“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 28 November 2016 00:00

Instabili vaganti, l'urgenza di un teatro davvero "civile"

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Esiste un teatro che per dirsi “civile” non si limita a salire su un palco come fosse il podio d’un comizio da cui parlare ad un pubblico che – normalmente – già conosce e condivide determinate idee. Esiste un teatro che per dirsi “civile” sceglie che l’azione scenica da compiere non sia disgiunta da un’azione “pratica” che vada dalla scena fin fuori dalla scena. Esiste un teatro che cerca, rischiando in proprio, di essere davvero “civile” andando a portare, con la voce della propria poetica, la propria parola laddove il suo senso si fa più pregno e la sua eco rimbomba con maggiore fragore.

Instabili Vaganti (Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno) con il loro Desaparecidos#43, ovvero uno spettacolo che denuncia una tragedia ed il silenzio che lo avvolge, non si sono limitati a portare in giro un lavoro ben fatto per i teatri italiani per far conoscere una vicenda tragica oscurata dai media (la scomparsa, dopo essere stati assaltati dalla polizia messicana, di quarantatré studenti il 26 settembre del 2014 ad Ayotzinapa), ma hanno portato il loro spettacolo proprio lì dove la sua carica si poteva rivestire di un valore aggiunto, proprio dove è la sua scaturigine, in Messico, dove dire certe cose all’interno di uno spettacolo aveva più senso, costituendo per giunta un atto che metteva in pericolo la stessa incolumità di chi vi partecipava. Di lì hanno attraversato il Sudamerica con la loro "azione teatrale".
Un’azione che riempie di un senso forte e pieno quell’aggettivo “civile” che s’accompagna alla parola teatro.
Raccogliamo le loro parole e lasciamo che si raccontino.

Innanzitutto ci raccontereste come e quando è nato il progetto
Desaparecidos#43? Il suo concepimento, la sua gestazione, infine l’idea di portarlo nei luoghi da cui nasce – tragicamente – lo spunto di partenza.
Desaparecidos#43
nasce alla fine del 2014 nell’ambito del Progetto internazionale Megalopolis ed in risposta ai tragici eventi accaduti a Iguala, nello stato del Guerrero, in Messico, la notte del 26 settembre dello stesso anno. Con Megalopolis avevamo già svolto due tappe di ricerca a Città del Messico lavorando prima con gli studenti della UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico) e poi con gli allievi della ENAT (Escuela Nacional de Arte Teatral). In entrambi i contesti, durante il lavoro con gli studenti, sono apparsi temi quali: la paura della violenza, delle sparizioni, la difficoltà di affermare la propria personalità in una delle più grandi città del mondo, il desiderio di cambiare le cose. Tutti questi sentimenti sono diventanti un flusso di emozioni dirompenti in noi quando quegli stessi studenti ci hanno comunicato via Facebook quello che stava accadendo in Messico in seguito alla sparizione forzata di quarantatré studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Abbiamo avuto paura per loro quando hanno preso parte alle manifestazioni a Città del Messico, perché spesso le stesse terminavano con arresti, repressioni e sparizioni. Abbiamo risposto alle loro richieste di diffondere in Italia e in Europa quello che stavano vivendo in quel momento e lo abbiamo fatto attraverso il nostro modo di fare teatro, ponendo in scena i nostri sentimenti, le nostre reazioni, impressioni, utilizzando il nostro linguaggio performativo che cerca di esprimere attraverso l’arte non soltanto una storia ma anche un messaggio e una precisa posizione politica rispetto ai temi trattati.
Così è nata una prima “Acción Global”, come le chiamano in Messico, e cioè una breve azione performativa, che aveva come intento quello di informare sui fatti anche le persone in Italia, che ha costituito il primo nucleo dal quale si è sviluppato poi, nel corso di due anni, lo spettacolo Desaparecidos#43. Nei giorni, successivi al 26 settembre 2014, nel web si susseguivano filmati, foto e slogan provenienti da diverse “Acción global” che avvenivano in Messico ed in altre parti del mondo ad opera di artisti di diverse discipline. Abbiamo sentito il bisogno di unirci a quel movimento artistico, con un’azione di protesta verso ciò che è accaduto ed allo stesso tempo un atto d’amore verso un Paese che ci ha sempre accolti in modo splendido. Abbiamo cercato a Bologna, dove la nostra compagnia ha sede, un luogo fortemente simbolico e di una certa rilevanza (musei, sedi di istituzioni, biblioteche) per presentare questa azione per mobilitare l’opinione pubblica e diffondere una notizia ancora taciuta in Italia, ma non abbiamo avuto risposta da parte di tali istituzioni. Solo l’università, la facoltà di teatro, nella persona del Prof. Marco De Marinis, ci ha dedicato uno spazio, all’interno delle sue lezioni per parlare dell’accaduto agli studenti e mostrare alcuni filmati. Non abbiamo avuto sostegno da altri spazi o istituzioni per presentare la performance e quindi abbiamo creato anche noi un hashtag (#megalopolisproject43) per diffondere attraverso la rete le notizie che ci arrivavano dal Messico. Nelle fasi di lavoro allo spettacolo, oltre a me (Nicola Pianzola, ndr) e Anna Dora (fondatori della compagnia), hanno preso parte diversi artisti, attori e danzatori italiani e anche alcuni studenti messicani, giunti appositamente in Italia per il progetto. Questa caratteristica di apertura ci ha consentito di giungere finalmente nei luoghi in cui il progetto è nato, nel tragico teatro di quegli eventi così sconvolgenti, e di continuare a coinvolgere altri artisti.
In questa tappa alla UVA (Unidad de Vinculación Artistica) del Centro Culturale Universitario Tlatelolco, infatti, abbiamo incluso nello spettacolo i danzatori Paulina e Helmar Alvarez di Tierra Independiente ed alcuni degli studenti che hanno preso parte al workshop Opencall#43 che ha preceduto il debutto messicano, presentando Desaparecidos#43 con sette performer in scena.

Prima Oaxaca, poi il Foro La Morada a Città del Messico, due luoghi fortemente simbolici: qual è stata l’accoglienza del pubblico messicano e che reazioni ci sono state da parte delle istituzioni locali? Che tipo di problemi avete incontrato? E soprattutto, poiché è bene che si sappia: che cosa avete percepito della situazione messicana attuale?
La data a Città del Messico è stata una tappa molto importante per la storia del nostro spettacolo dato che ci ha consentito finalmente di restituire al pubblico messicano il nostro pensiero, la nostra visione, le nostre emozioni, circa una vicenda che ancora oggi, a distanza di due anni, resta una ferita aperta nel cuore del Paese. Ci siamo preparati con un periodo di residenza al Centro de Gestione Scenica Tierra Independiente di Oaxaca, capitale di uno degli stati più poveri del Paese e recentemente teatro di violente repressioni delle proteste dei maestri delle scuole, presentando una prova aperta del lavoro al pubblico oaxaqueño. Giunti a Città del Messico siamo stati sopraffatti dall’emozione di ritrovarsi nella Piazza delle tre culture, luogo della mattanza del 2 ottobre 1968. Un evento che sta all’origine della vicenda di Ayotzinapa, dato che i bus con i quarantatré studenti scomparsi stavano viaggiando verso la capitale proprio per partecipare alle celebrazioni per il 2 ottobre. Dal punto di vista della risposta del pubblico i risultati sono stati sorprendenti. Il teatro ha registrato il tutto esaurito e gli organizzatori stessi erano sorpresi di tale partecipazione. Erano tanti i timori: la censura governativa, le azioni di disturbo e minacce da parte di cittadini messicani contrari alla programmazione di uno spettacolo su questo argomento, la paura per l’incolumità di due artisti stranieri.
In effetti non sono mancati episodi di calunnia e intimidazione attraverso post diffamatori sulla pagina web e i canali social della UVA, che coraggiosamente ha programmato non solo lo spettacolo ma tutto un progetto su questo tema consistente anche nel nostro workshop Opencall#43 al quale hanno partecipato oltre venti studenti, ed una conferenza sul tema dove abbiamo invitato anche la fotografa italiana Giulia Iacolutti, ad illustrare il suo progetto fotografico #365porlos43. Alcune persone, tra cui ex studenti, hanno cercato di scoraggiare la direzione del Centro Culturale Tlatelolco da tale operazione. A compensare questa tendenza, che purtroppo in Messico contribuisce ad affossare ogni reazione e manifestazione politica, c’è stata la partecipazione di un’intera comunità attiva politicamente: collettivi che hanno diffuso l’evento attraverso il web e i social, comitati studenteschi, e i documentaristi e filmmakers di Ojo de Perro che hanno filmato il processo di lavoro a Desaparecisdos#43 a Città del Messico per inserirlo in un nuovo film documentario sulle reazioni artistiche generatesi a partire dal caso Ayotzinapa.
La cosa che ci ha dato più soddisfazione è stata però la partecipazione emotiva del pubblico che, al termine dello spettacolo, durante gli applausi, ha urlato: “Justicia”.
Il fatto che Desaparecidos#43 sia l’unico spettacolo di una compagnia professionista ad essere stato rappresentato in Messico la dice lunga sulla situazione attuale di questo Paese. Le compagnia sovvenzionate dal governo non potrebbero mai mettere in scena nulla di simile o perderebbero qualunque forma di appoggio. Quelle indipendenti sanno che non verrebbero programmate nei festival. Inoltre il Messico, purtroppo, è un Paese che, per necessità, tende a dimenticare facilmente, dato che il governo pone di fronte alla popolazione in rivolta le necessità primarie: la gente smette di manifestare perché rischia di perdere il lavoro, o in alcune zone, deve ancora affrontare problemi di sopravvivenza. Forse compagnie straniere e dalla circuitazione internazionale possono apportare un cambiamento nell’ambiente culturale ma bisogna prendersi il rischio. Io ho deciso personalmente di non togliere la parola “narco governo” dal mio testo, sapendo che avrei potuto essere espulso a vita dal Messico, in base alle leggi di questo Paese.

Parlateci della collaborazione con la compagnia Tierra Independiente: che tipo di sinergia è stata, sia da un punto di vista artistico che politico?
Conoscevamo già da tre anni Paulina e Helmar Alvarez, dato che ci hanno invitato due volte come maestri di teatro nella propria programmazione. Lo scorso anno abbiamo dedicato alcune ore ad un lavoro di confronto e scambio, sperimentando e contaminando i nostri diversi linguaggi: quello del teatro sperimentale e contemporaneo con quello della danza. Ci siamo ripromessi di impegnarci in un progetto comune ed appena si è presentata questa occasione abbiamo deciso di includerli nella struttura di Desaparecidos#43. Dal canto loro gli artisti messicani hanno la fortuna di poter contare su borse di studio e sovvenzioni, e così è stato, dato che Tierra Independiente ha ricevuto un appoggio economico per seguirci in tournée in Messico e Uruguay (quando noi ancora non avevamo alcuna conferma di sostegno per affrontare la tournée!). Dal punto di vista artistico il tempo, solo cinque giorni, era tiranno, ma grazie ad una forte intesa siamo riusciti ad integrarli nella struttura creando anche due nuove scene, di cui una con una maschera di una danza rituale dello stato di Oaxaca. Dal punto di vista politico c’era da parte loro la volontà di affrontare questo tema difficile, consapevoli dei rischi che potevano correre nel loro Paese ed in particolare a Oaxaca. L’idea è ora quella di continuare questa collaborazione presentando la versione dello spettacolo che include al loro partecipazione anche in Europa.

Che tipo di sostegno (e da parte di chi) ha ricevuto il vostro progetto dall’altra parte dell’oceano?
Per la seconda volta devo ringraziare di cuore la Regione Emilia Romagna, che ha cofinanziato la tournée in America Latina lo scorso anno e si è impegnata anche in questo tour (che raccoglie i risultati di ciò che abbiamo seminato in quello precedente). Il sostegno della Regione è stato quello fondamentale e che ci ha consentito di affrontare la lunga tournée (pagando biglietti aerei, trasporti interni, vitto, etc.). A questo si aggiunge il sostegno degli Istituti Italiani di Cultura di Montevideo e di Santiago che ci hanno offerto ospitalità nelle rispettive sedi. Proprio in questi giorni, invece, nel bel mezzo di tanti successi, ci è giunta la “solita” notizia che il MiBACT non ha finanziato la nostra tournée, dimostrando come il nostro Ministero della Cultura non abbia mai supportato una delle compagnie italiane con più circuitazione mondiale, e suscitando lo sgomento dei direttori e degli operatori che ci programmano all’estero.

Il vostro è un teatro che possiamo definire “militante” e “civile” nelle accezioni più alte e meno stereotipate dei due termini. Quale credete – e soprattutto quale avete riscontrato – che sia la sua capacità di incidere sulla realtà che provate a raccontare?
Io credo che in questa era di sovrainformazione, bombardamento mediatico e di ultracondivisione social, un teatro come il nostro, che passa attraverso il corpo vivo dell’attore, possa incidere sulle persone prima di tutto. Sia nei workshop che negli spettacoli sentiamo che i partecipanti e gli spettatori hanno bisogno di questa scossa umana, che si trasferisce empaticamente attraverso la vibrazione muscolare, il sudore, l’odore delle emozioni. In Messico, gli studenti che si sono uniti a noi nello spettacolo sentivano la necessità di prestare il proprio corpo ad un pensiero politico, ad un atto di giustizia. Attraverso il lavoro hanno sentito, forte come mai, la propria identità di “messicani”. Sono le persone, le comunità che si creano intorno al nostro lavoro che incidono poi sulla realtà, creando spazi di riflessione e di rappresentazione di temi di questo tipo.

Dal punto di vista artistico, come si fa a trasferire determinate tematiche dalla teoria alla prassi scenica? Come si fondono politica e poetica senza che ciò rischi di diventare retorico? Quali sono le linee guida che seguite nella ricerca del vostro linguaggio artistico?
Il processo di lavoro a riguardo è molto lungo e complesso poiché per noi si tratta di incorporare suggestioni, reazioni, informazioni, immagini, suoni, affinché queste diventino gli impulsi che generano l’azione scenica e vadano a costituire un linguaggio a sé stante, capace di trasmettere con forza l’universo emozionale che gravita intorno ad una tematica. La nostra poetica va verso la “bellezza”, la “naturalezza”, “l’organicità dell’azione” che crea una dialettica forte con la “tragicità”, “l’orrore”, la rabbia che si trasforma in energia, legate all’argomento trattato. In questo senso si genera una lotta continua tra “poetica” e “politica” che determina la tensione scenica e che comunica una nostra presa di posizione. La nostra intenzione, in una società che ci permette un accesso rapido a qualunque tipo di informazione, non è quella di riportare i dati di una vicenda, di raccontare l’accaduto, bensì quella di vivere una situazione attraverso il nostro corpo, la nostra voce, l’interazione con altre forme d’arte (video, musica, arti visive, etc.) per creare un ambiente emozionale che avvolge lo spettatore (da qui anche la disposizione spaziale del pubblico che rompe la quarta parete, o la modalità di lavorare site-specific) che si trova ad interagire con il proprio pensiero, le proprie emozioni, la propria storia personale. Per Desaparecidos#43 siamo partiti dalle immagini: dai volti dei quarantatré ragazzi, dagli slogan, dall’iconografia artistica e politica “tipica messicana” generatasi in seguito ad Ayotzinapa. Queste suggestioni si sono trasformate in video, a volte mappati sui corpi dei performer, a volte utilizzati come strumento di interazione con azioni performative ed altri oggetti. Come sempre, però siamo partiti dal corpo dell’attore, dalle infinite possibilità di espressione che contiene e trattiene. I testi fondono spesso frammenti di notizie, con slogan, hashtag, testi poetici e testi scritti dagli attori stessi. Il rischio della retorica, del “chi siete voi per parlare di questa vicenda”, dell’impossibilità di esprimere una tragedia di tali proporzioni, è sempre in agguato. Quello che ci aiuta a superarli è “l’umiltà”, il sentire di prestare il proprio corpo e voce ad una causa e di farlo per amore.

Cosa porterà via dal Sudamerica – e cosa si lascerà dietro – Desaparecidos#43? E quale sarà invece il suo cammino successivo?
Desaparecidos#43
porterà con sé l’apporto artistico e umano delle persone che hanno collaborato all’intero progetto, nuove suggestioni, immagini, foto, materiale video e di documentazione, e fisicamente si porterà via attori, artisti e danzatori che continueranno il progetto con noi in Italia e Europa! Lasciamo a Città del Messico una possibilità: quella di poter programmare all’interno di canali istituzionali quali le Università un teatro capace di affrontare temi scottanti come questo. Lasciamo le nostre parole, azioni, immagini in quello che sarà presto un film documentario che verrà presentato in tutto il Messico e l'America Latina. Con la tappa messicana sentiamo che si è chiuso un cerchio, che si sono uniti due punti: quello che ha provocato la nascita di questo spettacolo e quello che lo ha restituito al luogo di nascita. Continueremo, arricchiti da questi nuovi input a rappresentare lo spettacolo in Italia e Europa: prima data quella del 13 marzo nella stagione de La Soffitta – Centro di promozione teatrale a Bologna.

E cosa si porterà invece con sé la Compagnia dopo questa esperienza? Possiamo fare un primo bilancio umano, sociale e artistico? Soprattutto: da questo lavoro portato in Sudamerica, che sensazione scaturisce circa la valenza del teatro (del teatro in generale e del vostro teatro in particolare) nella società?

Mai come in questa ultima tournée in Sudamerica abbiamo sentito così forte il pensiero di rimanere qui, di lavorare con studenti e artisti che sentono forte questa necessità e che non trovano nel loro Paese esperienze come la nostra. Soprattutto in America Latina, il teatro vuole affrontare temi sociali, politici, civili, vuole cambiare la società, ma queste esperienze sono pochissime e non godono del giusto appoggio e dei canali appropriati. Dal punto di vista umano sentiamo di aver trovato nuovi compagni di viaggio, e di essere riusciti a portare il teatro dove non esisteva. È il caso del festival Teatro para el fin del mundo a Montevideo, in Uruguay, dove abbiamo presentato Desaparecidos#43 in un luogo abbandonato nel quartiere più periferico e pericoloso della città, o del festival Fitich di Chiloè, in Cile dove abbiamo presentato lo spettacolo Il Rito nelle isolette di questo arcipelago nel sud del Paese, alle porte della Patagonia. In questo, credo, siamo riusciti a compiere un’operazione culturale importante sulla società, creando nuovi pubblici, sensibilizzando la comunità intorno a un problema che affligge il loro Paese, nel caso di Desaparecidos#43, o rendendo più consapevoli gli abitanti di Chiloè del valore delle proprie tradizioni culturali nel caso de Il Rito. Questo dovrebbe essere il compito del teatro, così come noi lo concepiamo. Non intrattenimento, non puro esercizio estetico e poetico, non espressione di un ego artistico per un’élite, ma un patrimonio dell’umanità e per l’umanità, parola che mi sovviene non a caso, dopo la replica de Il Rito nella chiesa di Nercon, patrimonio Unesco in Chiloè, dove tanto forte è stato il sentimento di condivisione con la comunità degli spettatori.

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