive in assenza delle vere occupazioni a cui saremmo destinati ma – invero – ci sembra che lo spettacolo sia più di un piccolo manifesto sulla straziata condizione di una generazione che sta sfiorendo, proprio come sfioriscono gli alberi del giardino di Čechov.
È una messinscena del tempo, Servizio di pulizia; è una resa della costrizione percepibile del tempo in quanto pressante opportunità disponibile che rimane, inevitabilmente, inevasa. “Ma tu quanti anni hai?” o “Insomma, tu cosa fai nella vita?” non sono battute del testo che servono ad ottenere davvero la loro risposta ma segnano, rimarcando, lo spreco del tempo con un impiego sprecato.
Si fa qualcosa, questo qualcosa non è ciò che si vorrebbe fare, lo si fa perché quel qualcosa che si vorrebbe fare non lo si può (non lo si riesce) a fare e – per non soccombere a questo presente che stagna – ci si inventa un impegno, un altro, un altro ancora perché le lancette camminino senza che il loro cammino evidenzi l’assenza di meta.
Accanto e dinnanzi e di lato (giacché sediamo nello spazio comune agli interpreti) abbiamo un’aspirante attrice che non fa l’attrice ed un aspirante ballerino che non fa il ballerino. Cosa fanno allora? Servizio di pulizia appunto: aspirapolvere Hoover, scope dalle spazzole sporche, barattoli di stucco e pittura, una sparapunti e chiodi, viti, grossi teloni da mettere a muro. Perché? Perché il tempo non li opprima del tutto, costringendoli a far di conto col fallimento della propria esistenza.
Più che la messa in mostra del “mercato globalizzato” e dei suoi effetti stranianti o crudeli Servizio di pulizia è – ostentata la fatica da bricoleur – la maniera con cui la sapienza teatrale risponde al tabù già indicato: la condizione di stasi.
Come pronipoti tardivi dei personaggi di Čechov o come nipoti attempati dei personaggi di Beckett, i due che abbiamo dinnanzi hanno da colmare questa parte di vuoto che si squarcia e si offre tra il passato (ciò che non è più) ed il futuro (ciò che non è e che, forse, non sarà mai): per questo laccano le schegge di bianco sul pavimento; per questo allontanano di qualche centimetro la polvere; per questo s’innalzano sullo scaletto a fissare un panno che non ha funzione pratica né valore concreto. Colmano il tempo, lo riempiono di atti e sospiri, perché non ne avanzi neanche un secondo, pena – altrimenti –  la valutazione sincera di sé, della propria condizione, del proprio decadimento. 
Non sfugge, naturalmente, che il tema ed il suo sviluppo drammaturgico consentono – a chi sappia fare teatro – di giocare con la forma stessa del teatro. Claudia Hamm genera, elabora e rifinisce una partitura che vive, evidente, della propria metateatralità.
Nel fingere di fare qualcos’altro si fa teatro alludendo al teatro; si mette in scena teatro all’interno di un teatro che non si dichiara teatro ma che è, con chiarezza, teatro.
Il teatro c’è, è posto in pratica, è dialogato, discusso, affrontato, detto e ribadito da due figure che – interpretando il ‘vorrei ma non posso’ – in realtà possono e fanno.
“Hai un viso maturo. Potresti essere un’attrice, un'attrice francese. Non è molto carino il tuo viso, ma è espressivo”: è il primo indizio che ci viene offerto. Seguono: l’interpretazione del coro di Medea, l’interpretazione della tartaruga, l’interpretazione del maestro di danza tedesco al cospetto dell’interpretazione di un balletto sull’incomunicabilità. Si recita la recita recitando un'altra recita così generando l’insieme di recite che definisce la struttura (stratificata) di Servizio di pulizia.
A conferma della metateatralità dello spettacolo i frammenti dialogici (“Partiamo da qua, se ti va bene”; “Cominciamo da qua e poi andiamo avanti”); le allusioni argomentative (“Qui guadagni?”, “Poco, ma è un investimento: loro ci vedono che lavoriamo e ci chiamano a casa”); i rimandi esterni (Pupi Avati, Giovanna Mezzogiorno, Sasha Waltz) che si uniscono alla sapiente gestione dell’interrelazione col pubblico (che termina – di fatto – nel momento in cui vengono indossati i grembiuli per le pulizie: sorta di vestizione rituale, genera la separazione tra la situazione che precede lo spettacolo e lo spettacolo stesso); all’utilizzo di un inciso che serva a calcolare l’avanzamento dell’opera (in questo caso le domande: “Conosci il teatro?”; “Conosci il personaggio?”; “Conosci il metodo?”; “Conosci la psicologia?”; “Conosci il fondo di tutte le cose?”); alla reiterazione di una stessa battuta perché si imponga come persistenza di fondo (“In definitiva tu, come attrice, non lavori…”). 
Si aggiungano la capacità di alternare ritmo e tono dei passaggi compositivi (“Non è che possiamo fare adesso le foto per Pupi?” – ad esempio – è scatto semantico che consente di staccare dall’emozione profonda e recente di un “Ti amo” detto in un abbraccio delicatissimo); i piccoli frammenti ripetuti (“L’ironia della storia sta proprio lì”: così termina più volte la storiella dell’essere “frocio” senza essere stato danzatore o parrucchiere); i lacerti – non si saprà mai quanto sinceri quanto inventati – da confessione autobiografica (Lui: la scelta d’essere attore per riscattare il patema paterno; Lei: l’espressione accennata di un’anziana accudita e defunta) per comprendere quanto dica Servizio di pulizia senza dirlo mai esplicitamente.
In fondo così supera il tempo, così sopporta il presente, chi fa teatro: di giorno dopo giorno, di replica in replica, di applauso in applauso.

 

 

 

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Servizio di pulizia o corpo sociale

di Valentina Diana, Lorenzo Fontana, Claudia Hamm
ideazione e regia Claudia Hamm
con Valentina Diana, Lorenzo Fontana
produzione Associazione 15febbraio & Claudia Hamm/Berlino
con la collaborazione di Théâtre des Salins, scène nationale de Martigues
durata 1h
Napoli, Start Teatro/Interno 5, 14 aprile 2013
in scena 13 e 14 aprile 2013

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