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Monday, 28 August 2017 00:00

La famiglia artistica di Nathalie Béasse

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Come si è formata la famiglia artistica di Nathalie Béasse, regista francese di Angers (patria degli Angioini), abbastanza fuori dai circuiti ufficiali del teatro franco-parigino, ma invitata con una sua retrospettiva alla Biennale Teatro 2017 dal neo-direttore artistico Antonio Latella?
“Io non amo i provini: incontri, caffè, colloqui, attraversamenti. Così si è formato questo magnifico gruppo di attori e tecnici, provenienti da più nazioni, con i quali lavoro da tanti anni”. Quando ribatto chiedendole quanti di loro avesse visto in scena prima di contattarli, conoscerli, coinvolgerli, mi risponde, ma ridendo scherzosa, sornione e complice: “Nessuno di loro. Forse, li avessi visti in scena, non li avrei presi con me”.

Ecco, è sull’onda di un’ironia sottile ma immediatamente complice che io e il mio prezioso interprete, Andrea Di Maso, l’abbiamo incontrata per un incontro-chiacchierata (e non propriamente un’intervista) tra colleghi registi, per poi scriverne questo resoconto-rubrica ospitata su Il Pickwick, con la quale riuscire a dialogare tra colleghi su temi e modi del fare teatro oggi.
Ho sempre apprezzato curiosità e possibili condivisioni da scambiare tra colleghi. O almeno, in questo caso, riuscire a parlare di segni e di scrittura scenica senza bisogno di tradurre, sebbene io abbia domandato in italiano e lei risposto in francese, è gran conforto nonché portatore di comunicazione diretta, quasi allo stato zero di intermediazione.
Nathalie, le domando, la tua è una drammaturgia scenica costruita per destrutturazione, accumulazione, contrasti: come lavori, come lavorate a questo processo e in che modo intrecci e integri testo e scrittura scenica dei corpi?
Nathalie, acccompagnata da una collaboratrice della sua compagnia, sorride, prende fiato e poi suddivide la sua risposta tra me e il mio accompagnatore.
Io provenivo dalla visione di uno dei quattro spettacoli portati alla Biennale, una vera monografia sul suo lavoro, ma proposta all’incontrario, a partire cioè dall’ultima creazione per risalire poi verso la più datata e il mio interesse per il suo e loro metodo di creazione e costruzione sarebbe poi cresciuto proseguendo nella visione degli spettacoli.
“Il testo non viene per primo, sempre dopo, tranne che per Shakespeare, chiaramente. Mi rapporto prima alla scena, alla luce, al suono o ai suoni, ai costumi, alla materia, agli oggetti”. Nathalie ha fatto Belle Arti e firma anche le scenografie dei suoi spettacoli, oltre che drammaturgia e regia.
Come in molta parte del teatro vivo di questi anni lei ricorre a oggetti-simbolo, come il gran tavolo utilizzato in ROSES, che prende le mosse dal Riccardo III di Shakespeare, oppure ad oggetti ad utilizzo e semantica multiple.
“Quando comincio a lavorare su un nuovo spettacolo ho già in mente la scenografia e alcuni degli oggetti-segni su cui vorrò far lavorare nello spazio i miei attori. Per esempio, posso farli lavorare per cinque giorni con, che so, una bacinella d’acqua, riscontrando ogni giorno cose differenti nell’incontro tra quell’oggetto e la loro fisicità, la fisicità di un corpo che cade, di come cade o di come si relaziona a quella bacinella. Ma procedo sempre a partire da immagini e suggestioni molto precise, molto forti. Per questo ho bisogno di attori aperti, disponibili a calarsi nel mio mondo e a concretizzarlo, rendendolo vivido davanti ai miei occhi”.
Siamo in una saletta della sede della Biennale, a Ca’ Giustinian, e c’è un gradevole filo di aria condizionata che contrasta col caldo innaturale di quest’estate e con un’umidità-killer che fa azzeccare i vestiti addosso in modo indecoroso.
Quando le chiedo a che punto entra in campo il testo, una più o meno vaga drammaturgia della parola, la sua risposta è chiara: “Io porto una valigia di libri, dei costumi, degli oggetti e via, si lavora. Il testo, la parola, i frammenti di cui si comporrà lo spettacolo nascono a poco a poco lavorando con gli attori. Certo, ROSES ha avuto una gestazione diversa, lì abbiamo cominciato col testo, anche se sono partita dalla visione del gran tavolo che poi nello spettacolo diventa un po’ di tutto”.
La Béasse ad un certo punto mi sorprende perché si mette a parlare di cinema e dei suoi amori quasi tutti italiani (Pasolini, Visconti, Fellini, ma anche i fratelli Coen), cinema che ha visto forse più di quanto abbia visto teatro (e difatti conosce molto poco il teatro nostrano), ma lo cita perché il cinema non solo la ispira molto (Festen di Vinterberg, ad esempio, a causa delle sue morbose dinamiche familiari, l’ha ispirata proprio nella lavorazione di ROSES) ma anche perché, mi dice apertamente, lei voleva fare cinema, non teatro.
A questo punto, condivido spontaneamente con lei il fatto che anch’io, all’inizio del mio personale percorso di agnizione, quando ho capito che avrei intrapreso la strada della scrittura e della regia, ero stato attratto e affascinato prima dal cinema e poi dal teatro. Subito dopo questa affermazione entrambi ci mettiamo a ridere, di gusto, come per un intimo richiamo a più profondi pensieri, mentre la sua collaboratrice e Andrea restano come tagliati fuori da questo canale di comunicazione.
Il motivo della muta, ma sorridente, intesa dipende dal fatto che entrambi abbiamo verificato sul campo come sia possibile riuscire a creare e affascinare col teatro anche con poco, pochissimo, cosa molto ardua col cinema, che ha bisogno di una struttura assai articolata e di tanti, tanti soldi.
“Ma al cinema ci arriverò. Con i miei tempi, ma ci arriverò. Il lessico cinematografico mi appartiene e spesso un film è tra le mie fonti ispiratrici quando lavoro ad un progetto”.
Ecco, appunto: dimmi come scegli tematiche e soggetti dei tuoi spettacoli. E aggiungo, prima che lei risponda: che tipo di ispirazione porti in dote ai tuoi attori e quanto tempo provate uno spettacolo?
“Mi piace lavorare sempre sugli stessi temi, in verità: la famiglia, l’infanzia e i ricordi, innanzitutto. E poi il rapporto uomo-natura. Infatti, spesso chiedo ai miei attori di provare sui prati o nei boschi. Io stessa, prima di cominciare, cerco un contatto con la natura per riempirmi di immagini e suggestioni. L’insieme di queste visioni così formatesi lo diluisco e lo propongo a tappe successive ai miei attori con i quali fondamentalmente cerco di impostare il lavoro su tematiche umane, prettamente riconoscibili come umane”.
Teatro dell’umanesimo mi scappa di bocca, con un eccesso di semplificazione, sull’onda di quel che capisco del suo francese, abbinato alla vivace traduzione simultanea del mio fraterno amico, anche compagno di scena e ottimo compagno di visioni teatrali tanti anni fa, ora importante manager nelle più importanti strutture alberghiere veneziane.
Ma lei capisce e cavalca per un attimo la mia definizione, anche se dubito le sia risultata completamente chiara. Ma non importa, evidentemente la chiacchierata, anche se mascherata da intervista tradizionale, la sta soddisfacendo perché incalza. “Quadri, paesaggi, film: tutto entra nella mia ispirazione. E poi, tessuti, oggetti, colori. Il tempo? Be’, la gestazione di un lavoro nuovo è lunga. L’ultimo spettacolo è nato in tredici settimane di prove diluite in un anno solare”.
Lavorare a blocchi per far sedimentare un lavoro, farlo percolare lentamente nel corpo e nelle teste di chi ci lavora (attori, regista, assistenti, scenografo, costumista, disegnatore luci, ideatore del progetto grafico, fotografo di scena, drammaturgo dei suoni e/o compositore delle musiche, tecnici e così via) è modalità di lavoro che amo e pratico da anni e questa lingua la comprendo a meraviglia: credo sia proprio questa la magnifica e imperdonabile inattualità del teatro, ciò che continua ad affascinare registi, attori e una certa fetta di pubblico. Nathalie mi fa segno con la mano, capisco che vuole completare un pensiero: “I miei attori devono dimenticare che sono attori e devono permettermi di esprimere e comunicare quello che voglio trasmettere. Non lavoro molto sull’improvvisazione con loro ma amo inventare e fare un po’ come i bambini: metto un pezzo di legno qui, chiedo un movimento là, cerco di ricreare con gli oggetti quello che le immagini mi suggeriscono. Ma sono ovviamente pronta anch’io a lasciarmi ispirare da ciò che fanno”.
Adattare un testo è tradirlo o sviscerarlo rispettandolo? Il riferimento è palese per lei, mi riferisco al Riccardo III della sera prima.
“No, no, non è assolutamente tradirlo, al contrario. Io lavoro per trovare l’essenza, per far emergere la mia visione ma sublimando il contenuto profondo del testo scelto”.
Il discorso è interessante e coinvolgente ma il tempo scivola via rapidissimo, lei a breve dovrà andare all’incontro col pubblico e io ho ancora curiosità e domande da rivolgerle. Le chiedo quali differenze e quali similitudini riscontri nelle varie drammaturgie europee.
In generale si sente ispirata dal versante tedesco, molto meno da quello francese, ammettendo poi di conoscere poco la drammaturgia latina (Italia, Spagna, Grecia). Non ama molto la teatralità né la provocazione fine a se stessa bensì l’attore che vive la sua realtà in scena, col corpo prima che con altro. Approfitta di questo argomento per riaprire un file apparentemente già delineato: “È difficile far penetrare il pubblico in un tipo di narrazione come quella che amo e che faccio, una narrazione non classica, senza il classico inizio, il classico svolgimento e la classica fine tutti ben riconoscibili. Non amo il codice della quarta parete anche se ne faccio uso. Gli spazi, gli interstizi, le vibrazioni che intercorrono tra lo spettatore, quindi la vita reale, e l’attore, cioè la scena, sono ciò che mi animano, ciò che muove i miei passi nella creazione e nella direzione. Metto in scena domande, non certo risposte”.
Le chiedo se ha senso per lei la parola poetica e lei mi dice: “La mia poetica, di cui mi rendo conto però solo dopo averlo costruito, uno spettacolo, è molto visuale. E misteriosa, anche. E mi piace pensare che vada nella direzione di un pubblico che vi penetri in maniera attiva, ci lavori su per poterla decodificare. Solo così il pubblico si stacca dal mondo reale ed entra nel nostro”. Ecco, certifico sempre più l’esistenza reale, concreta, di un filo diretto che lega artisti, registi, drammaturghi che fanno della resistenza al convenzionale la loro, la nostra, bussola. Condividere quest’ultimo concetto non significa necessariamente aver messo in scena cose simili nello spirito o nella carne ma che il concetto generale guida ed illumina una sensibilità ormai diffusa (magari non ancora abbastanza, questo sì) che prova a farsi poetica nei mille modi in cui è possibile coniugarlo. È in questo modo che il pubblico può immaginare e aprire porte, cassetti, interi faldoni, nelle proprie teste.
Mi viene naturale chiederle che idea di teatro politico ha.
Prima di aprire bocca, un lungo silenzio. Ammetto che mi incuriosisce assai, questo silenzio. “Parlo dell’uomo, non di politica. Non mi interessa dare o lanciare messaggi. Parlo del potere, qualche volta, questo sì”. Dev’esserci qualcosa che mi sfugge, forse qualche lost in translation per la fretta che ormai ci ha preso tutti, ma rispetto il suo pudore nel darmi questa risposta.
Ci avviamo verso la fine.
Cosa pensi dei festival? “Sono avvenimenti magnifici, un incontro di universi, un crocevia di culture. Sono felicissima e assai grata a Latella di essere stata invitata alla Biennale, anche perché Venezia è la patria delle Belle Arti e io provengo da lì, da quel mondo”.
Poi scopro che la Béasse non solo è per la prima volta in Italia ma è proprio per la prima volta in assoluto ad un festival internazionale e questa cosa me la fa percepire assai tenera ma anche assai orgogliosa di esserci arrivata facendo il suo teatro e null’altro.
Le chiedo dei tanti laboratori che tiene, anche per utenze particolari (come diversamente abili o carcerati), e lei mi dice che prova sempre a creare il primo impatto con loro attraverso giochi di socializzazione che prevedano il contatto fisico e che non fa differenza tra un’utenza e un’altra. E questa cosa mi piace molto: anch’io ho tenuto decine e decine di laboratori, anche per utenze particolari, provando sempre a creare un’empatia fisica ed emotiva prima di tutto il resto e verificare che anche nel nord-ovest della Francia una regista della mia stessa generazione si comporti allo stesso modo mi piace, mi piace molto.
Ci rilassiamo e ci sorridiamo. Abbiamo finito giusto in tempo. Arrivano infatti, solerti, ad avvertirla che a breve comincerà la conferenza che la vede protagonista.
Molto di quello che ci siamo detti e raccontato fa parte di un mondo forse in via di estinzione ma molto vivo, molto energico, molto concreto.
I suoi quattro spettacoli, su sua richiesta, sono stati programmati all’incontrario e Nathalie, nel salutarci e ringraziarci a vicenda, mi dice ancora: “Vivo i miei lavori come scatole cinesi, le cui ultime scene, in un modo o nell’altro, diventano invariabilmente le prime scene del lavoro successivo. Credo fosse importante mostrare questo mio percorso a ritroso”.
Ora la aspettano conferenza e spettacolo serale con la sua famiglia artistica.
Il cerchio si chiude.

 

 



Biennale Teatro Venezia 2017 – 45. Festival Internazionale del Teatro
(dal 25 Luglio al 12 Agosto 2017)

‘Personale’ dedicata alla regista Nathalie Béasse – http://www.cienathaliebeasse.net/

le bruit des arbres qui tombent

ideazione e regia Nathalie Béasse
con Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Érik Gerken, Clément Goupille
produzione association le sens
coproduzione Le Théâtre, scène nationale de Saint-Nazaire, Théâtre du Point du jour à Lyon, Théâtre Universitaire Nantes, Grand R la Roche-sur-Yon, Quai-CDN Angers, Théâtre de la Bastille Paris
paese Francia
lingua francese (con sopratitoli in italiano)
durata 1h 30'
anno 2017
Venezia, Teatro alle Tese, 28 luglio 2017
in scena 28 luglio 2017 (data unica)

ROSES
liberamente tratto da Riccardo III
di William Shakespeare
ideazione e regia Nathalie Béasse
con Sabrina Delarue, Étienne Fague, Karim Fatihi, Érik Gerken, Béatrice Godicheau, Clément Goupille, Anne Reymann
produzione association le sens
coproduzione Le Théâtre, scène nationale de Saint-Nazaire, le Nouveau Théâtre d’Angers, Centre dramatique national d’Angers, Théâtre de la Bastille, le Lieu Unique, scène nationale de Nantes
paese Francia
lingua francese (con sopratitoli in italiano)
durata 1h 20'
anno 2014
Venezia, Teatro Alle Tese, 29 luglio 2017
in scena 29 luglio 2017 (data unica)

tout semblait immobile
ideazione e regia Nathalie Béasse
con Camille Trophme, Étienne Fague, Érik Gerken
produzione association le sens
coproduzione Le Théâtre, scène nationale Saint-Nazaire, Théâtre Louis Aragon, Scène conventionnée pour la danse Tremblay-en-France, EPCC Le Quai Angers
paese Francia
lingua francese (con sopratitoli in italiano)
durata 50'
anno 2013
Venezia, Tese dei Soppalchi, 30 luglio 2017
in scena 30 luglio 2017 (data unica)

happy child
ideazione e regia Nathalie Béasse
con Camille Trophme, Étienne Fague, Érik Gerken, Karim Fatihi, Anne Reymann
produzione le sens
coproduzione Le Quai, Forum des Arts Vivants, Centre National de Danse Contemporaine Angers
paese Francia
lingua francese (con sopratitoli in italiano)
durata 1h 15'
anno 2008
Venezia, Teatro Piccolo Arsenale, 31 luglio 2017
in scena 31 luglio 2017 (data unica)

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