“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 04 December 2016 00:00

Un disagio teatrale

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In Ci scusiamo per il disagio Gli Omini mettono in scena non (solo) un'umanità borderline da Stazione: mettono in scena (anche e soprattutto) il processo antropologico-teatrale che è alla base dello spettacolo che stiamo vedendo. Per questo l'immagine dei tre interpreti, seduti sulla panchina, dopo aver segnato l'inizio torna contraddistinguendo il finale fungendo da cornice – o, se preferite, da parentesi – e serve ad avvolgere tutto quel che c'è stato nel frattempo: la resa della pulviscolare collettività che, per un mese, questi stessi attori hanno incontrato e osservato, conosciuto e intervistato per raccogliere il materiale utile al loro progetto.

Si tratta, dunque, di mettere in scena se stessi in relazione con gli altri (perciò una drammaturgia di frammenti dialogici) e si tratta di rendere – adesso, in giro per l'Italia – quell'esperienza, non sovrapponendovi una traduzione scenica finalizzata ad alluderla ma generando un riporto che sia, per quanto possibile, fedele a ciò che è accaduto in quel mese.
Sia chiaro: Gli Omini hanno incontrato centinaia di persone e hanno accumulato un numero di registrazioni tale da non poter essere reso interamente in palcoscenico: da qui il lavoro di selezione e montaggio, i tagli, la scelta di quello che funzionava di più ma siamo comunque al cospetto di una tranche de vie umana – non banalmente scenografica – che è veritiera nelle parole e nei tipi, cioè nella tessitura delle dichiarazioni ottenute e nell'evocazione degli uomini e delle donne effettivamente incontrate. Così il mese trascorso sulle banchine della Stazione di Pistoia diventa un'ora di messinscena in cui una moltitudine veste e sveste di continuo i corpi di questi tre attori, dando vita a un turbinio di gag, brevi conversazioni, monologhi comico-amari, confessioni dolorose, battute nonsense. Ne viene un quadro d'insieme fatto di “quadretti” – è il termine con cui Gli Omini stessi definiscono le singole porzioni dello spettacolo; ne viene la rappresentazione complessiva di una condizione sovente censurata, marginale, alla quale ora si dà rappresentanza e, dunque, dignità. Si tratta di non nascondere bensì di portare in proscenio una realtà che viene spesso rimossa e che è fatta di esseri umani che scelgono questo non-luogo (una stazione) e questo non-tempo (l'attesa del niente, celato sotto l'attesa apparente di un treno che non s'attende davvero) per sottrarsi al e proteggersi dal normale fluire della vita: col suo carico di delusioni e sconfitte, cadute e disgrazie, mancanze e ferite.
Marchettari e ubriaconi, senzatetto ed ex galeotti, padri che hanno perso la patria potestà ed uomini rimasti senza automobile, disoccupati, donne che parlano come i libri che leggono (facendo delle storie dei libri la loro storia) e perditempo, omosessuali che relegano la loro omosessualità tra le pareti di un bagno pubblico, carcerati in libertà vigilata, persone che non sanno dove andare, cosa fare e con chi parlare avvampano come brevi fiammelle presentandosi e ottenendo diritto di esistenza, prima di completare il loro giro sparendo a mezzo palco o sul fondo, salvo tornare di nuovo, prima che la messinscena sia finita del tutto. “Apparenze” viene da definirle, per la brevità del loro passaggio, e perché sono certamente più d'una evocazione fantasmatica – hanno una cadenza, un gesto tipico, una caratterizzazione mimica che viene accennata e che dona loro una carnalità istantanea – ma anche perché sono meno di un consueto personaggio teatrale: dei personaggi infatti non hanno la consistenza e lo spessore, rispetto ai personaggi non sono portatori di un punto di vista del mondo, a dispetto dei personaggi non appartengono a una trama, recitandovi una funzione specifica. Sono – volendo fare un paragone narrativo – simili ai vagèri di cui scriveva Lorenzo Viani; ai protagonisti della micro-narrativa; alle biografie di uomini non illustri, contenute in una pagina, cui la letteratura italiana e straniera s'è ricordata (o che ha inventato, giocando col verosimile) nel corso del Novecento.
Che l'operazione sia il riporto lo confermano d'altro canto gli stessi Omini, invitati all'Asilo Filangieri per un incontro col pubblico: “Il nostro è stato un blitz antropologico” affermano, “durante il quale abbiamo cercato di conoscere quante più persone possibile: abbiamo incontrato, osservato e ascoltato, abbiamo intervistato e registrato, poi abbiamo trascritto il materiale” che – messo su carta – è stato analizzato perché “vi si trovassero connessioni, elementi ritornanti, denominatori comuni”. Un mese tra i frequentatori della Stazione, compiendo conversazioni: senza domande specifiche, senza l'uso di un questionario fisso, senza predeterminare la tipologia di persone da investigare e conoscere. Un mese “di accumulazione di chiacchiere”, una “indagine libera e orizzontale”, dopo la quale è stata montata la trama che si vede in scena: il continuo venire, dire, passare, andare, tornare, insistere ad esistere di queste figure, delle quali conosciamo un frammento di vita attraverso questa frase detta in questa occasione.
È tanto vera tale aderenza umana che – osservando un video, proiettato durante l'incontro all'Asilo – si sentono, identiche, le parole pronunciate durante lo spettacolo e si riconoscono le diverse tonalità di voci e le differenti inflessioni dialettali ascoltate a teatro: “Stasera si mangia il kebab: si mette qua, al sole, una scaldatina di cinque minuti. Non di più” oppure “tutti i giorni vengo qui; è l'unico punto di ritrovo, poi siccome c'ho degli amici qui, ci si ritrova a parlare, una cosa e un'altra. Parecchi vengano anche nei bagni, ma c'hanno messo le telecamere, son sempre rischi poo boni. Parecchi sono omosessuali, mi scusi tanto, vengan là per vedere se trovano...” e “l'apparecchio per le orecchie non se l'è messo?”; “mio padre mi ha insegnato: non camminare mai con le persone che si drogano”; “dipingo paesaggi, oggi ho dipinto due o tre montagne”; “se va avanti così viene voglia di ammazzarsi”.
È tanto vera, ripeto, tale aderenza umana che Gli Omini – riferendosi alle persone conosciute e interrogate che poi tornano in teatro, invitate o incuriosite – usano i verbi “riconoscere” e “rivedere”: “vengono e si riconoscono, si rivedono” cioè sono proprio loro e ne deriva per questo una partecipazione viva in sala: borbottii, commenti, lamentele o soddisfazione, comprensione che quello sul palco sei tu, incapacità di capire che stanno mettendo in scena la persona che ti vive accanto ogni giorno e “risate compulsive, lacrime, la sorpresa d'aver detto quelle parole, la considerazione d'avere sì pronunciato quelle frasi ma d'averlo fatto in un momento particolare”.
Quella realtà trova così il suo specchio (distorto) nell'agire della scena.

Quanto tutto questo si rappresenta e quanto invece ci rappresenta? La domanda mi sorge adesso, mentre scrivo.
Gli Omini – con riferimento a Ci scusiamo per il disagio (gli altri spettacoli sono nati, infatti, con processi parzialmente diversi) – affermano che “il particolare diventa universale” e che queste persone “finiscono per essere spersonalizzate divenendo simboli di qualcosa di più grande”; a me invece pare accada l'opposto: loro restano loro, offerti a noi che guardiamo. Non si tratta di ridurre il valore del contenuto spettacolare né di limitare la funzione del processo cui gli Omini danno vita, sia chiaro: si tratta di confrontarsi con una pratica artistica che, con Ci scusiamo per il disagio, mi sembra lasci allo spettatore la posizione di spettatore (degli altri) senza che mai abbia la percezione, l'idea, la suggestione che quegli altri siamo (potremmo essere) noi. Rimaniamo insomma voyeur, restiamo ai bordi della visione, siamo spioni a debita distanza: esattamente il ruolo che abbiamo di solito quando, nella Stazione che frequentiamo ogni giorno, passa un tossico o un marchettaro, si forma un crocicchio di ubriachi, vediamo qualcuno parlare con se stesso o scorgiamo qualcun altro che si cala i calzoni per pisciare in un angolo. Non c'è empatia, se non filtrata e salvaguardata dal distacco; non c'è partecipazione se non con la condizione d'insieme, resa ironicamente assurda – in Ci scusiamo per il disagio – dall'altoparlante scenico della Stazione, che agisce con quarto personaggio, progressivamente umanizzandosi, ed al quale è stato affidato il compito d'interagire con gli interpreti volgendo la propria voce verso il pubblico e i cui interventi sono comunque basati sulle dichiarazioni ottenute alla Stazione di Pistoia (i messaggi pre-registrati di Trenitalia ma anche i frammenti delle interviste raccolte).
Si tratta della relazione, pertanto, che stabiliamo col documento (“non c'è l'esercizio del giudizio su ciò che osserviamo e riportiamo” dicono infatti Gli Omini) e un documento, perciò, mi sembra Ci scusiamo per il disagio. Non ha (perché non la cerca, perché non è nel suo interesse) la complessità da teatro dell'assurdo; non ha l'universalità senza misura e senza tempo, splendidamente metateatrale, delle opere di Beckett: coi suoi vecchi derelitti, i suoi vagabondi imprigionati in uno spazio, i suoi falliti costretti (e contemporaneamente in salvo) in questo eterno presente.

C'è un ulteriore aspetto – a questo punto – che m'interessa affrontare ed è la relazione col contesto in cui quest'operazione di riporto, da me definita un “documento”, accade.
La prima di Ci scusiamo per il disagio avviene all'Area Deposito Rotabili Storici di Pistoia ed è lì che replica per dieci giorni: un deposito all'aperto fatto di binari arrugginiti impiantati sull'erba, di vecchie locomotive grigie, nere e marroni, di fumi che salgono scenograficamente al cielo mentre i megafoni pendono dall'esterno di carrozze che – al loro interno – s'illuminano diventando stanza-teatrale, luogo d'apparizioni momentanee: volti emergono dietro i finestrini, tra divanetti di pelle e portabagagli che non portano nessun bagaglio da anni. La sensazione, leggendo le recensioni d'allora, è che Ci scusiamo per il disagio fosse particolarmente suggestivo e che fosse rafforzato, nell'occasione, anche e proprio dal contesto: binari e carrozze, locomotive e cielo aperto, fumi e megafoni come metafora materiale del contenuto umano dello spettacolo: questi treni in abbandono quale corrispettivo delle anime disagiate, anch'esse in abbandono, che Gli Omini hanno conosciuto alla Stazione di Pistoia; così un treno che non va più accoglie figure che non sanno più dove andare: direzioni interrotte, tragitti spezzati, una quotidianità impantanata e che non accenna a passare (la condizione, peraltro, del museo) preservandosi identica, giorno dopo giorno.
Al Teatro Bellini invece annoto: un binario reso da due file di luci laterali, una panchina nel mezzo, un segnale d'avvertimento sul fondo e il megafono in proscenio; inserti musicali, variabilità funzionale dell'illuminazione, utilizzo del corridoio della platea per far comparire una quarta interprete che porta una maschera di piccione, rimando iconico ai molti piccioni che hanno co-abitato la stazione durante quel mese. La convenzione scenografica, dunque, cui Gli Omini devono cedere per adattare il loro lavoro allo spazio chiuso, alla programmazione stagionale, alla necessaria pratica della tournée.
Questo adattamento inevitabile influenza la (mia) ricezione del lavoro: so di essere in platea; sto vedendo degli attori mutare di continuo figura, senza alcuna immedesimazione, e tutto questo avviene in un contesto scenografico che la sua teatralità la dichiara: così Ci scusiamo per il disagio progressivamente si riduce da processo antropologico-creativo a mero gioco scenico, il pulviscolo umano scade in prestazione attorale, subisco un calo d'attenzione e d'interesse. Quel mondo, strappato al suo mondo, subisce la limitatezza artigianale e perimetrale del teatro fatto in teatro: nato all'aperto di una Stazione, apparso poi in un deposito, Ci scusiamo per il disagio diventa ciò che non è: un'operazione da palco, che rischia di essere (che è) valutato e vissuto secondo parametri che non gli sono adatti: la riuscita di una battuta, il ritmo di quel movimento, la riconoscibilità di quella figura di ritorno; questo momento di noia (che ho provato), questa fragilità drammaturgica (che ho notato), questa inconstistenza registica (di cui ho avuto talora la sensazione).

Infine.
“Ci scusiamo per il disagio è la frase più frequente che viene dagli altoparlanti di Trenitalia: solitamente è usata per comunicare un un ritardo. Per noi tuttavia il termine 'disagio' assume un'altra valenza: più intima e riguarda gli uomini e le donne che abbiamo conosciuto e si estende poi al disagio che tutti noi possiamo provare, sentire o subire in un determinato momento della nostra vita”.
Ascolto – durante l'incontro dell'Asilo – e penso ad un altro disagio, dopo aver visto lo spettacolo: il disagio che deve provare una compagnia indipendente a dover girare, in questo Paese, senza poter realizzare come vorrebbe la propria teatralità, costretta a far di conto con occasioni che non sono pienamente adatte alla poetica che sta sviluppando; il disagio di doversi muovere tra le quattro pareti di una stanza e la fila di sedie rosse quando è invece abituata a pensare/agire/comporre nei territori e in luoghi non-teatrali, nei quali sperimenta al meglio le potenzialità della propria ricerca; il disagio di chi deve costantemente mediare tra la fame (e dunque sia benedetto il teatro che meritoriamente li ospita) e la necessità di “vendere lo spettacolo” attraverso però la modifica della natura del progetto; il disagio di doversi confrontare con un sistema che – nel suo complesso – non offre le condizioni adeguate, che ancora pensa alla teatralità quasi solo nella sua frontalità “all'italiana” e che non accompagna gli spettacoli delle compagnie più giovani, dunque meno note, ad esempio con incontri utili a mettere preventivamente in contatto gli artisti con gli spettatori (potenziali ed effettivi), spiegando il percorso dei primi ai secondi, condividendo ciò che cela o è nelle premesse dello spettacolo che andrà in scena stasera: perché ciò che è avvenuto all'Asilo (la proiezione video, la condivisione dei materiali, la discussione pubblica), mi chiedo, non è potuto avvenire al Bellini?
È questo il disagio ulteriore che provo, adesso, ed è con questo che chiudo l'articolo.

 

 

 

 

Ci scusiamo per il disagio
di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini, Luca Zacchini
luci Emiliano Pona
foto di scena Gabriele Acerboni
produzione Gli Omini, Associazione Teatrale Pistoiese – Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, Regione Toscana
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Piccolo Bellini, 30 novembre 2016
in scena dal 29 novembre al 4 dicembre 2016

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