“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 18 April 2018 00:00

Un cielo senza stanze, una stanza senza cielo

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Mi interrogo spesso sulla (possibile) funzione del teatro, oggi  in particolare. Su una sua funzione di senso, su un ruolo civile che riesca a costruire un’impalcatura etica, in un vuoto generale e politico che pare assoluto. Il cielo in una stanza dà risposta ad alcune delle domande sulle origini del “disastro amorale italiano” contemporaneo, così come iniziò nel secondo dopoguerra; dà un indirizzo possibile alla ricerca incessante di verità e giustizia che sempre meno permea la vita pubblica, così come le speculazioni intellettuali, e anche, purtroppo, gli studi e le creazioni culturali.

In questa sorta di teatro “civile”, la compagnia Punta Corsara porta in scena la cronaca e la narrativa del disfacimento strutturale ed estetico di una città, Napoli – esempio paradigmatico dell’Italia − della disfatta politica, culturale ed etica perpetrata per decenni (dal sindaco Lauro, comandante di una destra monarco-fascista fatta di interessi privati che hanno svenduto e cementificato una città intera e il suo territorio, fino alla classe politica composta da democristiani e affini, dai Cirino Pomicino e dai De Lorenzo, che ha consolidato tali modalità e infittito le trame del malaffare e dell’inquinamento del pubblico da parte di elementi criminali). Sotto questo aspetto, il teatro è il racconto in diretta, attualizzato e permanente, della storia, di un passato che diventa – tramite il teatro stesso – presente.
L’origine della narrazione, la storia di una palazzina costruita senza osservare leggi e regole, inizia nel 1955, quando l’armatore sorrentino Lauro è sindaco di Napoli. Imbrogli subodorati su crismi non seguiti per la costruzione, abusivismo respirato ovunque per arrivare al 1996, quando il palazzo, a causa dei presupposti suddetti, si presenta privo di tetto e crollato in molte parti, con un uomo, chiamato dagli inquilini il “sotterrato”, che vive addirittura sottoterra, tra travi messe di traverso e lerciume, e che comunica con gli altri attraverso un water (un “cesso”, per dirla alla napoletana) e che è impossibilitato a muoversi, perché, se lo facesse, il fragilissimo pseudo-equilibrio strutturale di ciò che resta del palazzo verrebbe meno ed esso crollerebbe definitivamente... Costui non vede la luce da oltre dieci anni, da quando parte della costruzione è crollata, uccidendo il marito di una degli inquilini e il figlio di un altro. Sono, costoro, dei sopravvissuti, più che degli inquilini: sopravvissuti ai loro cari, sopravvissuti alla scheletrizzazione del loro palazzo, sopravviventi a loro stessi. Gli altri inquilini sono una madre e un figlio adulto che vive ancora con lei, che ben simboleggia la stasi esistenziale, l’incapacità e l’estrema difficoltà (dovuta a mancanza di possibilità lavorative e di crescita) di rendersi indipendenti di parte ampia della popolazione partenopea, e un uomo completamente rapito dallo spiritualismo dei nativi americani, che s’ispira a Cavallo Pazzo e ripudia la modernità e il buon senso del tentativo di dialogo civile, affidandosi soltanto alla natura, ai suoi segni e ai suoi abitanti. Tra di essi, vi sono i piccioni cui egli dà nomi d’ispirazione indiana (d’America) e che quasi idolatra, mentre la vedova li detesta, gira con un fucile e passa il suo tempo a tentare di ucciderli. In questo bailamme si presenta un avvocato per cercare di fare trovare un accordo agli inquilini sull’opportunità di fare degli interventi al palazzo, ipotesi che alcuni di essi, guidati dal’indiano d’ante-oceano, rifiutano. Gli inquilini scoprono che l’avvocato è figlio dell’ingegnere che, quarant’anni prima, ha costruito il palazzo, al che decidono di ucciderlo, per vendicarsi dei danni e delle morti subiti. Da lì fughe e riacciuffamenti della vittima sacrificale, intervallate da consultazioni che “danno il la” a riflessioni morali e voli pindarici privi di senso. Grande ritmo, testi semplici ma molto bene integrati: un teatro di qualità. E un teatro civile, dicevo prima. Per tornare su questo punto, che in quest’opera emerge con nettezza, ritorno a Napoli e a ciò che ancora oggi, di quegli interventi si vede (e che la condanna a una claustrofobia generalizzata).
Le conseguenze di queste azioni architettonico-ingegneristiche scellerate perpetrate ai danni di un intero corpus geo-antropolgico sono sotto gli occhi di tutti coloro che girino dentro la città partenopea non soltanto per regolati o anche autonomi motivi turistico-culturali: non c’è spazio, non c’è aria, non c’è verde, non c’è respiro, in molte parti della città. Sul palco, gli scempi e l’asfissia sono rappresentati, come detto, dalla mancanza di tetto sulla casa in rovina e dalla presenza di piccioni, ma anche di ratti e scarafaggi, dall’uso non consentito del fucile, dalla polvere, dal sudiciume. Queste storie di morte, di dolore, di subalternità, queste storie di fantasia, di vitalità spinta oltre i limiti, di resistenza “urbana” nonostante l’imbarbarimento circostante, sono forti, sono ben portate dai protagonisti, sono cucite addosso ai personaggi con una trama leggera, sono ben interpretate, sono grottesche e disperate, ma sono in qualche modo aperte. Sono infatti storie di una resistenza che, a ben guardare, è la resistenza filosofica di un popolo che cade spesso e sempre lotta e si rialza.
Punta Corsara sceglie una rappresentazione solo in apparenza caotica, in realtà regolata da una sorta di voce unica collettiva che parla una lingua amara e dolente, e utilizza la chiave dell’ironia dissacrante e osée. Il ventre eviscerato di Napoli domina l’atmosfera simbolica attraverso la visione tangibile della precarietà fisica e prospettica: è un cielo senza stanze, o una stanza unica, enorme, senza cielo.




leggi anche:
Alessandro Toppi, Storia e scena nella stanza (teatrale) di Punta Corsara (Il Pickwick, 16 novembre 2017)
Michele Di Donato, Coralità corsara (Il Pickwick, 4 agosto 2016)
Viviana Raciti, Punta Corsara e la ragione in una stanza (Teatro e Critica, 16 luglio 2016)
Lorenzo Donati, Il cielo in una stanza: l'inchiesta surreale di Punta Corsara (AltreVelocità, luglio 2016)
 


Il cielo in una stanza
di
 Armando Pirozzi, Emanuele Valenti
regia Emanuele Valenti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Sergio Longobardi, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
voce de il sotterrato Peppe Papa
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
disegno e datore luci Giuseppe Di Lorenzo
organizzazione e collaborazione artistica Marina Dammacco
assistente costumista Nunzia Russo
organizzazione generale Roberta Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli, 369 gradi
foto di scena Giusva Cennamo
lingue italiano, napoletano
durata 1h 5'
Bologna, Arena del Sole, 11 aprile 2018
in scena 11 aprile 2018 (data unica)

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