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Tuesday, 24 April 2018 00:00

Intervista a Dario Borso

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Nato a Cartigliano l’8/12/1949, si è laureato in storia della filosofia alla Statale di Milano con una tesi su Hegel, uscita poi da Feltrinelli. Dopo anni di precariato (correttore di bozze e giornalista a L’Unità, insegnante 150 ore, bibliotecario a Crema, coordinatore delle attività seminariali per Fondazione Feltrinelli), nel 1981 diviene ricercatore confermato e si conferma tale sino a fine carriera (senza partecipare più a un concorso ma tenendo per anni una cattedra di estetica a contratto al Politecnico). Appassionato di traduzione, si prova inizialmente con Hegel, Bloch e Diderot, finché l’interesse per Kierkegaard lo assorbe negli anni 90 come curatore di numerose sue opere.

Il suo basso continuo è rimasto comunque la filosofia tedesca, con slittamenti progressivi verso la letteratura. Microeditore all’alba del millennio (edizioni de Il Ragazzo Innocuo poi Ubiquo), nel 2007 fonda il Premio Baghetta, alla sesta edizione, cui partecipano importanti poeti contemporanei e un folto pubblico. Impegnato da sempre a decifrare la modernità, interviene sulla carta stampata e online, spaziando in vari ambiti culturali e di costume.

Partendo dall’ambiente veneto di nascita, passando poi agli studi universitari fino al lavoro di docente: quali eredità affettive e culturali le ha lasciato questo percorso?
In paese (2.700 anime) parlavano italiano il maestro, il parroco e il sindaco, e tutti solo in ambito istituzionale. Iniziai l’apprendimento dell’idioma a sette anni, in ritardo rispetto ai compagni per via di una tbc che m’inchiodò per un biennio a letto, dov’ebbi modo di affinare certe doti, prima fra tutte la capacità d’ascolto: dalla camera sentivo le voci dei clienti giù in bottega (padre fruttivendolo e madre ex-ostessa, lui frequentava il mercato notturno a Bassano, lei serviva di giorno, io vegliavo da solo salvo rare irruzioni genitoriali compatibili col commercio). Altre voci, di cui ero meno curioso che nostalgico, venivano dalla corte comune, dove amichetti chiassosi giocavano. Da lì, penso, la passione per le varie lingue (italiano dalle elementari, più latino e francese dalle medie, più greco al liceo) e per le varie inflessioni individuali entro la stessa lingua. Passione, mentre l’amore andava e va al mio veneto, l’unica lingua che considero viva sebben morente, mentre le altre considero morte ma riportabili in vita traducendole – amore che ha cementato per oltre mezzo secolo l’amicizia infrangibile con pochi eletti pressoché coetanei, una specie di academiuta a sede mobile (= osterie).
Quanto all’odio (seconda superpassione secondo Spinoza), andò così. Giusto mentre mi ammalavo, mio padre ebbe a subire un inatteso linciaggio democristo, lui ch’era il giusto del villaggio. Risultato: cadde in depressione e ammutolì letteralmente. Il clima in famiglia (allargata: genitori, fratelli, zii, nonna e amica sua di filanda) divenne in breve irrespirabile. Catastrofica fu per me la scoperta in granaio di rotoli cartonati su cui a pennello nero s’inveiva (Andrea B. della Mano Nera mi occupò ermeneuticamente in modo particolare, specie la notte) e di cui era vietato parlare.
Salto di decenni: in comune ho preteso (impiegati leghisti allibiti) di esaminare le scartoffie locali, con due risultati definitivi: mio padre fu partigiano, il linciaggio concordato tra sindaco e parroco totalmente vile (a secondaria conferma, don Casto agonizzante invocò perdono).
Divenni comunista a diciassette anni e formammo una cellula, poi sez. Pablo Neruda. Lo dico per giustificare la mia vena polemica, che straborda in tutti i campi, culturale compreso. (Diversamente da Democrito, con mezza faccia rido e con l’altra mezza ringhio). Essa si sviluppò investendo pure i miei che, schiantati da quella tragedia, tremavano all’idea che mi schiantassi anch’io. Risultato: lasciai in malo modo la famiglia e m’iscrissi a Filosofia a Milano. E la pagai: rinchiuso alla Casa dello Studente di Viale Romagna, ogni fine-settimana in treno piangevo (come Democrito stavolta), all’andata per il dissidio in famiglia, al ritorno perché lasciavo gli amici.
Su questo versante, il libro fondamentale fu Lettera a una professoressa, divorato nell’estate 1967: in autunno uscimmo al liceo di Bassano con il numero unico FOGLI, nel cui editoriale Quelli (mia prima pubblicazione!) attaccavo i signorini della A: quelli che vanno a sciare, quelli che parlano italiano, quelli coi pantaloni a mezza gamba ecc. Noi della B eravamo allocati in cortile (una baracca su cui spruzzammo presto Che Guevara); entravamo dal portone delle bici e calcavamo i marmi secenteschi del Brocchi solo quando convocati dal preside. Stranamente uscii con la media più alta di tutti i tempi senza mai studiare, eccetto il trimestre prima degli esami. Stavo attento a scuola, il resto era osteria o campo sportivo; passavo sempre i compiti a tutti (alla maturità pure a quelli della A, essendo segretamente invaghito dell’angelica Luisella); tenevo un controregistro delle interrogazioni a scopo statistico, i compagni entrando in aula chiedevano: “Quando m’interrogano?”; se finita l’ora uno/a si avvicinava al prof per chiedere qualcosa, veniva isolato in quanto leccaculo/a. Prof tutti e sempre supplenti (cinque di filosofia in tre anni di liceo), nessuno stimolo se non la sferza di due zitelle, in matematica e latino-greco. Iniziai a leggere per conto mio a diciassette anni, prima credo di non aver letto un romanzo, neanche metà. Poi a valanga.
Consigliere comunale PCI nei primi anni 70 con mio cugino Roberto (sedici democristi e due lacché socialdemocratici), femmo saltare la giunta a furor di populo (non chiedetemi come: dico solo che il sindaco dimissionario in lacrime esordì in consiglio davanti a un pubblico straripante con la mitica frase: “Siamo in un veicolo [sic] cieco...”).

Dalla razionalità hegeliana alla spiritualità di Kierkegaard, dal cripticismo di Paul Celan al funambolismo di Arno Schmidt: come riesce a conciliare queste diverse esperienze intellettuali?
La mia risposta consegue da quanto detto: sentivo le voci → traduco le voci, le più disparate in una specie di grand guignol o di barufa ciosota, dove la regia è affidata a monna ironia (grande lezione di Kierkegaard, imitatore massimo di voci dal prete al gagà, nonché polemista di natura).

Quali lingue conosce, e da quale di esse sente di trarre maggiore arricchimento?
Conoscere è un termine vago, va dal biblico al renziano (v. i suoi speeches). Restringendo alle lingue da cui ho tradotto: il veneto, nel quale ragiono mentalmente tuttora; il francese (Diderot); il tedesco (parecchio), imparato in più estati institut-goethiane via borsa-di-studio e un anno all’università di Bonn grazie al consiglio di Mario Dal Pra, che mi ha insegnato il mestiere e l’onestà filologica (ho tentato di sdebitarmi in mortem curandone il manoscritto inedito 1947 Storia della guerra partigiana in Italia, immolato il 19 aprile 1948 da Raffaele Cadorna sull’altare della madonna piangente dopo che Dal Pra, già responsabile dell’ufficio stampa & propaganda del CLNAI per il Pd’A, aveva creato materialmente dal nulla l’Istituto della Resistenza); il danese, in mesi e mesi al S.K. Forskningscenteret; l’inglese da sempre, come lingua del mondo (Sasha Dugdale); il russo (Šestov e Blok) per ultimo.
Due mie costanti di metodo: porre l’asticella più in alto possibile (come difficoltà oggettiva e interesse soggettivo); sostanziare l’esercizio di rapporti umani, nell’ordine: francese in anni di convivenza con Nadine Celotti (ora ordinaria di traduzione dal francese a Trieste); tedesco in un rapporto imperituro col mio primo amore Vivetta Vivarelli (ora germanista all’Università di Firenze); danese in un abbaino di via Bramante con Michelle Mafille che di francese ha solo il nome; russo grazie all’arguzia stacanovista della slavista Valentina Parisi; inglese via Beatles.

Oltre alla filosofia, alla letteratura, all’architettura, nutre qualche interesse anche per il cinema, la fotografia e la pittura? Occorrono troppe vite per farne una, scriveva Montale...
Anche qui, interesse per tutto e niente. Di concreto – cinema: la collaborazione con mia moglie Giulia Ciniselli in diversi mediometraggi su Via Padova (l’ultimo, Prossima fermata via Padova sui migranti del ’900, terroni e polentoni); architettura: il saggio Disegnology che sta per uscire in SAFT (cofanetto con nove fanzine di ex-laureandi del Poli che mi hanno ripescato dopo vent'anni, grati di esperienze scolastiche esaltanti); fotografia: zero assoluto da quando nel 1973 fui derubato della mia Olympus OM-1, rullini e tutto il resto da due negroni strafatti che mi tirarono su a St. Louis dopo quasi tre mesi di autostop (fortunatamente mio figlio Dogui ha preso la staffetta, mentre io curo ogni tanto foto altrui, v. Ugo Mulas, Danimarca 1961, uscito mesi fa dalla Humboldt).

Che giudizio dà del panorama poetico attuale in Italia, così ricco di esperienze e iniziative editoriali (festival, blog, premi...)? Ritiene che tutto ciò sia utile o produca in realtà confusione e qualche dilettantismo?
Seguo quanto circola in rete, dove anche vale la massima di De André: “Dal letame nascono i fior”. A me interessano entrambi: i fior va da sé, il letame in quanto sintomo ulteriore del carattere degli italiani: furbi come servi, leccaculi come pochi (v. parecchi sedicenti litblog).

Nei riguardi del nuovo corso politico cui sembra avviarsi il nostro Paese, è più o meno ottimista?
Anch’esso seguo con interesse, soprattutto linguistico. Ad es., il fatto che Di Maio negli ultimi mesi non abbia sbagliato un congiuntivo, mi fa essere moderatamente ottimista.

A cosa sta lavorando attualmente, e quale progetto sogna di portare a termine in futuro?
Ho sempre fatto quel che volevo, conscio delle conseguenze. In questo senso a non piacermi del mio lavoro è il dopolavoro, ossia piazzarne i frutti sul mercato (nemesi familiare?). Ci ho fatto il callo, limando entusiasmi e frustrazioni con un moderato pessimismo. La cosa che più mi secca è che, essendo io disordinato, tendo a perdere o dimenticare file di lavori che nessuno ha voluto, ad es.: l’edizione critica di un racconto di Parise; il diario di un artigliere semianalfabeta della Prima guerra; i racconti di un Brera giovanissimo che nemmeno gli eredi conoscono; la curatela di un romanzetto ironico di Jean Paul sul coraggio ecc. A me sembrano fior, ma evidentemente per gli editori son letame (“per” pleonastico?).
Ora sto vivendo en souplesse l’ennesima odissea riguardo a un testo che come le mie traduzioni è mio e non è mio, ma in un altro senso: è mio, ma del 1974. Ripescato in condizioni rocambolesche grazie al compagno anarchico di viaggio Pietro Spica che, tornato dagli USA ad abitare in via Padova come me, ha ritrovato le sue foto di allora innestando una reazioncina a catenina, è piaciuto a Valerio Magrelli che lo ha prefato e a Chandra Candiani che lo ha quartacopertinato. Nel giro di un mese ha collezionato tre rifiuti; si chiama Piccolo diario indiano e contiene foto di Spica, che lì mi liberò dei lacci catto-comunisti residui favorendo un situazionismo mentale già covato di mio. Come accennato infatti, sentivo le voci, e ora sto editando per Museo del Novecento, Fondazione Empatia e Coop Lotta contro l’Emarginazione un libro di racconti scritti da persone con disagio psichico (una sente le voci, per l’esattezza dieci, e ciò me lo fa ancor più fratello).
P.S.: Per la prima volta in vita sto traducendo sotto contratto – si fa per dire, ché l’autrice l’avevo scoperta da me e tradotta su L’Internazionale. Così mi sento un po’ più protetto, grazie anche a una clausola in auge in Germania, secondo cui il traduttore scelto dalla casa editrice d’arrivo deve passare il vaglio dell’autore. Bene, lei ha scritto: “Es geht, db ist legendär”. 

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