“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 23 April 2017 00:00

Io e te, tra finzione e beatitudine

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Gli attori rientrano per rispondere agli applausi che hanno meritato – Danilo Giuva, Lucia Zotti, Mino Decataldo, Giandomenico Cupaiuolo – e, nel mezzo, Licia Lanera. Io guardo quest'ultima. A rapirmi sono gli occhi, incastonati nel trucco nero sulla pelle chiara e lucidi, pieni come fossero prossimi al pianto. Licia Lanera non guarda il pubblico, il teatro nella sua ampiezza, i compagni di recita che le stanno accanto e che pure tiene per mano, non guarda la postazione in cui sono i tecnici (pubblico, teatro, compagni di recita e tecnici per un attimo sembrano esserle spariti d'intorno): Licia Lanera guarda in un punto solo e, quel punto, coincide con la poltrona centrale dell'ultima fila di Galleria Toledo, lì dove siede Riccardo Spagnulo, cofondatore di Fibre Parallele, l'altra anima prima di questo gruppo-culto della mia generazione e degli ultimi dieci anni di nuovo teatro italiano. Nel suo sguardo dieci anni di vita, dieci anni di teatro.

Un critico non dovrebbe mai indugiare sulle emozioni, lo insegnano subito in tutti i corsi dedicati a questo “lavoro che non esiste”, per citare Mamet. Ma io ho la scusa di non aver mai frequentato corsi di critica, e di poter dunque sbagliare liberamente, per cui posso permettermi – in apertura d'articolo – di scrivere dello sguardo che ha unito Licia a Riccardo traversando e tagliando di netto la platea. Non solo. Posso permettermi di strappare allo spettacolo un altro momento e un altro sguardo: siamo a tre/quarti de La beatitudine, Licia Lanera è seduta accanto al tavolo, Giandomenico Cupaiuolo è disteso in proscenio e recita la sua confessione, un tempo recitata da Riccardo (“Come sono arrivato a questo punto? Che cosa mi ha spinto? Cosa ho seguito? Non lo so più”) mentre Lucia e Danilo stanno a sinistra, in attesa di essere ricoinvolti nella scena. Io guardo Licia Lanera. Come pozzi profondi gli occhi mentre le labbra sibilano qualcosa che le affiora e le resta alle labbra, non diventando mai voce. Ho l'impressione che stesse già guardando lì dove siede Riccardo Spagnulo. Un momento umanissimo, privato-in-pubblico, ricavato nel pieno della messinscena. Poi Licia apre le gambe, come vuole la trama, s'inerpica come un felino sul tavolo, gattona verso Danilo Giuva, lo bacia: La beatitudine ha ripreso il suo corso, sorrisi degli spettatori incidono il silenzio. A me, invece, manca il fiato.
Sono questi due istanti che porto via, fuggendo verso casa. Sono due regali che evidentemente il dio del teatro ha voluto farmi consentendomi di suggellare così sette anni di Fibre Parallele, di loro spettacoli rincorsi e raggiunti nelle stanze off di Napoli, di recensioni scritte nel tentativo di raccontare una storia di cui coesistenza quotidiana e forma artistica, impegno politico e teatralità dichiarata sono stati e sono ancora un tutt'uno. Un dono questi due sguardi di Licia a Riccardo, un dono che Licia Lanera ha fatto inconsapevolmente anche a chi negli anni li ha spiati in platea spiandone i corpi che nel frattempo cambiavano, i capelli che venivano tagliati, colorati e che ricrescevano; il tono della voce che diventava maturo tanto quanto è diventata via via più matura la drammaturgia, la consapevolezza registica, la qualità attorale.
Tutto trova così compimento, in questa replica: non quella di ieri, non quella che ci sarà domani. Tutto trova così compimento confermando – forse è necessario ribadirlo, in tempi di social e d'invasione dello spazio scenico da parte di mezzi tecnologico-mediali, buoni per chissà quale straordinaria innovazione di linguaggio – che il teatro è e resta occasione di (re)incontro, sede in cui l'uomo si pone al cospetto fisico dell'uomo, spazio dell'irripetibilità e dell'imperfezione, luogo in cui lo sguardo diretto, fragile e nudo, è ancora possibile: tra chi staziona sul palco e chi siede nell'ultima fila. Questo, proprio questo e con un con tale carico emotivo, è accaduto a Napoli, a Galleria Toledo, il 20 aprile 2017.
Adesso posso mettere in fila qualche nota che funga invece da recensione.


Alla base de La beatitudine c'è – suggestione di partenza, ispirazione nascosta tra le pieghe della scrittura; lo ha dichiarato più volte nelle interviste Riccardo Spagnulo – l'autobiografia di Teresa d'Avila: Il libro della sua vita. Leggerlo, questo diario di una donna diventato la testimonianza di una santa, significa imbattersi in pagine dalla scrittura piana, talora allusiva (l'importanza dei ritratti, il giardinaggio come metafora), colma di un'apparente calma compositiva, ricca di dichiarazioni di modestia, di non so dire, di non so come spiegare, di non riesco a farvi comprendere. Il libro della sua vita è invece, badando non alla forma ma alla sostanza, una lettura intensa, a tratti addirittura tragica, crudele e cattiva, poiché descrive un faticoso percorso di formazione, un tentativo di crescita, l'affermazione della propria fede. Nel libro c'è tutto: c'è la vita e la morte, il dolore fisico (il vomito, la paralisi) e la leggerezza dell'anima, c'è il distacco dalla vanità e la vanità che torna a presentarsi come una tentazione, c'è il bisogno che una ragazza ha di distrarsi e il rigore crescente che una devota manifesta per la sua credenza; c'è la fissazione religiosa in termini di visioni, parole, illusioni, atteggiamenti, forzature quotidiane, dinieghi e concessioni, recita di sé agli altri e a se stessa e c'è la preghiera intesa come breve, fuggente ma assoluto contatto con Dio: un contatto intimo, sessuato, riempitivo; direi orgasmico: “Mentre l'anima cerca Dio si sente con un diletto grandissimo smarrirsi tutta in un grande svenimento che le toglie lentamente il respiro e tutte le forze corporali” – scrive Teresa d'Avila – “in modo che non può neppure muovere le mani; gli occhi le si chiudono senza volerli chiudere o, se li tiene aperti, non vede quasi più nulla; se legge non riesce a pronunciare una lettera e neppure a distinguerla; ode, ma non capisce che ode. E così i sensi” – continua – “non l'aiutano in nulla e le recano danno fino a quando non l'abbandoneranno al suo godimento. Parlare le è impossibile perché non le riesce formare una parola né avrebbe la forza, anche se riuscisse a formarla, di pronunciarla perché ogni forza esteriore si perde e va ad aggiungersi a quelle dell'anima per meglio godere. Il diletto esteriore che si prova” conclude “è grande e molto evidente”.
L'estasi, la beatitudine, la scordanza del mondo e dei suoi tormenti quotidiani; il modo ancestrale, devoto, vocazionale nel quale colmare i propri vuoti, le proprie mancanze, le proprie sconfitte, le proprie colpe, la solitudine. Lo comprese d'altronde Gian Lorenzo Bernini quando – tra il 1647 e il 1652, componendo la Transverberazione di Santa Teresa d'Avila – scolpisce una donna che sta per essere penetrata, riempita e svuotata, posseduta, trafitta, scavata. “Un giorno mi apparve un angelo, bello oltre ogni misura.” racconta Teresa; “Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata”. Questo – sotto una cascata d'oro divino, che funge come da luce di scena – teatralizza Bernini e scrivo “teatralizza” non a caso: perché lo scultore ne fa spettacolo, offerto a due palchetti di spettatori marmorei posti alle pareti laterali della chiesa: sono i committenti, la famiglia Cornaro, in veste di testimoni di quel che sta avvenendo sull'altare.
Ebbene. L'estasi come momentanea dimenticanza, come “abbandono tra le braccia” per usare un'espressione della santa, l'estasi come atto corporeo e come coito, l'estasi come malanno e antidoto, come fissazione, circostanza clinica e come bisogno di fuga, necessità di dimenticanza e come preannuncio d'addio, come riempitivo contro-tragico per cui reagisco a ciò che mi manca sacrificandomi (e tentando di sacrificare chi mi sta accanto) ossessivamente all'Idea, alla mia fede, è il primo punto che Riccardo Spagnulo coglie ne Il libro della sua vita traducendolo ne La beatitudine; il secondo punto è invece la teatralità, che va di continuo dichiarata, resa evidente: conferma di una poetica, quella di Fibre, certo; ma in questo caso anche aderenza ad un'opera, l'autobiografia di Teresa d'Avila, che – in quanto confessione – è una continua esposizione di sé alla platea dei lettori.


La beatitudine offre quattro costrizioni; offre un marito e una moglie che accudiscono un bambolotto (surrogato plastico di un figlio mai avuto) e una madre e un figlio cui la malattia – lui è paraplegico – funge da alibi, condizione e da scusa per continuare a stare assieme. Tutti hanno in petto una doglianza, una sofferenza subita che non passa e che cercano di alleviare fingendo, mentendosi, imponendosi all'altro, ingaggiando uno strategico conflitto quotidiano fatto di presenza ed assenza, di parole-chiave crudeli, di ordini, comandi, assuefazioni e ribellioni, di bugie e verità dette per fare male. Occhio in particolare alle donne: se a Lucia manca aver vissuto e cioè aver goduto della vita – “mi sono occupata di te ogni secondo della mia vita da quando sei nato, da quando sei uscito da qua dentro. Ti ho fatto mai mancare qualcosa? No. Ho fatto una vita d'inferno per colpa tua” dice instillando senso di colpa mentre celebra e sacralizza il suo spirito di abnegazione – a Licia manca invece il figlio che non ha mai avuto, così come confessa (premessa da cui parte lo spettacolo) nel prologo, che contiene la narrazione di un aborto: “Un uomo entra e mi ficca due dita dentro. Mi fa un male atroce. Spinge così forte che mi sento svenire. Cerco di associare questo dolore a qualcosa che ho già vissuto ma niente gli assomiglia. Fa caldo. Il sole inizio a non sopportarlo più. Ho dei forti dolori alla pancia, mi vengono a prendere; io ho paura, ho paura. Per questi qua è tutto normale ma a me stanno levando tutto. Mentre raschiano per levare quello che resta del corpo morto di mio figlio – una poltiglia di pezzi e placenta e sangue – io sogno di ricostruirlo pezzo pezzo. Formo un cuore che mi metto in gola e mastico e lo ributto giù nella speranza che si riformi vivo dentro di me”. Due Teresa d'Avila, in qualche modo: l'una santifica se stessa attraverso il sacrificio che diventa prigionia mentre l'altra sostituisce l'esistenza mondana con la fede, una religione, questa invenzione, la menzogna: fare finta che il bambolotto sia un bambino.
Così, seguendo una partitura rigorosa composta da otto scene incorniciate da un prologo e un epilogo – partitura che si sgrana come un rosario, se è vero che spesso l'ultima frase di una scena diventa la frase d'inizio della scena successiva – Fibre Parallele riesce nuovamente ad incidere sulla nostra presenza a teatro mostrandoci, attraverso l'eccezionalità della recita teatrale, la normalità della nostra recita abituale. Il dolore che non passa e che nascondiamo tacendo fino quasi a scoppiarne, il tentativo di andare avanti, quest'insopportabilità reciproca che affiora, si mostra, colpisce, si inabissa di nuovo; l'odio che soggiace a un amore che tenta di resistere senza poter resistere più; il bisogno di qualcosa di diverso, forse di qualcuno di diverso, per fuggire via da questa nostra storia in cui non mi sento più libero, che non mi basta più, in cui non riesco a sentire qualcosa di vero, qualcosa di vivo. “Vorrei un momento, un attimo, per ricongiungermi con la realtà, uno schiocco di dita, in cui i miei sensi siano così disponibili e la mia percezione così aperta da essere fregato dalla bellezza”. La tentazione, il tradimento. Perdizione nefasta e necessaria, che nel finale assume i tratti di una danza felice e misera e che apre alla deflagrazione conclusiva: che di noi non resti più niente (finché morte non ci separi, fossimo sull'altare), ne io, né tu, né questa vita che ormai non era più vita, né questi piatti-simbolo (casa, cura, coppia, famiglia) destinati a ridursi in un lurido tappeto di cocci.
Tutto questo, ne La beatitudine, assume fattezza teatrale.


La penombra in cui viene lasciata la platea, il prologo autorale che viene inciso dagli sguardi dati agli attori a schiera, la parola “buio” detta al tecnico-luci e la frontalità, il fermo-immagine come presupposto per la scena successiva, la reiterazione di un movimento (i sei piatti rotti da Licia Lanera), le battute che alludono al lavoro registico-attorale (“lo dovevo dire io”, “non hai i tempi giusti”, “perché non riesco a fare finta”). Il titolo, epicamente esposto sulla parete di fondo; certi dialoghi che avvengono senza guardarsi; micro-eventi (la caduta di un piatto) o battute che servono ad avvertire di ciò che avverrà; una costruzione interna che vive di costanti aperture al pubblico. E ancora: le funzione visiva assunta dalle quinte laterali e la partitura sonora che traduce sensazioni intestine; le posizioni che coniugano fisicamente il dettato, una descrizione cui non corrisponde ciò che vediamo (“stai da stamattina in pigiama, non ti sei neanche lavato e puzzi”), un'azione che viene detta ma non agita (“stai mangiando il gelato”) e le confessioni, svolte nell'angolo anteriore del palco; l'anti-naturalismo delle posizioni assunte quando non si è in azione (Lucia che staziona sul fondo, di spalle); il continuo smascheramento del fatto scenico: il “mo' c'è la tabellina del sei” detto guardando la platea; il polpaccio della gamba sinistra usato come fosse un telefono; il “devo dirti questa cosa” con cui Licia impone a Giandomenico di alzarsi; lo spostamento degli arredi a vista; la parrucca tolta e rimessa al bambolotto; una posizione familiare idillica per cui Licia e Giandomenico, simili a statuine angeliche o agli “uccellini” di cui parla Teresa d'Avila, guardano nella stessa direzione in cui guarda il loro figlio di plastica.
Aspetti di una messinscena fondata sulla doppiezza per cui abbiamo due ambienti che si corrispondono, dinamiche di movimento attorale che sono l'una il calcolato bilanciamento dell'altra, un continuo utilizzo (a tratti geometrico) nell'uso dello spazio, nella relazione tra spazio e corpo e tra corpo e corpo ed una vestizione fatta per corrispondenze: gli abiti scuri, le camicie con le asole in diagonale, l'intimo nero, le ciocche di capelli colorate. D'altronde: una linea di luce riga nel mezzo il palcoscenico e funge ora da parete invisibile, ora da distanza colmabile o da confine superabile, ora da specchio nel quale riflettersi e cioè vedersi e pensarsi riconoscendosi. Così il teatro ad un tempo mostra la miseria della menzogna, diventa esso stesso falsume dal quale fuggire per non morirne (La beatitudine contiene uno dei più bei arrivederci che siano stati dedicati al teatro: “Vienimi a prendere e apri quelle cosce e fammi una sorpresa perché mi serve per continuare ad andare avanti, a sopportare la memoria, fare la memoria, la ripetizione, la continua ripetizione, come macchine. Venitemi a rapire”) ma − nel contempo − il teatro conferma anche la nobiltà della propria funzione catartica: dove altro questa stessa menzogna impone salvifica consapevolezza di sé a chi l'osserva?
Fulcro dello spettacolo – aiuto-regista e servo di palco, impegnato kantorianamente a dirigere e permettere lo spettacolo dall'interno collocando una sedia, osservando una scena, spingendo un'attrice nel posto in cui l'attrice deve stare – è la quinta figura de La beatitudine, il mago (Mino) che poi mago non è mentre è voce carnale, visibile suggestione uditiva, spettro che perlustra ed abita l'assito, massima icona della finzione: quella che determina il nostro comportamento, al cospetto della persona che non amiamo più; quella che allestisce la recita, da portare a termine su queste assi di legno. Non a caso tocca a lui reggere, durante il prologo detto da Licia Lanera, il bambolotto; non a caso tocca a lui chiudere La beatitudine con un epilogo che al prologo si lega ponendo in relazione “la realtà e la finzione”: se Licia in apertura aveva detto del suo bisogno di sostituire chi le manca (il figlio) con qualcosa che non esiste e che diventa reale per la durata dello spettacolo (il bambolotto), a Mino tocca risponderle mettendola al cospetto de “i risultati” che produce l'inganno prodotto a sé ed agli altri: “Qualcosa che non è reale per aggiustare la realtà… non è possibile” afferma Mino pochi istanti prima che La beatitudine finisca dimostrando – ed è l'ennesimo atto politico per mezzi artistici compiuto in questi dieci anni da Fibre Parallele – la funzione crudelmente lenitiva che possiede ancora, e nonostante tutto, quest'arte.

 

 

 

La beatitudine
di
Licia Lanera, Riccardo Spagnulo
drammaturgia Riccardo Spagnulo
spazio e regia Licia Lanera
con Giandomenico Cupaiuolo, Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Lucia Zotti
luci Vincent Longuemare
assistente alla regia Ilaria Martinelli
tecnico di palco Amedeo Russi
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Rosaria Pastoressa
produzione
Fibre Parallele
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, MA Soc. Coop. Costing Management
con il sostegno di Consorzio Teatro di Bari-Nuovo Teatro Abeliano
lingua italiano, barese
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 20 aprile 2017
in scena dal 19 al 23 aprile 2017

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