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Friday, 12 February 2016 00:00

Dieci anni di Fibre Parallele. Spagnulo racconta

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Bari. Sul lungomare, il viola del cielo si fonde con quello dell’acqua. Alle due di pomeriggio i pescatori sono ancora sul molo, ad aprire ricci e arricciare polpi dai colori iridati. Il Teatro Margherita, il Petruzzelli e il cinema teatro Kursaal si fanno compagnia, l’uno a poca distanza dall’altro, a ricordare un passato glorioso e antico. Oggi sono chiusi. Nei vicoli stretti di Bari Vecchia, sotto gli archi, edicole votive e affreschi di "San Nicolino", come lo chiama la signora Nunzia, che impasta orecchiette e ti parla, sorridendo, in un dialetto contratto e rotondo, pieno di ritmo e melodia. Tutto scorre lento, almeno a quest’ora della giornata, se non fosse per sparuti gruppi di ragazzini che giocano a pallone nelle piccole piazze che ti si aprono davanti, quando meno te l’aspetti.

Mi addentro fino a perdermi, tra le chiese e le case basse, con le porte semiaperte, anche a gennaio: tende di filo ricamato separano il dentro dal fuori. Anche se a me sembra un tutt’uno. C’è qualcosa di tremendamente poetico, una bellezza cruda e spietata, in tutto questo. Ci penso più volte, quando la sera, a teatro, ne trovo tracce – latenti o eclatanti – sulla scena, nella lingua, nei gesti, nei tic, nei personaggi che compongono il complesso universo inventato e incarnato da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo. Peculiare, unico e al contempo universale; individuale, eppure sempre collettivo. Camminando m’imbatto del CUT, il Centro Universitario Teatrale, dove le Fibre cominciarono la loro avventura, più di dieci anni fa. Oggi Licia Lanera vi tiene lezioni di drammaturgia e regia e un laboratorio teatrale. Non lontano dal centro, vicino al mare, c’è invece “spazio agli antipodi”, una piccola sala prove a livello strada, dove sono nati gran parte dei lavori della compagnia che quest’anno festeggia i dieci anni di attività con una maratona dei loro spettacoli. Due settimane, tra il Teatro Kismet e l’Abeliano: da Mangiami l’anima e poi sputala a Lo splendore dei supplizi (escluso l’ultimo lavoro, la Beatitudine perché in tournée). Le sale sempre piene, soprattutto di ragazzi che hanno visto questi loro coetanei e conterranei crescere nel tempo, raggiungendo traguardi e premi importanti, in Italia e all’estero, fino al recente riconoscimento del MiBACT come “migliore impresa di produzione teatrale under 35”.
Una fortuna assistere ai lavori in sequenza, coglierne le eventuali progressioni, i lapsus, il consolidarsi dell’impianto scenico e drammaturgico; un piacere rivederli, o scoprire quelli meno noti, come nel caso di Have I None, adattamento mordente, vivo e sofisticato – seppure con un allestimento, come sempre, a basso costo – del testo del drammaturgo inglese Edward Bond.
Qualche ora più tardi, al Teatro Kismet, ricavato da un ex capannone industriale lontano dal centro, incontro Riccardo Spagnulo, co-fondatore, attore e drammaturgo di Fibre Parallele. Siamo all’incirca a metà della seconda settimana del focus e manca un’ora al “debutto” di Duramadre: questa volta, Danilo Giuva prenderà il suo posto, mentre lui starà in consolle. Ci sediamo nel foyer ancora semi deserto per una chiacchierata.

Una domanda “storica”. L’unica, prometto: perché vi chiamate Fibre Parallele?
Madò. Gli albori! (ride). Allora: eravamo io, Licia, Francesco e Giulia, alcuni compagni di università. C’era anche Mino [De Cataldo]. Provavamo questo Zio Vanja naif, arrivò il momento del debutto e non sapevamo come chiamarci. Presentarci come gruppo era importante e quindi serviva anche un nome. Proponemmo che ognuno portasse un’idea. Licia portò delle tavole anatomiche che sua madre aveva fatto al liceo artistico: ritraevano dei fasci muscolari. Questo collegamento con l’umano rispetto alle fibre muscolari ci interessava molto, quindi usammo questa parola, fibra, che indicava la forza, resistenza, i nervi. Serviva un aggettivo: “parallele”, perché eravamo tutti diversi ma andavamo, camminavano insieme. Più o meno è andata così.

Dove ha debuttato Zio Vanja?
Al CUT (Centro Universitario Teatrale) di Bari. Le prove le avevamo fatte in un posto freddissimo, un club per famiglie che ci avevano dato per carità cristiana. L’allestimento lo facemmo al CUT, dove non c’è manco un teatro, ma una pedana e un impianto stereo con delle casse. Stiamo parlando del 2006. Io e Licia ci siamo incontrati nel 2003, abbiamo fatto i primi spettacoli insieme nel 2004 con la compagnia universitaria, poi con una compagnia di Brindisi. Poi, visto che non ci avevano preso alle varie accademie e scuole, eravamo un po’ persi e Licia disse: “Sai che c’è, se non ce lo vogliono far fare loro, il teatro ce lo facciamo da soli”. E si mise ad adattare questo Zio Vanja per quattro, cinque personaggi, fece un bel lavoro. Questa prima esperienza fu molto guidata da lei. Poi, pian piano, sono entrato anch’io nella scrittura.

Quindi tu hai iniziato dopo a scrivere…
Su Zio Vanja non avevo toccato niente. Era una situazione moto aperta, un gruppo, ognuno dice la sua, anche se dal punto di vista della leadership e della regia era molto forte la presenza di Licia. Io all’inizio volevo fare solo l’attore.

E poi com’è che avete iniziato a dividervi i compiti, tu scrittura e Licia regia?
È stata una conseguenza di diverse esperienze fatte all’inizio insieme a un gruppo di persone fisse, facevamo degli stage con dei maestri che venivano da fuori Bari. La scrittura per me è uscita in maniera più potente dalle improvvisazioni con Ricci/Forte che facemmo ad Andria, anche loro all’inizio della loro carriera come registi. Da lì ci ho preso gusto, mi piaceva. La separazione “vera e propria”, anche se in realtà è sempre stato tutto mischiato, è avvenuta con Furie de sanghe.

Come avete lavorato, nei diversi lavori?
Allora, per Mangiami l’anima e Due, mischio totale. Per Furie de sanghe hanno iniziato a delinearsi un po’ le cose, nel senso che Licia si è occupata dello spazio, di dirigere gli attori – lavoravamo per la prima volta con degli attori – e io della scrittura. Mentre, prima di Furie de sanghe, non arrivava nulla prima della sala prove, abbiamo iniziato a cercare di ottimizzare meglio i tempi, fare un lavoro all’inizio di confronto, brainstorming, parole chiave, poi ognuno si prendeva un periodo di studio e di scrittura al termine del quale ci si vedeva in sala prove a verificare quello che avevo scritto. Questo soprattutto per Lo splendore dei supplizi e La beatitudine. Ad ogni modo, dal punto di vista dell’ideazione, abbiamo lavorato sempre in sinergia io e Licia, in scena. 

Una scrittura scenica, quindi, con una verifica in scena del tuo testo?
Certo. Il mio testo cambia. Di tutte le cose che ho scritto, Licia, oltre a fare la regista, a disegnare lo spazio, mi ha fatto proprio da editor. È stata una sponda come può essere l’editor di una casa editrice. E questo secondo me è stato molto, molto importante perché ha generato un’organicità rispetto a scena e testo: ognuno era a servizio dell’altro.

C’è qualche spettacolo cui sei più legato?
Mangiami l’anima
perché è stato l’inizio e una grandissima sorpresa. Eravamo due ragazzini, ventenni, di Bari, di belle speranze, super inesperti, in tutto. Venivamo anche dalla delusione del Premio Scenario, dove non ci avevano preso, dicendoci “non avete lavorato mai con nessuno, non lo finirete mai questo spettacolo”. Il teatro, a volte, ti volta le spalle, ti dice: studia prima e poi fai. Inaspettatamente, Daniele Timpano, che aveva visto lo studio alle selezioni di Scenario, c’invitò a fare lo spettacolo a Roma. Sono affezionato a questo spettacolo perché da lì è nato tutto: andare in giro, all’inizio, con la macchina di mio padre, col crocifisso sopra la macchina, il tecnico accucciato dietro. E poi perché è stato pieno d’incoscienza: mettere sulla scena certe cose, metterci noi in scena, in un certo modo, ma anche pieno di divertimento. È stato super divertente, anche rifarlo tante volte... anche adesso che l’abbiamo rifatto, dopo dieci anni. Ogni spettacolo è un tuffo nel passato ed è stato un po’ come misurare uno scarto tra quello che eravamo e ciò che siamo adesso, come esseri umani, come bagaglio di esperienze che ognuno ha maturato nella propria vita. All’inizio eravamo proprio due pulcini messi sul palco che cercavano d’intrattenere il pubblico (sorride). Anche lì, però, abbiamo cercato di metterci a nudo, con generosità. Ogni spettacolo ha il suo ricordo. Oltre al primo, sono legato a Lo splendore dei supplizi perché ha avuto una genesi molto lunga. Abbiamo iniziato a provare a settembre e abbiamo debuttato a maggio, in mezzo le tournée e altro, è stata una genesi stratificata, in cui abbiamo messo a frutto tutto ciò che avevamo imparato negli spettacoli precedenti, è un po’ una summa di tutti i linguaggi, come si vede. Che poi li abbiamo fatti tutti diversi sti cazzo di spettacoli! (ride).

Com’è stato riprendere, tra l’altro, in sequenza, evento raro cui assistere, tutti i lavori [tranne l’ultimo, La beatitudine]?
È stato un grande lavaggio dell’anima (sorride). In Un altro giro di giostra c’è Terzani che è affetto da questo male va in giro e finisce anche in un paese dell’est del mondo, dove fanno quei lavaggi purificatori. È stato un po’ così, anche il fatto di farli in ordine, è stato come mettere tutto in fila. Catarsi, catarsi ogni sera.

Aneddoti particolari da raccontare di questi dieci anni? 
Volevo cercare qualcosa che non avevamo mai raccontato prima, ma ci devo pensare. Quando stavamo in Belgio in mezzo al ghiaccio si sa, le cozze con Franco Quadri pure...

... le cozze con Franco Quadri?
Eravamo al Pim di Milano, periferia, come al solito, a fare Furie de sanghe. Non era la prima volta. Come sempre, Licia chiama tutti i giornalisti e i critici per invitarli allo spettacolo. Questa volta, Franco Quadri risponde e dice: “Vengo”. Aveva già visto Mangiami l’anima, non è che si fosse entusiasmato, aveva detto “frizzante, carino, giovanile”. Quindi il fatto che dovesse venire a vederci a Milano, al PimOff, tra l’altro con un tempaccio, la neve... eravamo spaventatissimi. Non stiamo parlando di un critico qualsiasi. Lui è uno di quei critici militanti che ha fatto succedere molte cose. Una voce, se non viene amplificata, resta una voce: da qui, l’importanza del vostro lavoro... poi ci sono gusti e gusti, il teatro è il regno del gusto. Ad ogni modo. Quest’uomo barbuto, in platea, applaude alla fine, divertito. Tutti chi chiedevamo cosa avesse capito, essendo lo spettacolo tutto in dialetto barese. Invece lui: “Ho apprezzato molto, questi personaggi, quest’interno crudo...”. Alla fine Licia, senza indugi, gli dice: "Meh, Franco, noi stiamo mangiando qua in teatro che non abbiamo soldi, ti vuoi fare uno spaghetto con le cozze con noi?”. E lui: “Sì, sì, molto volentieri!”. “E allora, vieni dietro”. Dietro al palco c’era la cucina: proprio come la compagnia di giro degli anni ’30, c’era la prima attrice che cucinava, noi che apparecchiavamo, nel frattempo si smontava, gli odori che si diffondevano nel teatro. Una roba di altri tempi. Ci sediamo a tavola a mangiare queste cozze. Da che dovevamo rimanere in quattro, eravamo in ventiquattro. (ride) Poi ci fu la storia della scommessa: gli stavamo raccontando del debutto di Due al Teatro Testoni di Forlì. E lui fa: “Guarda che il teatro si chiama Testori”. [...] “Vabbè. Facciamo una scommessa: cinque euro che si chiama Testoni”, fa Licia. All’epoca non c’erano gli smartphone. Lui: “Non ti preoccupare, chiamo io”.  E inizia a chiamare Castellucci, Ventrucci: alla fine, il teatro si chiama Testoni e così vinciamo queste cinque euro da Franco Quadri. Avremmo dovuto incorniciarle, probabilmente ma sono state giustamente spese, anche perché all’epoca non navigavamo nell’oro. [La recensione di Quadri su Furie de sanghe non uscì mai, il critico scomparve poche settimane dopo quest’episodio].
Poi ti posso raccontare di una volta che dovevamo fare Mangiami l’anima a Taranto, in una rassegna organizzata da un’associazione. Arriviamo al CineTeatro Bellarmino. Iniziamo a scaricare le scene, il teatrino era accanto alla chiesa di Don Bellarmino. Arriva il proprietario, vede la croce [una croce di legno, enorme, dalla quale Riccardo Spagnulo/Gesù scende all’inizio dello spettacolo] e fa, felice: “Ah ma è una rappresentazione sacra, per Pasqua o cosa?”. E noi: “Sì a suo modo sì, ma anche no”, e gli spieghiamo un po’ lo spettacolo. Dopodiché quello fa: “No, ragazzi, non si può fare questo spettacolo. Se viene il prete, mi toglie la licenza e non posso più fare il cinema”. Chiamiamo il direttore artistico, nel frattempo s’era fatta l’una dalle nove del mattino che eravamo lì, a parlamentare. Morale della storia: torniamo a Bari a cambiare le scene e facciamo Due. Distrutti. Questo nel 2008-2009.

Voi siete molto dissacranti rispetto a una serie di tematiche, spesso legate anche all’ambito religioso o comunque legato alla “tradizione”. Come sono recepiti i vostri lavori in Puglia?
C’è sempre quello che protesta. Io dico: qualche volta, la terapia d’urto non fa male. È anche fuori luogo fare un nostro lavoro in una rassegna di teatro medio-borghese. Però, se le cose vengono spiegate, accompagnate, introdotte, non c’è animo cuore o cervello che non possa capirle. Il teatro è un rito. Se tu metti le cose al macello e non fai nulla attorno, ritorna il rito borghese e non della comunità. Il teatro borghese esiste, continuerà a esistere e per certi versi va benissimo così. Se diventa una cosa morta, appunto, questo è controproducente: ci vogliono un po’ d’iniezioni di vitalità. Ma questa è una responsabilità condivisa di: artisti, curatori, direttori, giornalisti, critici, pubblico. È difficile fare tutte queste attività di contorno ma vanno fatte.

Autori preferiti? Che stai leggendo in questo periodo?
Partiamo dal teatro. La triade inglese: Kane, Ravenhill, Crouch. Io mi sono laureato con una tesi su Koltes, mio grandissimo amore, su cui sarebbe bellissimo fare uno spettacolo. Roberto Zucco... anche Salinger mi piaceva tanto. Čechov, altro grande amore. Faccio ammenda perché Shakespeare l’ho letto poco. E poi Spreghelburd. La cosa bella di Spregelburd, oltre alla riflessione sul linguaggio, è il meccanismo drammaturgico che lui costruisce dietro, che è super articolato. In alcuni testi, diventa esasperato e può non piacere al pubblico ma a uno che si occupa di scrittura fa venire degli orgasmi. Ultimamente, ho letto Limonov e poi Agamben, Il fuoco e il racconto.

I vostri lavori nascono spesso da letture di teorici e filosofi...
Più che altro, sono delle finestre che si aprono. Come per Licia lo è la musica: diventano suggestioni, materiale su cui lavorare. Per Duramadre, per esempio, avevo letto La virtù delle madri di Bachofen, antropologo svizzero dell''800 che, attraverso fonti non storiografiche ma archeologiche, ricostruì un periodo dell’umanità in cui vigeva il matriarcato. Ovviamente questo viene fuori dalla mitologia greca.
Per i primi tre lavori, ho sempre pensato a quest’elemento del sacrificio, del capro espiatorio, l’accanimento violento di un gruppo su una vittima. A posteriori, dentro ci ho letto La violenza e il sacro di René Girard. Anche se questa è una dinamica che chiunque ha provato, suo malgrado, almeno una volta nella sua vita. E poi Foucault per Lo splendore dei supplizi. Per La beatitudine, mi sono ispirato all’autobiografia di Santa Teresa d’Avila, la santa dell’estasi. C’era questa citazione di Lacan che sostiene che la donna nella statua del Bernini raffigurante la santa esprime senza dubbio un orgasmo. Nello spettacolo, si ragiona molto sulla ricerca di uno stato superiore, che per alcuni si esprime attraverso il sesso. All’inizio doveva essere così per tutti. Dentro ci sono anche Storia della sessualità e La volontà di sapere di Foucault. Ho letto le preghiere di questa santa che, a furia di pregare, levitava o andava in trance. La beatitudine nello spettacolo è diventata, spirituale, più che carnale.
Le letture funzionano così: è come quando c’è una musica intorno, o un odore in cucina. Stai soffriggendo aglio e cipolla e tutto l’ambiente prende quell’odore e tu ci sei dentro e ci fai le tue cose, ti metti a scrivere o altro.

A proposito di cucina, scappiamo a mangiare qualcosa, prima che inizi lo spettacolo.

 

 

N.B.: le foto a corredo sono di Rosaria Pastoressa

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