“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 16 April 2018 00:00

L'agonia del sopravvivere secondo Anagoor

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Come le foglie. È la similitudine alla quale Andrea Marescalchi, protagonista del romanzo di Antonio Scurati − Il sopravvissuto − àncora la sua vita, ritrovando nella funzione dell’insegnamento un’essenza fisiologica, scevro di ogni retoriche definizioni. Siamo alla fine del romanzo; nel settembre 2001, la mattina del primo giorno del nuovo anno scolastico, il professore di storia e filosofia apre gli occhi e accetta nuovamente di far parte di questo naturale processo di nascita, morte e rinascita. Vitaliano Caccia, il suo allievo prediletto, ha sterminato nel giugno precedente la commissione degli esami di stato, lasciando lui solo in vita. Sopravvivere è paradossalmente, nel libro di Scurati, una morte lenta, atroce agonia; forse come quella del 399 a.c. quando Socrate bevve la sua cicuta dinanzi ai suoi più cari amici.

È in questo parallelismo che si sviluppa Socrate il sopravvissuto che la compagnia Anagoor mette in scena. Il protagonista prende corpo in Marco Menegoni, il quale raggiunge un microfono al lato dei banchi di scuola che perimetrano il raggio scenico. Da lì a poco vengono riempiti dagli alunni che vi siedono come devitalizzati, similmente in Another Brick in the Wall mentre segue la narrazione autobiografica del docente. Lo spettacolo pospone alla fine il racconto della strage con la quale si apre il romanzo, facendo sì che la drammaturgia si concentri non tanto sulla scaturigine della vicenda romanzesca, quanto su un’intrinseca riflessione sull’insegnamento, come trasmissione, come concetto pienamente socratico. È Socrate, difatti, l’alter ego di Andrea Marescalchi, alterità che si materializza nella duplicazione dei piani di riflessione e che caratterizza la drammaturgia di Anagoor.
Ritornano gli aspetti compositivi tipici della poetica della compagnia; una poetica tutt’uno con la regia, la cura della scena vista incessantemente come interazione di elementi all’interno di un quadro. Vi è la sincronizzazione del suono con l’immagine che riesce a trasmettere l’intera visione registica con uno studio inedito e al contempo classico della gestualità, inedito perché risalta anche all’interno della composizione in video (che diviene proiezione figurale dei personaggi), classico perché fortemente significativo ai fini della narrazione, sostitutivo di una parte che a parole sarebbe inevitabilmente retorica.
Lo spettacolo riprende le più pregnanti parti del libro che coincidono con le fitte osservazioni annotate dal docente durante il concluso anno scolastico e da lui riprese alla luce della strage, e sulle quali si accanisce per rinvenire un piccolo indizio adatto a ricostruire una ragione di quanto è successo. La figura di Menegoni è accompagnata da una serie di quadri in cui viene articolata una drammaturgia gestuale eseguita dagli studenti.
Tale processo mimico testimonia il rischio della conformità imposta dal sistema scolastico e d’altro canto il tentativo di riappropriarsi, attraverso il dialogo docente-discente, di qualcosa che appartenga loro, di fermamente identitario. Ed è in questo senso che va incuneata la parte video-immagine che vede Socrate ed Alcibiade dibattere: Alcibiade vuole occuparsi della politica ateniese, ma il Maestro con le sue serrate domande lo riporta al cospetto della sua inadeguatezza, o meglio del suo non sapere. È Marescalchi l’alter ego di Socrate, Vitaliano quello di Alcibiade, l’allievo che protesta contro l’epilogo del programma di storia del quinto anno, perché non può finire tutto con un aritmetico elenco dei genocidi del XX secolo; ma Alcibiade è anche l’esile Lisa che sfida con le sue lacrime la miscredenza del professore sull’anima immortale o sull’amore romantico. Alcibiade è dunque il rigurgito alle vuote formule che rischiano di essere l’educazione o la trasmissione della conoscenza; è un necessario ed incomprensibile impulso alla distruzione di quest’ultime, un inevitabile conto in sospeso fra due parsone, “in sospeso” perché l’enigma di Vitaliano lascerà inconclusa ogni tipo di riflessione.
La cronometria che segue Socrate il sopravvissuto capovolge quella del romanzo, ponendo al centro un progressivo sviluppo critico sull’educazione sulla falsa riga di una struttura maieutica. Come negli altri lavori della compagnia veneta, sembra che la partitura drammaturgica sia calibrata su un rapporto parola-immagine-suono che da un lato sembra scarnificarsi con l’adozione di una struttura prevalentemente monologata, ma d’altra parte riesce ad essere struttura complessa in un’ottica rigorosa che si traduce nella corrispondenza dei due piani video e scena; piani non semplicemente paralleli, ma intrecciati in un unico corpus che rende l’uno e l’altro inscindibili.
L’impatto visivo ed uditivo ha un equo peso su tutto lo spettacolo; da un lato la voce di Marco Menegoni (la cui posizione di spalle pone l’attenzione di tutti su parole e la mimesi circostante), d’altro lato il compenetrarsi di una simultaneità visiva fra immagine video e sequenze sceniche che sembrano quadri staccati, scarni, traduzione simbolica dell’ardita riflessione nella mente del professore. Vi si innesta  una sorta di correlativo oggettivo che si riscontra nei corpi degli allievi che fra i banchi si riducono a fantocci, nell’alunna sepolta da libri divenuti carta straccia, quale sapere trasmesso per formule, per schemi vani imposti dalla didattica, indotto dall’alto verso il basso. Ma è pertanto il non sapere che Socrate riesce a mettere in primo piano dinanzi alla superbia di Alcibiade, che forse un insegnante è tenuto a percorrere come paradossale contrappasso, assistendo ad una disgregazione continua degli strumenti del proprio mestiere, processo che culmina in questo caso nella strage compiuta da Vitaliano, ultimo ed estremo quadro dello spettacolo che ci fa ascoltare attraverso la polifonia degli allievi proprio le prime cruenti pagine di Antonio Scurati.
Se la lettura del libro è una concitata esperienza, pervasa di irrequietezza, tristezza e drammaticità, lo spettacolo diretto da Simone Derai frappone fra lo spettatore ed il fatto emotivo della strage una riflessione concettuale che rallenta probabilmente la ricezione immediata − e questo è esplicito nello sviluppo della loro globale cifra stilistica − a vantaggio di una proposta più impegnativa rispetto alle contemporanee poetiche. Lungi dall’essere letto come un limite, invece, Socrate il Sopravvissuto ha il privilegio di istillare solo dopo la relativa visione il senso di dubbio e ricerca che Anagoor ci rilancia.
Quello che a noi sembra offrire lo spettacolo di Anagoor è dunque ancora una volta un teatro difficile da definire; poco riducibile alla più generica accezione di sperimentalismo, in cui il loro rigore da classicisti (evidente nella ricerca dell’equilibrio fra staticità e dinamismo) renderebbe la stessa parola priva di alcun senso, come parziale sarebbe quella di artigianalità. La sensazione che ci accompagna resta quella di compartecipare ad un sempre provvisorio risultato del loro percorso, continuamente in ricerca e che ci pone in bilico fra passato e futuro. Sta di fatto che nella complessa asciuttezza della loro cifra, quasi schematica nella sequenzialità scenica, s’innerva quella frantumazione della relazione allievo-docente che è irriducibilità della loro distanza. In questa però si ritrova tutta quella parte dell’ignoto che resta intatto, identico a se stesso, forza che rimane al di fuori di ogni schema precostituito e forse in nome del quale Caccia agisce tragicamente, “condannando” il suo Socrate a sopravvivere, a rinascere al successivo anno scolastico come l’inevitabilità delle foglie sugli alberi.   






Socrate il sopravvissuto/come le foglie

dal romanzo Il sopravvissuto
di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a Platone, Cees Nooteboom, Georges I. Gurdjieff
drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi
regia Simone Derai
con Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi, Francesca Scapinello/Viviana Callegari/Eliza Oanca
costumi Serena Bussolaro, Simone Derai
musiche e sound design Mauro Martinuz
video Simone Derai, Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
maschere Silvia Bragagnolo, Simone Derai
riprese aeree Tommy Ilai, Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai, Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
foto di scena Giulio Favotto
produzione Anagoor 2016
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies
con il supporto di Bando ORA! Linguaggi Contemporanei produzioni innovative
lingua italiano
durata 1h 40'
Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, 11 aprile 2018
in scena dall'11 al 15 aprile 2018

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