“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 10 September 2016 00:00

Roberto Longhi e la pittura bolognese

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Nel cofanetto edito da Pendragon sono contenuti due DVD con la registrazione di altrettanti incontri tenuti da Eugenio Riccòmini, in cui, rileggendo le parole pronunciate da Roberto Longhi nel 1934, in occasione della prolusione d’insediamento presso l’ateneo bolognese, illustra e commenta tale intervento attraverso la proiezione di immagini.

È sicuramente meritoria l’idea di affiancare alle parole di Longhi le immagini delle opere da lui stesso citate o comunque utili alla comprensione della sua trattazione. Il primo DVD, Da Cimabue ai Carracci, è stato registrato dal vivo presso il teatro Duse di Bologna nel 2008, mentre il secondo, Dai Carracci a Morandi, è stato registrato nel 2015 presso lo studio di Riccòmini.
Sin dal celebre intervento del 1934, Longhi intende promuovere una riscoperta della pittura bolognese fino ad allora poco, o male, studiata. La sua analisi inizia dalla constatazione di come, nella Bologna nel Due-Trecento, la presenza di tanti miniatori locali di alto livello presupponga una grande pittura locale. Longhi, oltre a rammaricarsi della distruzione di interi cicli pittorici trecenteschi in diverse chiese bolognesi, denuncia tanto l’atteggiamento di sufficienza con cui la critica guarda alle esperienze locali, quanto i maldestri tentativi di coloro che, al fine di farle reggere il confronto con la produzione toscana, non esitano ad esaltare la tradizione locale ricorrendo a vere e proprie falsificazioni di documenti e firme sulle opere.
Secondo Longhi l’immaginario dei pittori bolognesi del primo Trecento non deve essere cercato tanto nelle opere di Cimabue o Giotto presenti in città, quanto piuttosto negli esempi scultorei romanici emiliani, caratterizzati da “strappi di verismo intuitivo”, come avviene nelle prove di Benedetto Antelami a Parma. Tra gli artisti locali che meritano attenzione viene citato Vitale da Bologna (XIV sec.) portando ad esempio l’affresco, originariamente collocato nella parete di ingresso della chiesa di Mezzaratta, databile attorno agli anni ’40 del XIV secolo, ora trasportato su tela e conservato presso la Pinacoteca cittadina. Lo studioso ne parla come di presepe “rusticano e angelico insieme”, animato, movimentato, come non mai, molto lontano dalla pittura giottesca. Anche nel ciclo delle Storie di sant’Antonio Abate, oggi in Pinacoteca, c’è traccia del medesimo “balletto dei personaggi”, con costruzioni spaziali decisamente lontane da quelle toscane. Tra gli altri artisti locali assolutamente degni di palcoscenico, Longhi indica Amico Aspertini (1474-1552), contestando quanti hanno parlato delle sue opere in termini di bizzarria fine a se stessa, e soprattutto, avversando l’interpretazione burlesca vasariana. Francesco Francia (1450–1517) è un altro pittore locale che lo studioso intende recuperare allontanandosi dall’impostazione critica dell’epoca che lo vuole fortemente debitore nei confronti dello Squarcione e dei ferraresi evidenziando, invece, come siano riscontrabili influssi toscani. Longhi indica come uno dei più grandi ingegni del Cinquecento il bolognese Francesco Primaticcio (1504-1570), pittore e maestro di stucchi. Molto velocemente l’autore spende parole anche per Pellegrino Tibaldi (1527-1596) evidenziando come negli affreschi di Palazzo Poggi spicchino giganti ignudi più “collerici e più sanguigni di quelli di Michelangelo”, ed invita ad osservare come le nature morte di Bartolomeo Passerotti (1529-1592) stiano a testimoniare come anche a Bologna, al pari della provincia lombarda, ci sia chi pone i presupposti per la “pittura diretta” del Caravaggio.
Si giunge così all’Accademia bolognese di Agostino (1557-1602), Ludovico (1555-1619) ed Annibale Carracci (1560-1609), artisti all’epoca poco considerati o sottostimati. A tal proposito lo studioso analizza i lavori di Palazzo Fava e Palazzo Magnani individuando in essi caratteri particolari di verosimiglianza e credibilità. Tra gli allievi di Annibale, Longhi si sofferma su Guido Reni (1575-1642), evidenziando come la sua pittura tenda a divenire sempre più impalpabile, caratterizzata da “digitazioni sempre più lievi”, con personaggi diafani, tanto che, nell’ultima parte della carriera, “dipinge vecchie larve in aria d’argento sotto agli angeli soffiati in rosa e biondo entro un polverio di paradiso un anelito ad estasiarsi dove il corpo non è che un ricordo mormorato, un’impronta...”. Anche al “geniale” Giuseppe Maria Crespi detto “Lo spagnolo” (1665-1747) viene riservato spazio mentre, sull’Ottocento Longhi liquida drasticamente la pittura bolognese con un perentorio: “Taccio dell’ultimo secolo”.
La prolusione si chiude con un pittore a Longhi contemporaneo, sostanzialmente snobbato dalla critica dell’epoca: “E finisco col non trovare del tutto casuale che, ancora oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però, saputo sempre orientare il suo viaggio con una leggerezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo incamminato”.

 

 

 

 

Eugenio Riccòmini
Da Cimabue ai Carracci. Dai Carracci a Morandi. Un omaggio a Roberto Longhi
Pendragon, Bologna, 2015, 2 DVD (115 min. + 90 min. ca.)

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