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Wednesday, 25 January 2017 00:00

Cultura, lingua, identità: intervista a Gaspare Balsamo

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Interprete ed epigono di una tradizione, vissuta, filtrata e rielaborata come atto resistenziale etico e politico, Gaspare Balsamo coniuga al tempo presente lo strumento del cunto, facendone atto creativo che fonde e bilancia etica ed estetica. Con donchisciottesca baldanza (e proprio a Don Chisciotte era ispirato lo spettacolo a cui assistemmo all’ex Asilo Filangieri lo scorso maggio), Balsamo si fa paladino di una sicilianità – e di una meridionalità – che troppo spesso sconta un’omissione proterva.
Ci racconta qui di sé e della sua poetica, parlandoci di lingua identitaria, corpo proprietario, di tradizione e contemporaneità.

 

Innanzitutto un po’ di storia: chi è Gaspare Balsamo? Quando e come ti sei avvicinato al teatro? Qual è la tua formazione e quali i tuoi riferimenti culturali? E soprattutto: perché fai teatro?
Mi piacerebbe che i lettori di questa intervista sappiano innanzitutto che mi imbarazza molto parlare di me stesso, soprattutto non essendo io né un personaggio pubblico, né un teatrante  così famoso. Forse faccio dunque teatro perché sono una persona in fondo timida e introversa? È possibile. Probabilmente questa ragione intima è quella primaria, quella della scintilla, ma oggi poco importa, dal momento che mi occupo di teatro da molti anni. E quindi il motivo per cui oggi continuo a essere un teatrante è perché a quarantuno anni è difficile tornare indietro, smettere e ricominciare da un’altra parte. Sarebbe anche bello, sarebbe una nuova esperienza, ma ci vuole troppo coraggio, bisognerebbe rimettere in gioco troppe cose, e disattenderei me stesso e poche altre persone care. In effetti, poi, con i tempi di crisi economica e culturale che corrono, più che farlo il teatro, lo penso, nel senso che sono molti di più i progetti che penso e studio nella mia mente che quello che poi concretamente realizzo. Ma questa credo che sia ormai una condizione e una prassi comune a molti attori-autori a me coetanei.
 Il periodo universitario è stato quello in cui ho cominciato a studiare teatro, poi è arrivata la scuola, i laboratori e i seminari in giro, e poi  ancora quella che è diventata la mia specializzazione, cioè quella del cunto, della drammaturgia siciliana e dell’attore autore. I riferimenti sono continui, ma più si cresce e più è difficile trovarne. Siamo sempre in cerca di qualcosa, qualcuno che ci indichi percorsi diversi, motivazioni nuove, opere e riflessioni originali, e dunque per me i riferimenti sono volti al presente, ma non smetto mai di cercarne remoti, cioè autori, pensatori, vissuti lontani nel tempo, mai conosciuti se non attraverso le loro opere.

Tu sei uno degli epigoni di due tradizioni quali quella del cunto e quella dei pupi. Qual è il tuo approccio alla tradizione e come cerchi di coniugarla al tempo presente? E che valore attribuisci all’oralità nella trasmissione di questa tradizione?
L’incontro con il maestro Mimmo Cuticchio mi ha dato la possibilità di conoscere l’Opera dei pupi che è un teatro che amo e che considero alla base della mia formazione, ma non sono assolutamente un puparo, non ho il mestiere non essendo io figlio d’arte, e non mi ritengo assolutamente un epigono di questa tradizione teatrale. Mi ci riconosco e applico alcune tecniche tipiche della recitazione dei pupari, ma è un “mestiere” che nella sua pratica completa, esatta e tradizionale, non posso esercitare. Sul cunto il discorso è più complesso e particolare perché sulle tecniche di narrazione epico cavalleresche e sulle pratiche affabulatorie orali ho incentrato parte della mia matrice teatrale. La ricerca sul cunto da me condotta costituisce la rielaborazione di un modello tradizionale. Il punto è stabilire in cosa consiste la tradizione performativa e soprattutto se si può parlare di continuità di sviluppo nelle evoluzioni delle cose. Oggi la filiazione diretta tra il cunto di una volta e la realtà attuale non esiste più. Già da moltissimo tempo la trasmissione diretta dei saperi del mestiere si è interrotta. È dunque più corretto parlare di relazioni intrecciate dalle pratiche che ciascun nuovo cuntastorie adotta e modifica. Ma io credo che l’affermazione personale e fantastica di ogni narratore-performer-autore sia sempre esistita. Nella tradizione orale dei racconti popolari, i racconti e le leggende hanno sempre ricevuto qualcosa dalla fantasia e dalla tecnica di ciascun narratore e questo qualcosa è, in fondo, il loro farsi. Per me questo aspetto è molto importante perché vuol dire considerare la letteratura orale e popolare attraverso non solo un metodo filologico ma anche estetico. “Tuttu sta comu unu cunta” recita un proverbio siciliano.

Sicilianità e indipendenza, due concetti che permeano il tuo teatro. Quale ne è il sostrato etico e politico?
Penso proprio che il discorso fatto prima abbia un sostrato etico e politico. Sentire il problema della letteratura popolare, della drammaturgia siciliana, dei canti e dei cunti come un problema essenzialmente estetico credo che sia un fatto etico e politico. Il più grande studioso del folklore siciliano, Giuseppe Pitrè, diceva: “Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano per capire e sentire le squisitezze delle fiabe che sono riuscito a cogliere di bocca in bocca”. “Della mimica è da tenerne molto conto, e si può essere certi che a farne senza, la narrazione perde metà della sua efficacia e forza”.

Il teatro siciliano: quello più recente, da Franco Scaldati ad Emma Dante per poi arrivare a Tino Caspanello, alla nuova generazione dei Pirrotta, Provinzano, Massa, Rosario Palazzolo, Aldo Rapé ed ancora compagnie affermate come Carullo/Minasi o in rampa di lancio come Vuccirìa Teatro (tanto per fare un po’ di nomi). Con alcuni di loro hai collaborato. Ma al di là della comune appartenenza geografica, c’è un sentimento che avverti come comune? C’è una permeabilità, un’osmosi – effettiva o possibile – tra le varie poetiche?
Come non potrebbe essere? Siamo tutti figli di una stessa terra. Apparteniamo tutti alla stessa matrice culturale. C’è chi ne è più consapevole, chi meno, chi subisce soggiogazioni e colonizzazioni culturali maggiori rispetto ad altri, e non potrebbe essere altrimenti perché ognuno usa i propri strumenti critici per capire quanto possiamo essere padroni dei nostri destini culturali, ma ognuno dentro se stesso sente profondamente questo attaccamento. È solo questione di visoni chiare o destrutturate. Poi ognuno possiede dei contenuti e delle forme diverse per formazione, incontri e scelte. Ma la lingua identitaria e il corpo proprietario parlano, comunicano e esprimono matrice culturale comune.
 
Che tipo di rapporto stabilisci col pubblico? E con la critica?
Sarebbe bellissimo stabilire rapporti, ma le occasioni sono così poche che non è facile. La società è sempre più stanca, la gente ha altri pensieri, altre cose, figuriamoci se c’è il tempo per intrecciare e costruire rapporti concreti con il pubblico. Capita a volte qualche feedback con qualche spettatore che è rimasto particolarmente impressionato dallo spettacolo, e questo è ovvio che faccia piacere e può essere anche molto utile se colgo l’occasione e sfrutto le riflessioni che sono scaturite durante il confronto.
 La stessa cosa accade, naturalmente, anche con qualche critico più vicino che mi segue e sostiene, ma ripeto che le occasioni sono poche e difficili. Inoltre credo che questa sia una cosa che accade quando si ha la possibilità di lavorare all’interno di un sistema molto grande, dentro un’organizzazione e distribuzione che ti permette di confrontarti quasi giornalmente con più persone, e non è il mio caso.  Vediamo, aspettiamo tempi migliori.  

Come costruisci i tuoi lavori? Hai un metodo standard o ci sono delle variabili specifiche che cambiano di spettacolo in spettacolo?
Ci sono delle cose che ritornano sempre, altre che si rinnovano di volta in volta. Ogni lavoro è sempre preceduto da un lungo lavoro di studio letterario, storico, video, sonoro. Poi avviene una scrittura, un canovaccio per lo più, e poi la creazione in scena che è quella più faticosa perché richiede uno sforzo fisico e mentale allo stesso tempo. Una volta mi piaceva tanto provare, non vedevo l’ora di entrare in prova, ora ogni volta che devo cominciare le prove, m’accumincia na lagnusia, mi siddia di moriri ( mi annoio). Sarà che non ho più trent’anni e le energie cambiano. Ma ancora mi difendo bene, la mattina mi alzo alle 5:30, faccio un’ora di corsa e poi quando torno a casa incomincio la giornata carico. “‘A matinata fa ‘a jurnata”.

A fine mese parteciperai al progetto Festibál, il 28 all’Asilo Filangieri ed il 29 con il tuo spettacolo Trinacria sulla luna a Galleria Toledo. Qual è lo spirito di questa iniziativa?
Festibál è una rassegna, creata e curata da Luca Sessa, economista e organizzatore di eventi culturali, bellissima e unica nel suo genere, nel suo scopo, nelle riflessioni e energie che innesca e fa esplodere. L’idea è quella di una rassegna di incontri, scintille, musiche, balli comunitari Sud a Napoli. Lo spirito è quello di rintrecciare e ritessere attraverso queste espressioni e esperienze i legami culturali del Mediterraneo basso. Luca Sessa è un pioniere di questa pensiero originale. Da anni porta avanti un modo nuovo e originale di fare cultura sud- italiana e mediterranea, lontana da revival, nostalgie e revisionismi, ma tutto incentrato sulla bellezza e sulla cultura fiorita delle comunità che vengono ospitate una volta al mese. Seminari di ballo, di strumenti musicali, incontri culturali e enogastronomici con chi da quella cultura proviene, e la sera concerto festabballo.
Nell’appuntamento di questo mese dedicato alla Sicilia, oltre agli incontri musicali con le comunità delle Madonie, ci saremo noi con il teatro e presenteremo lo spettacolo Trinacria sulla Luna – Pitrè senza gravità. Lo spettacolo, che tratta alcune parti della vita e delle opere del folklorista siciliano Giuseppe Pitrè, entra benissimo dentro il clima della rassegna con la leggerezza del divertimento, recitando, cuntando, suonando e ballando la propria cultura al mondo.

Trinacria sulla luna è appunto ispirato alla vita e all’opera di Giuseppe Pitrè, medico ed etnologo siciliano: come ti sei avvicinato a questa figura e come ti sei approcciato per renderla “teatrabile”?
Chi si occupa di cultura siciliana non può non avvicinarsi alla figura di Giuseppe Pitrè. E la stessa sorte è capitata a me. Chiaramente con un’attenzione maggiore a quello che riguarda la parte che ha a che fare con le raccolte sui racconti, le fiabe, le leggende e tutto il patrimonio che riguarda la letteratura popolare in genere. Nel 2016 ricorreva il centenario della morte e sollecitato da Luca Recupero musicista e direttore di MOMU che, assieme al poeta Biagio Guerrera dell’AME (Associazione Musicale Etnea), ha prodotto lo spettacolo, ho lavorato al progetto creando una drammaturgia teatrale e musicale che prende spunto dai materiali sui canti e sui cunti raccolti dal Pitrè. Assieme a noi altri due grandi musicisti siciliani, Giancarlo Parisi e Puccio Castrogiovanni, con cui abbiamo formato l’Esercito della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane che scende sul campo di battaglia tutte le volte che lo spettacolo va in scena.   

Infine, passando dal breve al lungo termine, c’è qualche progetto futuribile che hai in mente o a cui ti piacerebbe prima o poi dedicarti?
Come dicevo prima, il teatro mi capita di pensarlo molto di più che farlo. Quindi progetti nella mente ce ne sono tanti, ma fin quando sono solo pensati meglio lasciarli ancora sedimentare in testa. Posso dire che gli appuntamenti più imminenti sono una ripresa di un mio spettacolo, Muciara, in una rassegna del 17 Febbraio a Paternò (CT), dentro il teatro della Casa dei Cantastorie. A fine febbraio andrò a Berlino dove parteciperò alla registrazione, per la Deutschlandradio Kultur, di un programma sull’Horcynus orca di Stefano D’Arrigo.
E il 3 marzo ritorno a Napoli con Muciara, in una rassegna teatrale all’ex Asilo Filangieri.

 

 

N.B.: le foto a corredo sono di Nadia Arancio, Mariatolmina Ciriello, Michele Leonardi, Renè Purpura.

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