“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 25 March 2017 00:00

Appunti su "Il giocatore"

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Premessa
Il giocatore è un allestimento complesso, complesso è il passaggio che cerca da un genere (la letteratura) a un altro (il teatro), complesse sono le relazioni tra attore e personaggio, tra attore ed attore, tra personaggio e personaggio che impone. Ne scrivo quando le prime repliche sono quasi terminate, avendo però la sensazione che la messinscena sarà ripresa: forse al Bellini; probabilmente in tournée la prossima stagione. Allora metto giù un insieme di appunti, a futura memoria, rispetto a uno spettacolo sul quale sarà necessario ritornare ancora.


Un minuto dello spettacolo
“Dunque, che cosa abbiamo?”
“Il giocatore”
“… che peraltro non ha ancora giocato...”
Daniele Russo, nel ruolo di Dostoevskij, passa dal proscenio al centro del palco. S'aggira – con passi nervosi – tra attori che sono personaggi solo abbozzati e che in questo minuto di spettacolo se ne stanno immobili, come larve o pezzi di un marchingegno da assemblare. Poi Russo prosegue:
“… è precettore nella famiglia del generale, giusto? È innamorato di Polina, o almeno crede di esserlo, il che è lo stesso” – aggiunge, volgendo lo sguardo a Camilla Semino Favro che (in questo momento) interpreta Anna Grigor'evna, la stenografa che collabora con lo scrittore – “e il generale invece si è impegnato tutto per stare dietro a M.lle Blanche, che non si sa che cosa sia...” (sguardo di Daniele Russo a Martina Galletta, che staziona sulla destra, poi mano in avanti, mossa leggermente) “… in effetti si sa ma non è così importante…”.
Pausa breve mentre avanza Sebastiano Gavasso, che sarà De Grieux.
“… il francese! Il francese che ha giocato dopo il generale! Riprendiamo da lì… oh, non da quel francese ma da quell'altro: il cugino di M.lle Blanche”
“Non c'è nessun altro francese” dice Camilla Semino Favro/Anna Grigor'evna, controllando ciò che ha scritto
“Signorina…”
“Perdonatemi...”
“Perdonatemi voi… io di questo romanzo non so assolutamente nulla…” dice Daniele Russo/Dostoevskij poi, osservato il francese, aggiunge: “Il marchese De Grieux, cugino di M.lle Blanche, che aspetta di riavere indietro tutto il denaro che ha prestato al generale, oppure di prendersi in cambio i suoi beni”
“Ah la France!” dice il francese – vagito del personaggio che sta per nascere.
La fascia orizzontale che delinea il proscenio illuminandolo si spegne, non rimane che un punto-luce sulla scrivania posizionata a sinistra, lì dove la Semino Favro/Anna Grigor'evna continua a scrivere. Già, ma a scrivere cosa? “La Francia… la Francia ha partorito certi esemplari cicisbei” dice Daniele Russo fondendo il primo incontro tra Aleksej e De Grieux (capitolo iniziale de Il giocatore) col monologo sulla “forma” contenuto nel secondo capitolo del romanzo, così passando dal ruolo di Dostoevskij a quello di Aleksej: “Io ho dei dubbi” dice infatti e questa frase appartiene al personaggio del libro giacché Aleksej è quello che meno sa di identità, progetti, trame, rapporti e scopi segreti delle figure con cui è in relazione nell'opera: “Io ho dei dubbi, ho dei dubbi” prosegue ancora, prima di “girare come una trottola” attorno al croupier, per poi farsi circuire dallo stesso croupier.
Perderà alla roulette.


Dalle pagine di Anna Grigor'evna Dostoevskaja
“Fëdor Michajolovič si diede a camminare per la stanza con passo affrettato” e, “dopo aver dettato”, “mi pregò di leggere quello che avevo scritto. Alle prime parole mi fermò subito”:
“Come 'ritornarono da Roulettemburg'? Io ho detto questa parola?”
“Sì”
“È impossibile”
“Scusatemi, vi è nel vostro romanzo una città che ha questo nome?”
“Sì, l'azione si svolge in una città di gioco che ho chiamato Roulettemburg”
“Allora se c'è, voi l'avete dettato senza dubbio. Altrimenti dove potevo prendere un nome geografico del tutto nuovo per me?”
“Sì, avete senz'altro ragione: ho sbagliato io”.
Dostoevskij detta, Anna Grigor'evna scrive. Dostoevskij detta camminando nervosamente nella stanza; portando spesso le dita alle labbra – ora per fumare, ora come a tenere fermo una parola –; entrando in argomento e dimenticandosi poi dell'argomento, cambiando senza preavviso la condizione sociale di un personaggio, facendo confusione sugli avvenimenti e le circostanze. Il suo è un modo di comporre a voce dettato dalla fretta e che somiglia a quello di certi registi che scrivono la drammaturgia calcando direttamente il palcoscenico, avendo a lato – cioè allo scrittoio – l'aiutante. “Entrai nello studio e, salutato Fëdor Michajolovič, presi il mio posto al tavolino addossato al muro”; “Dostoevskij cominciò a dettare ma vedendo che gli riusciva difficile rientrare nel tema si fermava spesso e mi pregava di rileggere”; “qualche volta componeva così tanto che dovevo rimanere fino a mezzanotte per poter trascrivere tutto” e “cominciò a dettare molto in fretta”, “mi fece notare severamente che avevo tralasciato un punto”, “io qui non ci capisco nulla”.
Si tratta di una condizione che Anna Grigor'evna – diventata poi moglie dello scrittore – vivrà anche in seguito, come testimonia il suo diario: “I critici gli rimproveravano spesso la forma negletta, il fatto che nello stesso romanzo si trovavano inseriti diversi soggetti, la confusione di avvenimenti non sempre conclusi. Questi critici non sapevano certo come fossero scritti i romanzi di Dostoevskij...” mentre in un altro punto aggiunge: “A nessuno veniva mai in mente di domandarsi in quali condizioni e circostanze vivessero e componessero gli altri scrittori e in quale situazione precaria si trovasse invece mio marito: quasi tutti (Tolstoj, etc.) erano uomini sani e senza l'assillo del bisogno ed avevano la possibilità di meditare e di curare le loro opere mentre F.M. aveva il peso dei debiti e viveva una continua incertezza del domani”.
Vale – fatta l'eccezione di Povera gente – per ogni scritto dostoevskijano: vale ancora di più per Il giocatore, che compone col solo scopo di liberarsi – è noto – da un contratto-capestro che firma con l'editore Stellovskij, contratto in base al quale avrebbe rischiato la perdita dei diritti su ogni opera che aveva pubblicato in precedenza.


Dunque

Sul palco del Bellini stazionano negli angoli anteriori due scrivanie di legno scuro (sappiamo che le scrivanie nello studio di Dostoevskij erano due); su di esse – nel corso dello spettacolo – vengono appoggiate altrettante clessidre (che fanno coincidere il tempo del chi è di scena col conto alla rovescia per la consegna del romanzo); i due avamposti sono illuminati da una luce calda, casalinga, mentre la parte retrostante del palco viene abbagliata da luci fredde, intense: distinzione tra il luogo della composizione e quello dell'evocazione. Daniele Russo passa dallo scrittore al personaggio realizzato dallo scrittore modificando la voce (il suo Dostoevskij ha il tono rauco del fumatore); Camilla Semino Favro interpreta Polina e la Grigor'evna mutando invece – più che la tonalità – alcuni micro-atteggiamenti e la posa del corpo, che le diventa più addolcita, disponibile. Sentiamo “avete scritto anche questo?” o “toglietelo, ma non buttatelo via: lo useremo più avanti” e – ancora – “devo consegnare questo romanzo entro il primo di novembre”, “non ho idea di che parlerà, né di che genere sarà” e “punto”, “virgola”, “tutto sottolineato, altrimenti non si comprende” mentre – per far terminare il primo tempo dello spettacolo, che corrisponde alla fine dell'ottavo capitolo – Daniele Russo/Dostoevskij detta le ultime righe (“salii sul ripiano e… mi sentii cadere le braccia dallo stupore...”), si ferma per aggiungere poi: “È un vecchio trucco da scrittore, signorina: si crea una certa attesa e… buio”. Cioè intervallo.
Ancora: battute dette dai personaggi all'interno della storia e nel suo accadere vengono sibilate in contemporanea da Russo/Dostoevskij o da Semino Favro/Grigor'evna in proscenio (“certi giorni...”; “quell'inglese mi vuole bene”; la lettera con cui Polina chiede ad Aleksej di “essere ubbidiente”); altre volte battute tra di loro anticipano o determinano il proseguo delle vicende inscenate mentre le ultime righe del romanzo (“domani, domani finirà”) sono lette dalla Grigor'evna – cartellina in mano con dentro i fogli destinati a Stellovskj – prima che avvenga un ulteriore dialogo tra lo scrittore e la stenografa:
“Abbiamo finito”
“Abbiamo finito il romanzo”
“Sapete Anna Grigor'evna cosa penso? Che ci siamo abituati l'uno all'altro e...”
Si tratta di un brano tratto dal diario della donna (pubblicato da Bompiani col titolo Dostoevskij mio marito) giacché è proprio sulla base di questo diario, e del capitolo Primo incontro con Dostoevskij, che viene ricostruita e inscenata la relazione lavorativa e personale tra i due.
Insomma: Gabriele Russo non mette in palco Il giocatore ma la sua scrittura e – mettendone in palco la scrittura – del romanzo lascia avvampare solo alcuni squarci, qualche pagina, certi momenti topici. D'altronde, lo sappiamo, non c'è ferrea unità cronologica ne Il giocatore, i dialoghi si alternano a lunghi a-parte e flussi di pensiero e, più di una volta (e non senza qualche incongruenza compositiva) il protagonista – Aleksej Ivanovič –  assume la funzione del narratore o del cronista postumo di fatti che sono già accaduti: “Sono passati ormai venti mesi da quando ho dato uno sguardo a questi appunti”; “mi sento di nuovo attirato dalla penna”; “non è il caso di diffondersi sull'argomento: potrebbe rappresentare un episodio a parte” e “il nostro colloquio avvenne parola per parola come l'ho descritto qui”.
Manca ne Il giocatore di Dostoevskij continuità narrativa, manca la rigidità realista della verisimiglianza spazio/temporale mentre l'hic et nunc degli eventi accade per frammenti, è sussultante, succede per abbagli. Per questo in scena lacerti dell'opera possono prendere forma momentanea in uno spazio centrale che funziona – più che da scorcio di Roulettemburg – da carcassa cranica, da palcoscenico mentale (“talora mi balena un pensiero” d'altronde leggo nel romanzo; “vivo sotto l'influsso di immediati ricordi” leggo ancora).
Questa mi sembra l'idea di partenza dell'allestimento; da questa idea derivano immagini, dinamiche, scelte drammaturgiche.


Esempi

Deciso che l'obiettivo non è la trasposizione complessiva del libro ma la sua trasfigurazione episodica – questo o quel capitolo, questo o quel dialogo, questo o quel momento che derivano dal progressivo processo creativo posto in essere dello scrittore – Gabriele Russo, sulla base dell'adattamento firmato da Vitaliano Trevisan, agisce per (re)visioni simboliche, cercando di concentrare quanto più senso possibile (quanto più romanzo, mi viene da scrivere) nella singola immagine. Un paio di esempi che mi sembrano particolarmente riusciti.
Primo.
La sedia a rotelle su cui tanto Aleksej Ivanovič quanto la vecchia “baboulinka” Antonida Vasil'evna Tarasevičeva sostano quando sono al casinò e che definisce lo stato corporeo e psicologico che contraddistingue i due personaggi – gli unici che si dedicano davvero alla roulette: inchiodati al loro posto come paralitici (seduti e non spostabili; sguardo in avanti, mai voltata la testa a destra o a sinistra) e resi “ammalati”, “febbricitanti” e “infermi” dalla loro fissazione “morbosa” per il gioco.
Secondo.
Il binario che cala dall'alto così dicendoci che la vecchia è arrivata. Perché Gabriele Russo fa questa scelta? Su Controscena Fiore scrive di resa della “situazione di transito in cui annaspano quei personaggi” mentre a me sembra che sia dovuta alle pagine scritte da Dostoevskij: la vecchia infatti “appare” – questo è il verbo impiegato – “al posto del telegramma” e, sulla famiglia (che ne desidera la morte per ragioni economiche), “cade come una tegola sul capo”, mostrandosi “dal piano superiore della scalinata”: ecco che il binario, posto in verticale, rappresenta tanto il tragitto del treno (che è mezzo sul quale si sale e dal quale si scende) quanto la verticalità della scalinata alberghiera da cui la nonna si manifesta come un fenomeno inatteso, un contro-miracolo celeste (la luce azzurra che s'intravede al vertice del binario).
E ancora.
La ruota della sedia impiegata come piatto della roulette, a cui dare colpi automatici, come di chi è in tranche; le due pareti che costituiscono la scenografia, (la carta è strappata, gli stucchi sono impolverati e gli ori sbiaditi) il cui aspetto cattivo mostra la natura “laida, moralmente abietta e sudicia” dell'ambiente in cui avviene il romanzo ma che serve anche a collocare ciò che vedremo al passato, nel tempo di un ricordo lontano che si fa letteratura scritta al presente; il fermo-immagine attorale con cui si rendono “le ore fisse” e “la forma di contegno fissata” dei personaggi; il bordo di luci rosse che s'illumina per alludere all'ambientazione parigina e che coniuga in scena lo Château des Fleurs in cui il protagonista perde tempo imparando il cancan; la rete metallica del letto che poggiata in verticale funge da parete del carcere di Roulettenburg (mentre il materasso ne appare come la brandina a muro); il cumulo di mobili composto sul fondo alla fine dello spettacolo che mi rimanda alla dissipazione e al fallimento finanziario della famiglia, all'insieme delle memorie cui il personaggio di Aleksej “ha rinunciato”, all'ammasso (oggettivo) degli arredi buoni per le descrizioni libresche che – ormai, finite nella pagina – non servono più. E perché la vincita di Aleksej fa piovere dall'alto non banconote ma foglietti e pagine bianche? Mi sbaglierò ma penso che Gabriele Russo faccia così coincidere la scommessa vinta dal personaggio (il denaro ottenuto alla roulette) con quella vinta dallo scrittore (la scrittura de Il giocatore ed il riscatto dei romanzi precedenti).
A questo lavoro va aggiunto quello sulle dinamiche attorali, individuali o di gruppo. I personaggi che girano in tondo, in posizione centrale, così imitando la roulette; M.lle Blanche che siede a cavalcioni sulla schiena di Aleksej, a sua volta disteso sul letto,  traducendo teatralmente in questo modo due passaggi del romanzo: il “me ne stavo quasi sempre disteso sul divano” di lui e la passione per i cavalli di lei; la nonna quasi in proscenio a giocare mentre il resto delle figure fa da coro retro-gesticolante: perché sappiamo, leggendo l'opera di Dostoevskij, che “tutti decisero di accompagnarla” ma che “non è permesso rimanere al tavolo come semplici spettatori”, perciò si “forma grande affluenza di pubblico” e – proprio di questo pubblico – fanno parte “il generale, De Grieux e M.lle Blanche standosene da parte”.
Questo ed altro viene messo in scena dalla fantasia di Dostoevskij, dalla sua urgenza compositiva, dalle sue necessità di concludere l'opera e infatti, di tanto in tanto, allo scrittoio si ritorna:
“Da questo momento tutto girerà...” dice lui
“… come una roulette” conclude lei
“Voi mi spaventate Anna Grigor'evna”
“È la prima volta che vi ricordate il mio nome...”
Così, dalle pagine agite de Il giocatore, torniamo alle pagine di Dostoevkij mio marito, in cui del romanzo viene descritta la composizione: “Domandava come mi chiamavo ma subito lo dimenticava”.


Forzature e attualizzazioni

Nel tentativo di tenere assieme il doppio piano drammaturgico (scrittura e rappresentazione del romanzo) la coincidenza tra Dostoevskij e Aleksej Ivanovič viene immediata: non occorre dilungarsi sulla natura (anche) autobiografica de Il giocatore e su quanto Dostoesvkij conoscesse bene il vizio “avido di lacrime e sangue” della roulette: male del quale guarì non con quest'opera (1863) ma soltanto il 28 aprile del 1871 quando – dopo aver dissipato le proprie risorse ai tavoli di mezza Europa, impegnato i risparmi familiari, i vestiti che aveva addosso, il corredo e i gioielli della moglie – da Wiesbaden scrisse una lettera alla Grigor'evna annunciandole “ora è tutto finito! Questa è stata l'ultima volta! Credi, Anna, che adesso mi sento libero. Penserò ai miei affari e non sognerò più il gioco per intere notti”.
Per quanto scriva “partecipavamo ambedue alla vita dei protagonisti” meno lineare è invece l'identificazione della stessa Grigor'evna con Polina giacché il personaggio del libro è ispirato da Apollinarija Prokof'evna Suslova, cioè dalla donna che lo scrittore aveva conosciuto nel 1861 e che, per usare le parole di Giovanna Splendel, “in lui aveva provocato un'autentica tempesta di passioni seconda solo alla schiavitù provata per il gioco d'azzardo”. Insomma: la persona che Dostoevskij amò prima d'imbattersi nella Grigor'evna. Paradosso: la Grigor'evna disprezza Polina, come leggiamo nel suo diario. Tuttavia si comprende la funzionalità della scelta, che nello spettacolo è valorizzata da una intensa partitura di gesti e di sguardi (esempio: Daniele Russo/Dostoevskij trascrive la frase della vecchia – “Quel francesuccio non ti porterà fortuna” – e, nel farlo, ferma la mano e fissa Camilla Semino Favro, che al momento è Polina intenta al dialogo con l'anziana).
Meno comprensibili mi sembrano altri aspetti dello spettacolo che fanno riferimento soprattutto al tentativo di modernizzare contenuti e linguaggio del libro o che sfruttano consuetudini teatrali ormai di routine: dalle parole “hamburger” o “pisciare”, che risuonano all'improvviso, all'uscita di De Grieux attraverso il corridoio centrale della platea; dall'offesa alla “grassona”, che Daniele Russo interpreta stando in proscenio osservando il pubblico, allo stesso De Grieux che la scrivania di casa-Dostoevskij la usa per redigere la lettera destinata a Polina. Citazione fine a se stessa, cioè priva di urgenze che la giustifichino, mi sembra quella shakespeariana (il “mostro dagli occhi verdi”, Otello) che pare dovuta, più che al “ero forse tormentato dalla gelosia?” del romanzo, a un passo di Dostoevskij mio marito (il capitolo Il mio scherzo, in cui la Grigor'evna narra come provocò l'ira del marito: “Chi poteva immaginare che tu fossi un vero Otello?”) mentre noto che la sabbia della seconda clessidra – che regola il tempo di scena e di composizione – finisce di scorrere prima che il romanzo (e il suo spettacolo) sia davvero terminato.
Inoltre.
Che senso hanno i calcoli da cambiavalute aggiornati all'euro? Vero che la pratica del ricalcolo è nell'opera, vero anche che il conteggio è pratica costante di Daniele Russo/Dostoevskij, ossessionato dalla quantità di scrittura che deve necessariamente produrre (“so soltanto che il romanzo deve comporsi di 7 fogli dell'edizione Stellovskj, che sono 171 pagine, che sono 147 cartelle standard. Ma voi sapete di quanti caratteri si compone una cartella standard?”, “2000 caratteri, spazi inclusi”, “Che fa...”, “294.000 caratteri, spazi inclusi”) ma perché tirare in ballo l'euro? Per denunciare il dominio della forma mentis capitalistica, di cui Dostoevskij fu primo cantore? Per rimandare all'azzardo di un'economia diventata finanza? Per dirci che la ludopatia dostoevskijana riguarda l'oggi e tutti noi? Per alludere alla scommessa legalizzata dallo Stato? Non occorre aggiornarsi alla moneta corrente, giacché Dostoevskij riesce a parlarci dal suo 1863 come sottolineano le note di regia dello stesso Gabriele Russo: “Erano diversi anni che avevo voglia di affrontare in teatro il tema del gioco d'azzardo e, dopo aver letto molti testi contemporanei, più andavo avanti nelle ricerche più mi convincevo che nulla era più adatto de Il giocatore”. Dostoevskij, in quanto Dostoevskij, è più contemporaneo dello scrittore che domani terminerà il suo testo.
Infine: confesso di non aver compreso ancora perché il croupier – ad un punto – inizi a parlare anche in siciliano. Non ho scovato relazioni col romanzo e la sua composizione, con Dostoevskij e la sua biografia, con i diari della Grigor'evna.
Una scommessa (critica) che ho perduto.


Infine. La polifonia e l'Idea

Dostoevskij (portato in teatro) è un po' come Shakespeare: le sue opere rendono inadeguato ogni adattamento e, al tempo stesso, troviamo sempre e comunque una o più  ragioni per apprezzare lo spettacolo che ne deriva: qualsiasi sia – a meno di catastrofi – l'impostazione adottata. D'altronde è proprio a Shakespeare che Lunačarskij paragona lo scrittore russo quando discute della polifonia delle sue opere mentre Kaus usa una bellissima immagine per dire quanto la sua grandezza si adatti ad ogni tentativo comprendendolo, motivandolo, adottandolo: “Dostoevskij è un padrone di casa che ammette ogni sorta di ospiti ed è in grado di intrattenere nello stesso tempo la più svariata delle compagnie”. Così – in un suo romanzo – troveranno motivi il realista ed il filosofo, l'onirico cantore della notte e il polemista politico, l'ateo ed il mistico, il vecchio ideologo e l'aspirante bohémien e – teatralmente parlando – coloro che vogliono inabissarsi nelle profondità dell'anima d'un personaggio e chi invece desidera farne racconto scenico complessivo. Convivono così – per fare degli altissimi esempi relativi a I demoni – l'esperienza/viaggio di Salomon e le nove ore trascorse in platea per la regia di Peter Stein; così convivono Il giocatore di Fokin, che tentò (lui non riuscendovi) di inscenare sul palco del San Carlo Roulettemburg, e il tentativo di Gabriele Russo, che evita lo scorcio verista e la ripresentazione teatralizzata del libro puntando sulla sua genesi, moltiplicando al quadrato i temi dell'ossessione, del rischio, della scommessa (che sono tanto dello scrittore quanto del protagonista del suo romanzo). Come per ogni Shakespeare – non ne esiste una rappresentazione in grado di rendere tutti i significati di una qualsiasi delle sue drammaturgie – anche per Dostoevskij l'impressione è che, sempre, qualcosa ci si guadagni e qualcosa invece vada perduto. Lo spettacolo visto al Bellini fugge da derive pseudo-psicoanalitiche (come sarebbe possibile, d'altro canto, quando abbiamo attori che interpretano più ruoli?) e da certo demonismo di maniera e ha il merito inoltre di offrire a un pubblico eterogeneo chiavi d'accesso all'opera e allo scrittore. Cosa, pensando adesso alla partitura letteraria, manca e cosa invece ne risulta evidente?
Manca ne Il giocatore visto al Bellini una delle caratteristiche fondanti della scrittura di Dostoevskij: la polifonia ovvero, per dirla con Bachtin, la “compresenza di una pluralità di voci e coscienze indipendenti e disgiunte” per cui ogni personaggio “non è oggetto della parola dell'autore ma è invece soggetto della propria parola” diventando/agendo così come un “punto di vista sul mondo e su se stesso” del tutto autonomo dagli altri: scrittore compreso. Manca questa polifonia dal momento che noi assistiamo alla genesi del romanzo, alla dipendenza della pagina (e dei suoi contenuti) dal suo autore: le creature vengono dalla sua mente, alla sua mente ancora appartengono, liberandosene soltanto quando il libro sarà compiuto e pubblicato. È questo che talora mi dà l'impressione di un dominio di Aleksej Ivanovič rispetto agli altri personaggi (Polina esclusa) mentre invece sono la dignità d'ogni figura e di ogni voce, “pienamente valide tutte”, la loro reciproca indipendenza, la loro coesistenza e interazione paritaria un principio inderogabile della scrittura di Dostoevskij.
Cosa invece viene reso con forza dallo spettacolo? Engel'gardt scrive che il “materiale dei suoi romanzi è l'Idea”, Bachtin aggiunge che l'Idea si fa carne cosicché la (auto)coscienza trova il suo corrispettivo nel corpo dell'individuo: da “materia di raffigurazione artistica” l'Idea si fa carne permettendoci la conoscenza “dell'uomo nell'uomo”. Ebbene: nel Daniele Russo/Aleksej che trema stando sulla sedia a rotelle – prima scena dello spettacolo – c'è l'Idea della possessione che appartiene al corpo attorale (la mano destra che batte sulla ruota destra) tanto quanto, questa stessa Idea, s'afferma con la “baboulinka” di Paola Sambo (“la roulette le si era fissata nella testa” per riprendere un'espressione del libro) e trova inoltre forma scenografica nei numeri che restano accesi anche dopo che la giocata è finita, che il casinò è stato abbandonato, che la vita consueta sembra essere ricominciata: un sogno, un incubo; un'esaltazione e una punizione sadomasochistica; un'autointossicazione, un pensiero che non passa.
“Sì, talvolta l'idea più assurda, l'idea apparentemente più inattuabile ti si fissa nella mente con tale intensità che tu finisci per ritenerla qualcosa che si possa tradurre in realtà” (Il giocatore).
“Mi era profondamente penoso vedere come soffriva F.M. a causa del gioco. Tornava a casa pallido, sfinito, reggendosi appena in piedi, mi chiedeva subito altri soldi e tornava a giocare; rientrava dopo mezz'ora, ancora più stanco e abbattuto e così via, fino a quando non aveva perduto tutto ciò che possedevamo. Allora, preso dall'impossibilità di giocare, cadeva in preda alla disperazione, cominciava a piangere, si metteva in ginocchio, mi pregava di perdonarlo, prima di tornare a chiedere soldi che non avevo” (Dostoevskij mio marito).
“Io sto ai tuoi piedi e te li bacio” (Dostoevskij; Lettere).
Frase dedicata forse a Dio, forse alla moglie; forse alla letteratura, forse a una pallina bianca che gira sul piatto di una roulette.

 

Leggi anche:
Alessandro Toppi, Il gioco di Dostoevskij (Il Pickwick, 28 maggio 2014)
Alessandro Toppi, Il giocatore (perdente) di Valery Fokin (Il Pickwick, 20 novembre 2015)

 

Su Il giocatore:
Enrico Fiore, È in scena il Dosto. Mentre sta scrivendo Il giocatore (Controscena, 15 marzo 2017)
Anna Cesaro, Note a margine de Il giocatore di Gabriele Russo (L'armadillo furioso, 14 marzo 2017)

 

 

 

Il giocatore
da
Fëdor Dostoevskij
adattamento Vitaliano Trevisan
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo, Marcello Romolo, Camilla Semino Favro, Paola Sambo, Alfredo Angelici, Martina Galletta, Alessio Piazza, Sebastiano Gavasso
scene Roberto Crea
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
movimenti scenici Eugenio Dura
organizzazione generale Roberta Russo
aiuto regia Eugenio Dura
foto di scena Francesco Sgueglia
coproduzione
Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini, Teatro Stabile di Catania
lingua italiano, francese, inglese
durata 2h
Napoli, Teatro Bellini, 19 marzo 2017
in scena dal 14 al 26 marzo 2017

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