“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 December 2017 00:00

Aspettando un mondo più gentile

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Memoria per luoghi e persone, memoria di storie che raccontano un luogo preciso (e precisamente individuabile in Castrovillari), ma che attraverso il particolare si riallacciano all’universale, alle evoluzioni sociali, fisiologicamente più lente nel Sud Italia: in Masculu e fiammina (che nel testo recitato diventa “fimmina”) Saverio La Ruina dà corpo alla figura di un uomo costretto a fare i conti con i pregiudizi dell’Italietta bigotta e conservatrice del secondo Novecento, dando forma di narrazione postuma in prima persona alla vicenda umana e sentimentale che il suo personaggio narra dinanzi alla tomba materna.

Una lapide con dentro la foto della madre defunta, più in là un cippo piccino, la luce va dritta a rischiarare il volto ritratto nella piccola cornice, c’è la neve sopra e lui la pulisce con un panno comperato apposta, mostrando premura filiale: questa la scena su cui ha luogo il dialogo.
Una confessione tardiva? Forse... Ma forse anche no, visto che per stessa ammissione progressiva del protagonista in scena, la madre aveva sempre saputo quale fosse l’orientamento sessuale del figlio, pur non avendone mai parlato. Un rapporto taciuto ma intenso, mai sopito, quello tra madre e figlio, che si riallaccia davanti ad una lapide, in un cimitero coperto di neve, una rosa portata in dono assieme alle scuse per un po’ di ritardo (il ritardo della visita al cimitero, metafora della tardiva condivisione di un momento di confidenza estrema tra un figlio e la propria madre). Ma forse l’uomo che in un giorno d’inverno dialoga con le spoglie della propria madre, sta in realtà parlando a se stesso, complice la distanza del ricordo (“È bellissimo cunta’ i ricordi”, dirà sin da subito, come se la distanza temporale consentisse di rivivere il passato sotto un’altra luce, anche nei suoi aspetti più cupi).
Ecco, più che una confessione, Masculu e fiammina mi appare come un dialogo finalmente realizzato, un dialogo con chi non può più ascoltare ma che pure non ha potuto fare a meno di “sentire”, di avvertire intimamente i turbamenti di un figlio, fragile come quel filo di voce cantilenante con cui parla, tenero, come quella rosa deposta in dono. Una madre che sapeva, e che condensava tutta la sua apprensione in un implicito “statti attientu”, in cui la disapprovazione per ciò che valori atavici non avrebbero potuto accettare lasciava il posto all’istintivo amore che una madre non può non provare per il proprio figlio.
Così ascoltiamo questo dialogo a una sola voce che Saverio La Ruina conduce con qualità d’attore che riconosciamo nella sua cifra abituale; e per certi versi, il suo approccio a questa storia ci riporta a Dissonorata, in cui in panni gesti e voce femminili raccontava un’altra storia dai risvolti tragici ambientata in quello stesso Sud retrivo. E lo ritroviamo soprattutto in una certa capacità corporea e gestuale con cui esprime, al di là delle parole, quel senso di compressione che schiaccia vite che esulino dalla cosiddetta comune normalità: la postura del corpo, stretto nelle spalle, le gambe ferme e le mani che, dopo essersi sfregate per darsi calore, accompagnano la narrazione; in più, quella sua voce dal tono pencolante, quasi un composto lamento affidato a parole dirette e pregnanti, ma dette con un garbo che sta lì a testimoniare la bontà d’animo di fondo che contraddistingue questo personaggio.
Un personaggio che non fatichiamo a collocare né cronologicamente né geograficamente, tanti e tali sono i riferimenti spazio-temporali precisi che punteggiano la narrazione. Se infatti la lingua in cui si è esprime è quel dialetto “liminare” che si parla nella zona del Pollino, i luoghi evocati e descritti – un ponte, un arco, la festa patronale dei Santi Medici Cosma e Damiano, le vedute del Pollino e un mondo piccolo, ristretto, chiuso e incassato fra le montagne, un mondo la cui normalità non contempla l’omosessualità – sono chiari riferimenti a Castrovillari, e altrettanto precisa è la collocazione temporale, visto che parla di un “grande amore” cominciato nel 1977 a Riccione, con Alfredo, un uomo di Treviso, poi tragicamente concluso con la morte del compagno durante un’aggressione mentre erano appartati.
L’uomo s’avvicina alla tomba della madre, ci si accuccia, annulla ogni distanza che può aver sentito in passato, racconta diacronicamente i passaggi del suo sentire, spiega di aver riscontrato solo a posteriori un filo sottile e sotterraneo che lega tutto, ricorda l’infanzia, il mare, la scuola, le prime carezze e i primi dileggi, l’epiteto di “ricchione”, parola assassina, i turbamenti della sua situazione vissuta in quella realtà e in quella epoca ormai remota.
La confessione – o la confidenza in forma di confessione, per meglio dire – del grande amore per Alfredo avviene − come a voler fondere due forme d’amore − sfiorando con una carezza la foto della madre, le cui condizioni di salute gli avevano imposto di tornare al paese e di diventare un pendolare dei sentimenti, fino al tragico epilogo, che La Ruina racconta sparendo nel buio, creando uno stacco in cui la parte più triste del passato scolora nell’oscurità, per poi riapparire quando racconta che i parenti di Alfredo, dopo tempo l’avevano cercato per incontrarlo. È un’uscita dall’ombra che mi pare abbia un forte valore simbolico, che riporta la storia al tempo presente, mentre lui riprende la posizione in dialogo seduto sul piccolo cippo, ritorna alle preoccupazioni della solitudine attuale, mentre qualche passaggio venato di leggerezza stempera i toni del monologo, coi riferimenti a Povia (che si è gay a vent’anni e poi passa) e a Marcello Lippi (che “nel calcio i gay non esistono”).
Sembra infine che quest’uomo, “masculu e fimmina” come l’avrebbe definito sua madre, acquisisca – grazie anche alla forza liberatoria di una confessione confidenziale – consapevolezza della liceità della propria condizione, sebbene ciò avvenga in un mondo (e in un microcosmo) nel quale lui dice di aver piacere a stare, ma che non è ancora capace di calarsi in un’ottica del tutto accogliente e comprensiva e che gli fa desiderare, mentre si distende accanto alla tomba, di ibernarsi in attesa di svegliarsi in un mondo migliore, “in un mondo più gentile”.

 

 

 

 

 

Masculu e fìammina
di e con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro, Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca, Mario Giordano
foto di scena Masiar Pasquali
produzione Scena Verticale
lingua dialetto calabrese
durata 1h 20'
Napoli, Teatro Nuovo, 8 novembre 2017
in scena dall’8 al 12 novembre 2017

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