“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 09 February 2018 00:00

Kids Festival, la “città bambina” che cresce

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Kids Festival, quarta edizione, a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno Lecce si fa “città bambina” – come recita il sottotitolo della manifestazione e concentra tra il 28 dicembre e il 7 gennaio una programmazione fatta di teatro e non solo per bambini e non solo. Dieci giorni a cavallo tra un anno che se ne va ed un altro che arriva, come a simboleggiare continuità fra il teatro che abbiamo visto e quello che vedremo, in un Festival che è all’insegna dell’inclusività e della contiguità di iniziative artistiche, intersecando i linguaggi e diversificando l’offerta, il tutto perseguendo un’idea viva che sappia coniugare teatro e aggregazione.

Ed è una vivacità che m’investe sin dal mio arrivo, quando la mattina del 3 di gennaio il mio primo contatto col Festival ce l’ho al Museo Ferroviario di Lecce, catapultato da un treno (vero) a dove sono i treni in mostra, insieme ad un pullulare di bambini; è solo l’inizio, ma frastorna, mi sembra di essere finito nel pieno marasma di una confusione indistinta, fra le persone che si accalcano. Nel frastuono che accompagna gli spettatori ai vagoni in cui si metteranno in viaggio con le storie c’è un macchinista che orchestra la baraonda: è Dario Cadei, che insieme al piccolo Rocco, ci introduce nella dimensione del gioco guidandoci, nella follia gioiosa di un caos organizzato, verso i singoli vagoni, all’interno dei quali s’ascolterà una narrazione. Ne ascolto due, su due treni differenti e differente è anche la loro fattura: la prima è una rivisitazione della fiaba di Andersen Il tenace soldatino di piombo. Andrea Lugli e Tiziana Letterese orchestrano una narrazione a due voci, ritmica e incalzante, in cui l’amore tra il soldatino e la ballerina si vivifica con la freschezza inventiva che i due interpreti immettono attraverso il loro dialogare fitto e sovrapposto – in cui le parole dell’uno si mescolano e si confondono a quelle dell’altra – e completato da una gestualità immediata ed evocativa (le mani battute sul petto suggeriscono lo sbocciare dell’amore); il tono della narrazione è leggero e ironico ma è soprattutto la chiave interpretativa adottata dai due attori che riesce a conferire originalità ad una fiaba nota, che nel concitato caracollare di una ritmica avvolgente si conclude rendendoci vivido davanti agli occhi pur senza di fatto vederlo l’abbraccio tra un cuore di stagno e un lustrino annerito.
Il secondo vagone mi propone Il Natale di Rocco e Assunta, ovvero una narrazione di Roberto Anglisani. E qui bastano davvero pochi istanti per rendersi conto di essere al cospetto di un vero e proprio maestro di questa forma teatrale (al quale quest’edizione di Kids dedica un articolato focus). Anglisani coniuga voce e gesto con studiata sapienza, orchestra il pathos e la sua trasmissione, racconta una storia che sa di famiglia e celebra memoria, una storia che viene dal passato, semplice e intensa e che nel modo che ha egli di porgerla possiede un valore aggiunto, una capacità di empatia che fa comprendere di prim’acchito perché nel genere del teatro di narrazione Roberto Anglisani sia un’eminenza assoluta. Ne avremo conferma ulteriore l’indomani, quando lo vedremo nel suo Brutto anatroccolo (Endutilos, ovvero “solitudine” al contrario la parola che ne completa il titolo), una favola che com’egli stesso anticipa, è antica ma non vecchia e che sul palco del Salone parrocchiale della chiesa di San Sabino prende forma nella interpretazione narrata di Anglisani: la mimica facciale e le modulazioni della voce, l’interpretazione giocosa e “pupesca”, il volto atteggiato in una pluralità di smorfie, il dosaggio calibrato di comico e drammatico sono tutte peculiarità che concorrono a far sì che una favola che conosciamo da sempre ci appaia lì sul palco come raccontata per la prima volta, evocata con sapienza immaginifica.
Ma la cosa che più mi colpisce di Roberto Anglisani è la sua autenticità, quella che percepisco anche grazie ad un incontro organizzato dal Festival in cui egli si racconta, partendo dai suoi inizi nella Comuna Baires di Milano fino ad oggi; il suo percorso, la sua ricerca di un proprio modo d’espressione, il lavoro sui linguaggi, lo scopo ultimo della narrazione, ovvero far sì che nello spettatore si riproducano le sensazioni di ciò che gli si racconta. Ed è proprio nella realizzazione pratica di quanto postulato in teoria che sta la forza autentica del teatro di Roberto Anglisani. Avevo già avuto modo di assistere ad un suo spettacolo la scorsa estate durante I Teatri della Cupa e – come ebbi a scrivere – il suo Giobbe (tratto da Joseph Roth) non era stato del tutto convincente, probabilmente proprio perché le grandi capacità di narratore (o di “narrattore”) di Anglisani risultavano come ingabbiate in una scrittura ponderosa oltremodo, in una drammaturgia che ne imprigionava la precipua dote di far della fabula qualcosa di trasmesso magistralmente, empaticamente, con la potente semplicità dell’evocazione, com’è invece avvenuto in questi giorni leccesi di inizio gennaio.
Nel solco del teatro di narrazione s’inserisce anche lo spettacolo di Fabrizio Pugliese Bertuccia e la Biblioteca Universale. In scena con un burattino (Bertuccia appunto), conduce una narrazione favolistica in cui veicola una metafora prometeica da offrire in visione immediata al pubblico dei bambini; bambini che si divertono nel seguire le evoluzioni dialogiche e fisiche dell’attore, che col suo burattino conduce una storia che è un apologo morale messo in scena dividendosi equamente le parti e affidando all’impertinenza dissacrante del burattino la funzione chiave di deus ex machina e a chi lo muove e lo anima il ruolo di contraltare. L’impianto favolistico regge bene, è compatto e Fabrizio Pugliese è bravo nel conferire vivacità incalzante alla narrazione che, come tutte le favole, trova il suo compimento nel lieto fine.

Ma Kids, come si diceva, è anche diversificazione dell’offerta e commistione dei linguaggi (teatrali e non) e, rimanendo all’ambito teatrale, assisto a due lavori del TPO di Prato, Farfalle e Pop up Garden che fanno delle tecnologie visuali il punto forte della loro cifra stilistica.  Si tratta di due spettacoli simili nell’impianto concettuale, che consta di un supporto visuale (in terra, ai lati) su cui s’istoriano figure, luci, azioni. L’impatto visivo è molto accattivante, in scena due performer, i cui movimenti sono puliti e leggeri, come voli di farfalla, appunto e affrescano un racconto poetico per immagini che si protende fino al coinvolgimento dei bambini presenti, i quali vengono chiamati ad essere partecipi del processo raccontato (la mutazione, la metamorfosi, il trasformarsi del bozzolo in farfalla), così raccontando le dinamiche della natura. La struttura drammaturgico-visuale è eterea, forse anche troppo, rischiando di confinarsi in un limbo estetico sofisticato, che ruba l’occhio dapprincipio e che nel complesso riesce comunque a trasmettere l’idea affascinante che lo anima, coinvolgendo i bambini, ma che lascia sentore di una freddezza di fondo; freddezza che ancor maggiore percepisco in Pop up Garden, la cui composizione conferma la propensione immaginifica all’etereo, ma rispetto a Farfalle possiede una forza evocativa minore e più fine a se stessa; anche il coinvolgimento dei piccoli spettatori, in questo caso, pare avere meno forza concettuale e minore valore funzionale rispetto a Farfalle, e il giardino che progressivamente prende forma, pur continuando a possedere i pregi formali di questa elaborazione videografica, non acquisisce uno spessore tale da farlo diventare congruo al delineamento di un’entità scenica definita e resta confinato nell’algida bellezza del proprio impianto formale.

Durante Kids mi capita di rivedere Cinema Paradiso, incontrato la prima volta a Taranto durante l’ultima edizione di StArtUp (correva l’anno 2015) e ne constato la longevità distributiva, nonostante permanga l’impressione di fondo di un impianto drammaturgico debole e di un lavoro di superficie che non porta a compimento le premesse pur interessanti da cui parte, in un tentativo più estetico che sostanziale di combinare il linguaggio teatrale e quello cinematografico.
Altro spettacolo che vedo in quel brandello di Festival che attraverso è Il paese senza parole, di Rosso Teatro (compagnia bellunese), che si avvale di testo e regia di Roberto Anglisani, partendo dall’opera di Agnes de Lestrade La grande fabbrica delle parole. È un’idea molto accattivante quella che anima lo spettacolo, perché s’incentra sul valore della Parola e, di conseguenza, sull’importanza delle storie; sembra, nel concept di questo spettacolo, di poter intravedere in filigrana il titolo del focus dedicato ad Anglisani, “Raccontare per vivere”, perché è il potere dell’evocazione – qui affidata al gesto ed alle coreografie sviluppate dai due attori in scena – a fungere da fulcro nevralgico attorno a cui far ruotare una storia d’amore che cerca il proprio modo di esprimersi. Però, al di là di una certa delicatezza di fondo, lo spettacolo interpretato da Maria Ellero e Alessandro Rossi non convince completamente, perché sembra progressivamente sfaldarsi per giungere ad un finale in progressivo calando, che ne inficia la bontà dell’idea iniziale.

Infine, due spettacoli provenienti dall’estero: Mam’zelle Chapeau (Svizzera) e Pulgarcito (Spagna); il primo è destinato ai piccolissimi – da 1 a 3 anni – e ha luogo in una delle sale superiori del Teatro Paisiello. In scena Laure-Isabelle Blanchet è una donna che ha smarrito il suo gatto e che, prima di uscire alla sua ricerca, ha bisogno di trovare il cappello giusto da indossare (perché Mademoiselle Chapeau non esce mai senza cappello); su un palco ingombro di cappelli e cappelliere di varia foggia e dimesnsione che diventano il pretesto per giocolerie in successione, la Signorina Cappello attraversa la notte e il giorno, ci mostra la vita e le stagioni, con una dolcezza che le abita il volto e che fa pensare ad una sorta di Audrey Hepburn del nostro tempo; gioca coi cappelli, con gli specchi, con una tazza e con delle palline, un dito diventa marionetta con cui interloquire e la teoria dei cappelli indossati si compie al culmine del gioco col colpo di scena del ritrovamento inaspettato del gatto smarrito. La delicatezza semplice ed essenziale a cui s’impronta dà luogo ad uno spettacolo efficacemente delizioso.
E veniamo infine a Pulgarcito, dei baschi di Teatro Paraiso, variazione iberica della favola di Pollcino scritta da Perrault. L’impianto drammaturgico gioca su un doppio piano, quello del vero e del favolistico; la favola diventa metafavola, perché a narrarla – oltreché a interpretarla – è chi sta in scena e diviene soprattutto il pretesto, la chiave di lettura applicata, per descrivere le difficoltà del rapporto padri/figli, con un padre ormai anziano i cui figli (uno solo dei quali è presente in scena) sembrano ormai decisi a rinchiuderlo in un istituto; sono loro gli “orchi” e l’anziano padre è un Pollicino mutatis mutandis, anziano padre che dà invece corpo all’orco nella narrazione della favola, in una continua polivalenza dei ruoli che contribuisce a immettere un elemento ridanciano potentissimo nella rappresentazione. I due attori, Tomás Fernádez Alonso e Ramón Monje Soneíra, recitano per la prima volta in italiano, un italiano non perfetto perché provato solo in extremis dai due, eppure le evidenti sporcature linguistiche del testo riescono a non scalfire la bellezza dirompente di questo spettacolo, in cui divertimento e densità di senso si sposano in felice connubio, corroborati da un meccanismo scenico collaudato ed efficace, con cambi di ruolo a vista e semplici segni di una grammatica teatrale che fa buon uso della scena e dei suoi oggetti e che incornicia l’intera rielaborazione in una confezione compiuta e coerente.

Ma al di là del pregio qualitativo dei singoli spettacoli, quel che rende ai miei occhi questo Festival un accadimento degno di nota è la sua complessione: da un lato c’è, da un punto di vista strettamente artistico, la capacità programmatica di unire in una sintesi felice i diversi linguaggi della scena, dal teatro di narrazione ai nuovi linguaggi tecnologici (le videoinstallazioni di TPO), dalla fiaba tradizionale alla sua rivisitazione e alla libera rielaborazione, dal teatro d’attore al teatro di figura, spettacoli italiani e internazionali, il tutto senza mai perdere d’occhio che il fruitore destinatario è un pubblico di bambini, ma al contempo puntando su un’offerta spettacolare in grado di accattivarsi anche il gradimento di un pubblico adulto.
Non solo, ma parlando di Kids sono almeno due gli aspetti che vanno rimarcati: da un lato la capacità di attraversare lo spazio urbano in un raggio ampio che non si circoscrive al solo centro cittadino, ma che si distende sul territorio andando a toccare anche luoghi periferici o comunque non centralissimi, come il Teatro Antoniano e il Salone parrocchiale della chiesa di San Sabino oppure luoghi di interesse sensibile come il Museo Ferroviario. E, non meno importante mi pare sia il fattore della poliedricità dell’offerta complessiva del Festival, che vede nel proprio carnet di appuntamenti oltre agli spettacoli una serie di iniziative che concorrono ad elevarne ulteriormente lo spessore qualitativo, a partire dal laboratorio tenuto da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, passando per i laboratori di creatività, per i pranzi sociali e ancora per la presentazione del documentario Filosofare 3 di Alcantara Teatro e per l’incontro con chi ne è stato autore (Anna Rita Pizioli e Damiano Scarpa, che hanno avuto modo di illustrare il risultato della loro ricerca sullo sguardo e sul pensiero dei bambini), per arrivare infine al Rent a Movement organizzato dal Teatro delle Briciole con Elisa Cuppini, la quale per tre giorni in giro per la città ha raccolto i gesti che ciascuno ha scelto di donarle per legarli insieme in un montaggio coreografico che sarebbe stato mostrato a chiusura del Festival (e che ahimè non ho fatto in tempo a vedere).
Pertanto in una considerazione ancorché parcellizzata a tre giorni, si resta con l’impressione netta e ben delineata che Kids sia una di quelle esperienze da vivere e da vedere, una di quelle occasioni − veicolata da un'idea forte e valida come la “città bambina” che sa reinventarsi gli spazi e le espressioni − che rendono il teatro una parte vitale del corpo sociale.





Kids
Lecce, dal 28 dicembre 2017 al 7 gennaio 2018
direzione artistica Tonio De Nitto, Raffaella Romano
direzione organizzativa Tonio De Nitto
organizzazione e promozione Angelica Di Pace, Francesca D'Ippolito, Michela Marrazzi, Maria Chiara Provenzano, Raffaella Romano, Giovanna Sasso, Elisabetta Selleri, Adamo Toma
progetto grafico Alessandro Colazzo / sacodesign.it
allestimento spazi dario Cadei
responsabile tecnico Davide Arsenio
collaborazione tecnica Otto Marco Mercante, Adamo Toma
coordinamento attività laboratoriali Francesca Randazzo
foto e video Eliana Manca


In viaggio con le storie
con
Dario Cadei, Rocco Cadei
Il tenace soldatino di stagno

con Andrea Lugli, Tiziana Letterese
produzione Il Baule Volante
lingua italiano
durata 40’
Lecce, Museo Ferroviario, 3 gennaio 2018
in scena 3 gennaio 2018 (data unica)
Il Natale di Rocco e Assunta
con Roberto Anglisani
lingua italiano
durata 40’
Lecce, Museo Ferroviario, 3 gennaio 2018
in scena 3 gennaio 2018 (data unica)

Bertuccia e la biblioteca universale
fantasia simbolica sulle stagioni e la nascita

di e con Fabrizio Pugliese
produzione URA Teatro
lingua italiano
durata 50’
Lecce, Manifatture Knos, 3 gennaio 2018
in scena 3 gennaio 2018 (data unica)

Farfalle
regia
Francesco Gandi, Davide Venturini
coreografie Anna Balducci, Piero Leccese
visual design Elsa Mersi
sound design Spartaco Cortesi
computer engineering Rossano Monti
voce fuori campo Charlotte Zerbey
costumi Loretta Mugnai
oggetti di scena Valerio Calonego, Livia Cortesi, Gregory Petitqueux
in collaborazione con Stefania Zampiga
produzione TPO (Prato)
in co-produzione con Teatro Metastasio di Prato
lingua italiano
durata 50’
Lecce, Manifatture Knos, 3 gennaio 2018
in scena 3 e 4 gennaio 2018

Filosofare 3
un documentario sul pensiero infantile
interviste
Anna Rita Pizioli
riprese
Damiano Scarpa
montaggio, titoli, post produzione audio
Ilaria Scarpa, Luca Telleschi
musiche
Marco Mantovani
produzione
Alcantara Teatro
progetto realizzato con il contributo di
Regione Emilia Romagna
in collaborazione con
Comune di Rimini
coordinamento pedagogico
Assessorato alla cultura
lingua
italiano
durata
50'
Lecce, Cineporto − Sala Bertolucci, 4 gennaio 2018

Enidutilos o il brutto anatroccolo
tratto da Il brutto anatroccolo
di Hans Christian Andersen
di Maria Rita Alessandri
con Roberto Anglisani
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Salone parrocchiale Chiesa di san Sabino, 4 gennaio 2018
in scena 4 gennaio 2018 (data unica)

Cinema Paradiso
regia, luci e scene Michelangelo Campanale
con Giuseppe Di Puppo, Annarita De Michele, Erica Di Carlo, Paolo Gubello, Salvatore Marci, Palmiriana Sibilla, Anna Moscatelli, Luigi Tagliente
assistente alla regia Antonella Ruggiero
supervisione coreografica Aline Nari
cura del testo Katia Scarimbolo
tecnico luci Tea Primiterra
costumi Maria Pascale
video omaggio agli addii Mario Bianchi
video Ines Cattabriga, Michelangelo Campanale
produzione Tra il dire e il fare, La luna nel letto (Ruvo di Puglia)
lingua italiano
durata 1h
Lecce, Teatro Paisiello, 4 gennaio 2017
in scena 3 e 4 gennaio 2018

Mam’zelle Chapeau
(la signorina cappello)
di e con Laure-Isabelle Blanchet
assistente alla messinscena Jean-Marc Serre
costumi Aline Courvoisier
produzione Le Cockpit
in coproduzione con TMG (Ginevra)
paese Svizzera
lingua francese
durata 25’
Lecce, Salone Teatro Paisiello, 5 gennaio 2018
in scena dal 3 al 5 gennaio 2018

Pop up Garden
regia
Francesco Gandi, Davide Venturini
coreografie Stefano Questorio, Valentina Consoli
visual design Elsa Mersi
sound design Spartaco Cortesi
computer engineering Rossano Monti, Martin Von Günten
oggetti di scena interattivi Livia Cortesi, Francesco Taddei, Massimiliano Fierli, Saulo D’Isita
costumi Sonja Bäumel
in collaborazione con Luca Farulli, Maurizio Montalti, Enzo Santiccioli, Susanna Musztrai
produzione TPO (Prato)
in coproduzione con Théâtre National de Chaillot – Paris
lingua italiano
durata 50’
Lecce, Manifatture Knos, 5 gennaio 2018
in scena 5 e 6 gennaio 2018

Il paese senza parole
testo Roberto Anglisani, Alessandro Rossi
liberamente ispirato a La grande fabbrica delle parole
di Agnes de Lestrade
regia Roberto Anglisani
con Maria Ellero, Alessandro Rossi
musiche originali Marcello Batelli
coreografie Marianna Batelli
costumi Mirella Salvischiani
produzione Rosso Teatro (Belluno)
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Teatro Antoniano, 5 gennaio 2018
in scena 5 gennaio 2018 (data unica)

Pulgarcito (Pollicino)
autori Iñaki Rikarte, Iñaki Salvador
regia Iñaki Duarte
con Tomás Fernádez Alonso, Ramón Monje Soneíra
spazio scenico, oggetti e costumi Ikerne Gimenez
musica Iñaki Salvador
luci Esteban Salazar
produzione Teatro Paraiso
paese Spagna
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Teatro Paisiello, 5 gennaio 2018
in scena 5 e 6 gennaio 2018

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