“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 27 April 2016 00:00

La parodia (seria) de I Sacchi di Sabbia

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Chi s'ingegna a fabbricar il teatro poi dentro ci
mette quel che ha in zucca e io c'ho i santi i
diavolacci Totò Peppino Amleto tutt'al più! Un
po' quel che ho vissuto e che conosco e un
po' quel che mi passa l'italico convento
                                   
(Giovanni Guerrieri)

Le bocche dei sacchi vengono richiuse con delle

corde, dopo che sono stati riempiti di materiali,
spesso incoerenti
                                    (Giovanni Guerrieri)

 

I Sacchi di Sabbia parlano di solitudine, morte, della differenza tra ciò che sentiamo di essere e ciò che invece siamo per gli altri; parlano di libertà e di quanto sia falsa la differenza “tra noi e loro”; parlano di uguaglianza e di legge del più forte, della riduzione delle possibilità di sopravvivenza, di come la vita sia una corsa che ha vincitori e vinti e – parlando di tutto ciò – generano nel pubblico una continua risata. Questo accade perché il loro Piccoli suicidi in ottava rima è una coniugazione teatrale della parodia, genere che fa da controcanto all'importanza dei temi rendendoli in maniera truccata e distorta, inclinata, fuori-posto. Non che venga meno la funzione del racconto e quella della messa in evidenza del contenuto, di una specifica condizione, addirittura di una evidente denuncia di uno stato di fatto ma la forma – meglio: la contro-forma o contro-(ri)forma, viene da scrivere – che tutto ciò assume è quella del doppio parodico per cui ciò che, per consuetudine o buone maniere retoriche, dovrebbe essere bello e saggio, misurato ed elegante, viene espresso per mezzi villani, ridanciani, ironico-popolareschi.

Siamo, sia chiaro, nel solco di una lunghissima tradizione che ha le sue radici nel para ten oden (contro canto o “affianco al canto”) di cui scrive Aristotele – la recita di Hegemone di Thasos che provocava negli ateniesi risate irrefrenabili – e che trova poi definizione nella Poetica di Scaligero, il quale afferma che la parodia “deriva dalla rapsodia” dei canti omerici (“quando i rapsodi interrompono la recitazione, entrano in scena coloro che, per amore del gioco, rovesciano tutto ciò che era stato detto in precedenza”) e che trova poi, nei secoli, sviluppo in maniera differente nella letteratura, nel teatro, nella filosofia come nell'oralità da strada: da Erasmo, che afferma che “tutte le cose hanno due facce, completamente diverse l'una dall'altra” per cui “ciò che a prima vista è morte, a ben guardare si presenta come vita, e all'opposto la vita si rivela morte, il bello brutto, l'opulenza miseria, la cattiva fama diventa gloria, la cultura si scopre ignoranza, la robustezza debolezza, la nobiltà è ignobile” fino al Trionfo dei Poltroni delle stampe cinquecentesche; dalle maschere bifolche della satira, insieme di positivo e negativo (Marcolfo che si mostra “bruttissimo e savio”, Bertoldo che è “deforme ma agile di cervello più di un re”) al mondo alla rovescia delle pitture fiamminghe per comporre le quali (vedi Brueghel) si attinge ai proverbi campagnoli, ai detti di bottega, alle narrazioni da vicolo. Si tratta, per intenderci, di un filone cui appartiene a suo modo anche il Don Chisciotte di Cervantes, per cui il folle convive col normale e il normale è ridefinito dalla visione di un folle, e che trova una sua interpretazione tanto nel teatro inglese (a partire da Shakespeare: pensate alle sue trame in cui un tema è doppiato tra serio e faceto) quanto nella letteratura britannica: dallo Smollett, che mette in commedia (making it assume the sock) i vizi della vita quotidiana, fino a Dickens, che fa dei suoi romanzi un teatro dello humour drammatico e comico. Così si dimostra – ed ha valenza sociale, culturale e politica – che il fuori è diverso dal dentro e che “l'abito non fa il monaco” e, tutto ciò,  lo si fa ridendo: per non piangere.
D'altro canto i Sacchi vengono da Pisa e sono nati – e cresciuti – nel ventennio berlusconiano: un periodo nel quale la farsa ha truccato il proprio volto col cerone per sembrare abbronzata, mettendo in pratica l'amoralità, il vizio, la vergogna giurando nel contempo d'essere onesta. Sono gli anni dell'azienda-diventata-partito e delle minorenni dichiarate maggiorenni dal Parlamento; sono gli anni del rialzo nelle scarpe, della corruzione fatta legge, delle bandane e delle “cene eleganti”; sono gli anni della guerra chiamata “missione di pace” e che viene fatta per esportare democrazia badando, nel contempo, ad importare petrolio. Vengono da Pisa – lo ripeto – ovvero dalla Toscana della bestemmia che accompagna il nome della Madonna (ad un tempo espressione di fede e laicità), regione nella quale la Sinistra lotta in campagna elettorale con la Sinistra (per assenza di Destra), terra in cui a declamare Dante o lo stilnovo non sono i ricercatori universitari ma i contadini che hanno i calli nei palmi, impugnano da mattina a sera una zappa e portano scarpe pesanti e sporche di fango.

Quattro sketch di una quindicina di minuti l'uno; come punto di partenza una trama più o meno celebre o una condizione di fatto consueta (da Pat Garrett e Billy the Kid di Sam Peckipah a L'uomo lupo di Waggner passando per il coito, la poesia di Rilke, L'invasione degli ultracorpi, l'audio da fiction televisiva) all'interno della quale vengono inseriti ulteriori contenuti comici; la forma sonora è data dagli stornelli del Maggio Drammatico ovvero degli spettacoli da strada in versi cantati che, nella zona della Garfagnana, celebrano l'inizio della primavera raccontando le vite dei santi o di Gesù, le storie da contado o le vicende del luogo (ottava rima e ottonari in quartina) mentre quella visiva usufruisce – in uno spazio vuoto, abitato da attori in jeans e maglietta – di pochi oggetti, per lo più in legno o cartone lavorato: una testa di cavallo, una pistola o un pugnale, un fucile, qualche sedia presa a Sala Ichòs, una finta televisione, un paio di mantelli, un libro pop up ovvero le cui figure bidimensionali si alzano girando le pagine. Un cowboy che non riesce a uccidere il suo avversario in duello; un lupo che vorrebbe declamare poesia invece d'essere costretto – come favola comanda – a mangiare la bambina del bosco; tre spermatozoi ai blocchi di partenza, in attesa di schizzare verso l'ovulo, ed un alieno che sembra sostituire un umano nella sua desolazione casalinga e solitaria: dal western alla narrazione erotica, dalla cinematografia alla condizione teatralizzata dell'isolamento, I Sacchi di Sabbia – fedeli allo schema di riferimento – prendono dunque un modello preesistente tramutandolo da serio a scherzoso, lo contraddistinguono operando per dislivello linguistico (insieme di italiano e cadenza dialettale), usano tempi e strumenti della comicità (l'attesa prolungata, la finta risata ripetuta, la reiterazione della scena, il fraintendimento discorsivo, il travestitismo ridicolo), degradano il sacro (esempio: l'oggetto d'amore ridotto a corpo sessuale) e inseriscono allusioni dirette o indirette alla lordura e al basso ventre (“questo è il bagno” ovvero il luogo della merda) e – facendo tutto ciò – danno l'ornamento del piacere al dolore, spingendo il pubblico a ridere mentre osserva un uomo che tenta di uccidere un uomo, un mostro costretto a fare solo il mostro o un essere che si abbandona lentamente a se stesso, standosene ogni giorno seduto tra un cane che dorme (noiosità della vita quotidiana) e la tv (surrogato dell'esistenza che non vive).
Mi viene quindi da scrivere che Piccoli suicidi in ottava rima è lo spettacolo della “parodia seria”, citando così Giorgio Agamben quando, in Profanazioni, scrive che se non appare seria la forma, “serie possono essere però le ragioni” che hanno spinto chi fa parodia a evitare “la rappresentazione diretta del suo oggetto” ed a scegliere invece un discorso di fattura diversa, che deforma il volto di chi assiste non attraverso l'imposizione delle lacrime ma il ghigno satiresco. Quali sono queste ragioni? “L'oggetto” − scrive ancora Agamben − “è inenarrabile” e poiché è tale, colui che vuole parlarne deve “necessariamente ricorrere a mezzi puerili”. Insomma, per dirla in parole più povere: la vita e la morte, la disperazione, la maschera che gli altri ci impongono, la propria inesistenza, il dispiacere di non riuscire ad essere diversi da come gli altri ci vedono, il sacrificio di sé, l'incapacità o l'impossibilità di raggiungere un traguardo non sono davvero raccontabili, trasportabili nello spazio di scena, pienamente condivisibili – sono cioè “inenarrabili” ovvero non narrabili fino in fondo – ed allora tanto vale, per evocarne una scheggia, usare il gioco giocato, lo svelamento fanciullesco, l'eversione della risata.  

Ci sono due aspetti, a questo punto, che mi preme sottolineare.
Il primo è la lingua usata da I Sacchi di Sabbia. La cadenza pisana intrecciata al napoletano di Enzo Illiano (“siamo una compagnia tosco-napoletana” dice spesso Giovanni Guerrieri) rimanda all'oralità vernacolare del Teatro di Strada, ai gruppi di giro, alle carriole d'attori che traversano – da secoli – il sistema teatrale nazionale frequentando i luoghi off (extra-moenia), le piccole sale, gli spazi occupati (nel loro caso: dal bar “La Rossa” di Pisa alla chiesa Sant'Andrea Forisportam passando per le aule delle facoltà in agitazione, le piazze dei festival estivi, le cave di marmo in cui mettere in scena il loro Pinocchio-Marmocchio): basti pensare a Il Conte, lo Santo e il Musico o – ancor di più – al bellissimo Teatrino di San Ranieri (spettacolo da cantastorie viandante, con al seguito una ciurma di caratteri medievali) per averne conferma. Ma – questa lingua, e cito ancora Agamben – rimanda anche al rapporto parodico tutto italiano che i poeti hanno con il lessico di appartenenza, che diventa strumento inevitabile di espressione ma anche vittima stessa di parodia, mezzo d'identificazione e marchio imposto al punto tale che la propria lingua viene odiata nello stesso momento e “nella stessa misura” in cui viene usata ed amata. La tosco-napoletanità diventa così un mezzo per contrastare la formalità falsa del monolinguismo italiota (e delle bugie che racconta) ma è anche oggetto dello scherzo e risulta perciò canzonata mentre viene utilizzata per canzonare.
Il secondo aspetto invece è l'importanza d'aver cercato e trovato un proprio lessico teatrale. I Sacchi hanno una storia ventennale, sono partiti da Strisce e dall'influenza dei fumetti di Andrea Pazienza, sono passati attraverso la dissacrazione dei classici (Riccardo III; Buckingham e 'a malafemmena; Pauperis Oratorium Christi. Studio su un Faust qualunque; Grosso guaio in Danimarca), hanno interrogato l'imperfezione (fonetica) dell'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica (Don Giovanni di W.A. Mozart), la narrativa di genere (Sandokan o la fine dell'avventura), hanno affrontato il mito, il nulla e il silenzio (Orfeo, il respiro), la tragedia (Tràgos), hanno inventato vite sfortunate di pittori inesistenti (Enzino da Bacoli), hanno ripreso la sacra rappresentazione facendone un cartoon (Abram e Isaac), hanno reso Don Giovanni simile all'Ubu di Jarry; hanno fatto cronachette delle opere del passato scrivendo drammaturgie nuove, hanno appreso la lezione indiretta di pochi maestri (da Carmelo Bene a Enzo Moscato, passando per quel Carlo Cecchi che, una sera, gli urlò in foyer “fatelo girare!”, riferendosi al loro Otello) e l'hanno rielaborata per organizzare il proprio discorso, si sono opposti anarchicamente al sistema dell'omologazione espressiva e “principiando a rallegrare un circoletto Arci” − “nascemmo dunque a intrattenere una sinistra illuminata. Quale peggior destino?” − ormai da vent'anni costituiscono un unicum. Hanno fatto teatro politico senza mai cedere al proclama ideologico, hanno mostrato altissime competenze e conoscenze senza indossare giacche di velluto da intellettuali o esibire il volto tragico di chi sta scimmiottando il patimento di un dramma, si sono opposti alla cancellazione della risata (o alla sua banalizzazione televisiva, compreso l'audio di sottofondo che accompagna le battute di comici che non fanno ridere nessuno) facendone, come scrive Andrea Nanni citando a sua volta Heiner Müller, lo strumento che permette “di sollevare il velo sulla radice insensata della civiltà senza bruciarsi le mani”.
Con i Sacchi ogni parola può provocare una ferita, ogni sorriso può scoprire una zanna – parafrasando ancora Heiner Müller – ma noi ce ne accorgiamo soltanto a spettacolo terminato, quando l'ultima risata si è spenta ed a Sala Ichòs (il luogo che da anni li ospita qui in Campania) s'ode la frazione di vuoto che precede l'inizio degli applausi.




Piccoli suicidi in ottava rima. Vol. I e II

ideazione Giovanni Guerrieri, Giulia Gallo
regia Giovanni Guerrieri
con la collaborazione di Dario Marconcini
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Illiano, Giulia Solano
consulenza all'Ottava Rima Enrico Pelosini
consulenza al canto Andrea Bacci, Enrico Baschieri
illustrazioni Guido Bartoli
produzione I Sacchi di Sabbia
in co-produzione con Armunia, Festival Orizzonti 2014
con la collaborazione di Santarcangelo dei Teatri, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Teatro di Buti, Compagnia del Maggio "Pietro Frediani"
e con il sostegno di Regione Toscana
fonte foto di scena website de I Sacchi di Sabbia, ufficio stampa
lingua italiano, dialetto pisano, napoletano
durata 1h
Napoli, Sala Ichòs, 16 aprile 2016
in scena dal 15 al 17 aprile 2016


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