“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 22 March 2018 00:00

Elogio al tempo rubato

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Un suono metallico dagli echi computerizzati si propaga per la platea dove gli spettatori del Nuovo Teatro Sanità si stanno posizionando, accolti da un uomo delle pulizie che si aggira tra le file sorridente, affaccendato, cordiale. Sul palco nella semioscurità vi sono due sedie a destra e a sinistra, gemelle, su cui poggiano degli abiti. Tra loro, al centro scena, un telaio rettangolare che evoca una grande porta trasparente tagliata orizzontalmente da un’asse che divide il sopra e il sotto.

L’uomo delle pulizie, terminata la sua parte, svela il suo ruolo e inizia un monologo sul popolo della notte, citando il film Taxi Driver per introdurre i due personaggi che compariranno sulla scena che si accingono a svolgere il turno di notte in fabbrica, al loro “rito cristallizzato di caffè e sigaretta della storia sulla gente della notte”. Il monologo ricorda molto per le atmosfere create Jack Folla, personaggio radiofonico di Diego Cugia della fine degli anni ’90, centrato sulle riflessioni di un deejay condannato a morte che mesce musica e ricordi.
Il personaggio uomo delle pulizie-narratore interverrà più volte al di fuori del ring-palcoscenico, per suggerire e rimandare ad altri piani di lettura. I due personaggi entrano in scena indossando accappatoi, celeste e bianco: sono Michele e Salvatore. Sono pronti al turno di notte indossando la tuta della fabbrica Met.Cup., ma un loro collega si è chiuso in bagno e non vuole uscire. È disperato. I due operai che vogliono aiutarlo, mentre decidono sul da farsi, si raccontano le loro vite, le loro aspirazioni, i loro sogni perduti. I due personaggi sono costruiti sul contrasto culturale e caratteriale: Michele, figlio di un operaio dell'Italsider che considerava la fabbrica mitico macrocosmo esistenziale, ha lasciato gli studi di filosofia all’università per continuare il discorso perduto del padre divorato dal cancro. Salvatore, con la sola terza media presa a fatica, sembra un personaggio strappato al naturalismo verghiano, giovane padre che quando era ventenne ha sacrificato la sua giovinezza per diventare un adulto nel mondo del sottoproletariato urbano. I dialoghi tra i due sono incalzanti, ironici, talvolta ingenui, giocati anche sul movimento scenico che li porta in ogni spazio del palco davanti a quella porta metafisica.
Emerge un quadro delle relazioni umane in fabbrica forse più disumano dei tempi dell’Italsider, in cui gli ingranaggi “viventi” sono monadi isolate. Ignare a se stesse e agli altri. Una volta esisteva la coscienza di classe, forse mitizzata dall’allora sindacato che di certo non era ingenuo, ma pulito, sì, che non ambiva alla politica. Vengono in mente i tanti autori che iniziarono un filone chiamato letteratura industriale, da Bernari a Calvino fino a Ermanno Rea a cui Mauro Di Rosa deve la sua ispirazione. Michele e Salvatore, invece, sono operai di oggi, esecutori per necessità del neoliberismo che è uscito dal mondo industriale per permeare come un gas tossico tutta la società, parcellizzandola e precarizzandola.
Il narratore recita anche Il cavaliere inesistente di Italo Calvino. Agilulfo, integerrimo cavaliere reso tale dalla forza della fede, dalla volontà, è armato di tutto punto, ma è inesistente, trasparente. Invisibile come Michele e Salvatore. Il dramma del collega chiuso nel bagno non è diverso dal dramma esistenziale dei suoi compagni, resta il punto focale del dipanarsi della storia che solo verso la fine si intende che si è svolta su due piani di narrazione di cui il narratore è il punto zero di questi assi cartesiani. Due livelli temporali che procedono seguendo la teoria della relatività. È il tempo che Salvatore e Michele si sono svelati nei loro racconti, è il tempo che loro hanno regalato al misterioso collega per tirarlo fuori tenendolo chiuso nel bagno, per restituirlo alla vita alla quale loro non erano più destinati dopo lo scoppio della fabbrica alle ORE3ZERO5. Un turno di notte come tanti che restituirà loro dignità e valore nell’assenza di tempo, alla fine del tempo. La chiusura finale è affidata ancora al narratore: “La gente della notte è invisibile, solidale con i propri simili al punto di rimetterci la vita in attesa del prossimo diluvio universale”.
Parte importante ha la scelta musicale che accompagna le storie interiori dei due personaggi: dall’evergreen Cheek to Cheek, alle note di Pino Daniele appena canticchiate, alla cantante Madeleine Peyroux, a Simon and Garfunkel con The Boxer, segnali di una bellezza che “è tutto ciò che non è utile” perché la cultura dell’utile odierno rende solo infelici.
La messa in scena del testo di Di Rosa è metateatrale e partecipativa, si direbbe “solidale” con i due personaggi, non solo per il ruolo del narratore, ma perché è coinvolto Alessandro Messina delle luci, il regista Pako Ioffredo, lucido e concentrato, interpellato più volte, come anche gli spettatori all’inizio quando erano ancora inconsapevoli che avrebbero vissuto anche loro ad un’ora di libertà dalla vita. 

 





#ORE3ZERO5

di Mauro Di Rosa
regia Pako Ioffredo
con Mario Cangiano, Mauro Di Rosa, Fabio Rossi
collaborazione artistica Demi Licata
scene Federico Paparone
luci Alessandro Messina
produzione EnArt
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Nuovo Teatro Sanità, 17 marzo 2018
in scena dal 16 al 18 marzo 2018

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