“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 05 April 2016 00:00

Spogliarello emotivo

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Pietro è prigioniero in un corpo che non sente suo, non gli appartiene, non l’ha scelto. “Io mi sento una femmina” afferma scrollando le spalle in un moto del corpo e del viso che mi trasmette impotenza mista a rassegnazione per essere contenuto in un involucro che non combacia con le sue pulsioni, i suoi desideri, il suo sentire più profondo. Aggiungiamo la provenienza geografica e il contesto socio-culturale di cui è figlio: una Sicilia che si è trasferita in provincia di Napoli ed una famiglia dalla mentalità “tradizionale” con principi morali avversi al diverso: “c’hann' fa' i masculi con i masculi; i masculi stanno con le femmine”.

Pietro si nasconde in camera sua come se fosse colpevole, per indossare abiti, scarpe accessori da donna e balla: come può una persona doversi nascondere a causa della sua identità? Gli altri due lati del triangolo sono rappresentati dalla stessa persona (Francesco Guida) in veste alternata di un padre severo e direttivo e di una madre che dietro un ventaglio colorato riesce a vedere solo che il figlio è nato uomo e non accetta altro: “Sei poco aggraziato, nun par' 'na femmina”. Entrambi barricati emotivamente. Lo stesso attore interpreta anche il volto della gente, sedendosi in disparte e imponendosi con una risata isterica di derisione. La danza apre e chiude la scena evidenziando che nella danza automatica della vita non c’è spazio per passi non previsti dalla coreografia. Colpisce la tenerezza con cui il figlio (il bravissimo attore Carmine Maringola) prova ad avvicinarsi ai genitori: raccontando la barzelletta autoreferenziale del pinguino che non è certo di esserlo perché sente freddo, tentando di tranquillizzare il padre “Calmati, papà, accussì ti ven n’infarto”, finchè non esplode e abbandona i modi delicati e timorosi. Urla tutta la rabbia in un dialogo con la madre composto da frasi che si ripetono, in forma di ritornello e in un crescendo di intensità emotiva.
I due ballerini, un uomo e una donna (Viola Carinci e Roberto Galbo) presenti sul palco dal principio, incarnano parti del protagonista; l’uomo uscendo dall’oscurità in cui danzava prende la forma della persona di cui si innamora Pietro mentre la donna è la parte femminile che abita in lui. Lei indossa abiti luccicanti, scarpe dall’altezza vertiginosa: incarna la percezione che Pietro ha di sé guardandosi allo specchio, ciò che vorrebbe essere, l’immagine che desidera possedere. Diviene la personificazione di quell’anima femminile, il riflesso di lui, e così in alcuni momenti i due si muovono in contemporanea. Gli oggetti che animano la scena sono le scarpe disposte in prima fila che verranno indossate nel corso della rappresentazione, le bambole gonfiabili appese in lontananza, le piume che vengono gettate a terra, le sfere colorate di plastica sul finale. Le luci evidenziano la tristezza di un mondo ottuso e poco disposto verso il diverso, rendendo il palco spesso buio e oscuro ma allo stesso tempo illuminando il volto degli attori che prendono vita. Anche i colori sono opposti: vivaci e sgargianti alcuni (quelli delle scarpe, degli abiti, delle piume), tetri e scuri altri (l’abito del ballerino e del padre, le sedie).
Avverto un tripudio di emozioni che commuovono e coinvolgono per la purezza e la verità che comunicano, per la forte umanità che trasmettono. Pietro si sente rifiutato dai suoi genitori che lo accusano di non essere una persona normale. Ma cos’è la normalità? Ha a che fare con qualcosa che per noi è usuale, conosciuto, che si può categorizzare e riferire a comportamenti tipici di un certo numero di persone. Chi decide se i canoni della normalità siano giusti e universali? Il contesto, le condizioni e l’epoca a cui apparteniamo. Il concetto finisce così per riguardare la normalità percepita piuttosto che quella reale. Poiché “anche nella solitudine della nostra esistenza noi parliamo di relazioni” (Bateson), se la percezione di noi da parte degli altri è negativa e stigmatizzante può diventare un macigno sul cuore, un veleno che immobilizza. È una miscela di idrocarburi a bloccare Pietro, nella ripetitività di un lavoro alla pompa di benzina frutto di un’eredità familiare, del nucleo a cui vorrebbe essere leale assecondandone le aspettative ma verso cui è costretto a tagliare emotivamente per differenziarsi e conquistare una posizione-Io. Per differenziarsi e diventare adulto serve un equilibrio tra appartenenza e separazione, due picchi di un movimento tipico delle dinamiche emotive nelle relazioni affettive genitori-figli. In questa triade padre-madre-figlio esse sono vissute come mutuamente escludenti: se si appartiene non ci si può separare e se ci si separa si deve fare a meno dell’appartenenza. Il distacco agito in modo conflittuale da Pietro gli serve per proteggersi dal sentimento di disconnessione dalla cultura familiare. Per il “giovane quarantenne” il taglio emotivo non è una scelta compiuta alla ricerca di un’indipendenza come avviene spesso, ma un’azione forzata nello scontro infruttuoso e ripetuto con una mancata accettazione di sé da parte delle sue radici. È questo non riconoscimento che genera in lui disagio e senso di incompiutezza.
Ho amato molto Pietro non solo perché simbolo evidente delle conseguenze della stigmatizzazione dell’identità sessuale, ma in quanto simbolo di ognuno di noi quando assecondiamo il nostro falso Sé, ogni volta che ci adagiamo in una posizione comoda dimenticando il coraggio di rivendicare le nostre idee, il diritto ad essere ciò che scegliamo nel lavoro, in famiglia, nelle relazioni. Ho amato la sua tristezza e la bellezza ingenua nel modo di comunicare. Ne ho stimato il coraggio, la forza con cui decide di essere con tutti gli ostacoli da affrontare. Il momento in cui si invaghisce del proprietario di un negozio di scarpe in un giorno di shopping a Napoli al riparo dagli sguardi indiscreti del paesino, è ricco di naturalezza, spontaneità ed ironia nei dialoghi e nei gesti. L’incontro tra tacchi a spillo e scatole di scarpe viene fissato nel tempo e impresso con la lacca spruzzata sul palco. Il primo appuntamento è un racconto per immagini tipico del modo di raccontarsi del protagonista: una dolce passeggiata fino all’alba dell’indomani di cui viene delineato in modo puntuale il percorso facendomi prefigurare i posti descritti. La relazione durerà due anni: Pietro non si accorge di essere il terzo e rimarrà alla fine escluso dalla coppia eterosessuale ritornando nella solitudine, cifra della sua esistenza. Il messaggio che percepisco è però di liberazione: dalla negazione, dalle apparenze, dal nascondersi. E si declina con tutto il corpo in scena: dalla confessione rabbiosa che egli fa ai corpi che si spogliano sul palco. Metaforicamente si liberano dalle costrizioni, dalla collera che li imprigionava.
Avvalendosi del burlesque e della comicità, Emma Dante riesce a rendere benissimo la drammaticità di un’esistenza con un linguaggio incisivo, veloce, forte. Non trascura la cornice che vi è intorno, fondendo i personaggi nella fluidità dei movimenti e della danza. Nonostante ciò se devo dire cosa ho visto in meno di un’ora, io ho visto Pietro nel suo urlo silenzioso. In tutte le parti che si è permesso di mostrare coraggiosamente a se stesso e agli altri.

 

“La maggior parte della gente va dicendo per anni ad amici, terapeuti e coniugi quello che avrebbe dovuto dire a genitori e fratelli e non ha mai detto..." (James L. Framo)

 


N.B.: su Operetta Burlesca si vedano anche:
Francesca Saturnino, La danza liberatoria di "Operetta burlesca"Il Pickwick, 2 aprile 2016
Michele Di Donato, Il tragico e il buffoIl Pickwick, 1° maggio 2014

 



Operetta burlesca
testo, regia, scene e costumi Emma Dante
con Viola Carinci, Roberto Galbo, Francesco Guida, Carmine Maringola
coreografie Davide Celona
luci Cristian Zucaro
produzione Sud Costa Occidentale
lingua napoletano, siciliano
durata 55’
Napoli, Teatro Bellini, 30 marzo 2016
in scena dal 29 marzo al 3 aprile 2016

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