“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 16 January 2016 00:00

Il teatro racconta la realtà (e rompe il silenzio): intervista a Terry Paternoster

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Sulla scena nera si muove, compatta, una schiera, che intona canti sacri e antichi a ritmo di tamburello. Quando la schiera si rompe, i nove giovani attori, cinque donne e quattro uomini, in mutande e sottane, si dispongono in riga davanti a un fascio rettangolare di luce rossa. In dialetto lucano si passano barattoli, sputi, sguardi e imprecazioni: tutti riuniti, per le ferie, a fare la conserva “re pumm'dur". C’è chi è emigrato in Germania e non torna da un anno; chi non si è mai allontanato ma da quel paesino della Val D’Agri vorrebbe fuggire; chi a casa non è tornato mai più. Un grumo di storie e umane pulsioni compresse dentro barattoli di acqua infetta, dove gli attori soffiano, per ricreare il suono del bollore della salsa in cottura.

Il coro/famiglia/massa espelle un capro espiatorio: Peppino, secondogenito incazzato e malato di cancro, unica voce che si erge contro il sindaco fanfarone, l’ingegnere imbroglione e le credenze di un popolo (del Sud) ingannato da false speranze di progresso. Medea, terra madre usurpata, guarda, rassegnata, la luna e costringe i figli alla morte, mentre Giasone Eni “Big Oil” estrae petrolio e distilla veleno nelle falde acquifere. M.E.D.E.A. Big Oil offre uno sguardo delicato ma dissacrante sulla realtà, grazie a una costruzione drammaturgica complessa che, con un uso ribaltato di elementi ancestrali e identitari – i riti, i simboli, il dialetto – della Basilicata ci restituisce una visione dolorosamente catastrofica e sconosciuta ai più (forse oggi un po’ meno di quando lo spettacolo vide le prime luci). Non sorprende che il lavoro abbia vinto il premio Scenario Ustica 2013 “per un Teatro rivolto alle giovani generazioni e destinato a nuovi progetti incentrati sulle tematiche dell'impegno civile e sociale e della memoria”. Dopo aver debuttato due anni fa al Teatro Brancaccino di Roma, città dove il Collettivo InternoEnki opera, lo spettacolo in questi giorni è stato al Teatro Area Nord di Napoli. Per l’occasione, ho incontrato l’autrice, attrice e regista “in scena” – proprio nella parte di madre Medea − Terry Paternoster per una chiacchierata.


Com’è nato M.E.D.E.A. Big Oil?

Dunque nel 2011 ho fatto una ricerca sul campo, spinta da un interesse personale verso l’argomento. Mi reco in Val D’Agri e provo a capirci qualcosa in più. Erano diversi anni che sentivo parlare di tutta questa questione legata al dissesto ambientale in Basilicata a carico delle compagnie petrolifere e delle multinazionali del petrolio. Ho modo di conoscere varie persone che avevano avuto esperienze dirette di malattie sviluppate nel corso di un decennio e poi vengo a scoprire dei numeri abbastanza inquietanti; da lucana mi sentivo in prima persona colpita da questo pericolo. Il dato era che la Basilicata è la regione italiana ch estrae l’80% del petrolio nazionale e la regione col più alto incremento di patologie tumorali. Questo dato ovviamente mi ha molto spaventata. In quel periodo ero alle prese con la costruzione di uno spettacolo e avevo un forte interesse per la figura di Medea. Così arriviamo a una seconda fase: l’anno successivo coinvolgo i ragazzi del Collettivo e ci rechiamo insieme in Basilicata. Eravamo in dieci, conduciamo la stessa ricerca sul campo, di demartiniana memoria. Intervistiamo la gente, cittadini semplici, politici, siamo arrivati a intervistare anche il Presidente della Regione, è stato molto difficile arrivare a lui. All’inizio, avevamo immaginato di girare un documentario sulla Basilicata. Abbiamo più di sessanta ore di registrato video. Poi abbiamo cambiato rotta: tutte le interviste sono state rielaborate da me drammaturgicamente e sono diventate uno spettacolo. In quel momento, incorriamo in una strana fatalità: m’imbatto in questo volantino che pubblicizzava un Master in “Management ed Economia Eell’Energia e dell’Ambiente” dell’Eni, il cui acronimo è, appunto, M.E.D.E.A.; colgo questa fatalità e intitolo lo spettacolo M.E.D.E.A. Big Oil.


In che modo e quali storie raccolte sul posto sono diventate materia drammaturgica?

Abbiamo ascoltato tante di quelle testimonianze che era impossibile farle confluire tutte nello spettacolo. Ci sono entrate le storie che mi hanno colpita di più, che mi hanno lasciato un amaro in bocca che tuttora fatico a cancellare. Ho conosciuto una madre che ci ha raccontato dell’opportunità che era stata offerta a suo figlio di lavorare nella centrale di petroli di Tiggiano. Una speranza di lavoro che poi è risultata solo una promessa: dopo sei mesi, questo ragazzo è stato licenziato con la promessa ulteriore di un’assunzione che poi non c’è mai stata. La madre continuava a ripetere: “Non fa niente che qui si muore, però almeno ci danno il lavoro”. Questa cosa a me fa venire i brividi ancora adesso e non è molto lontana da quello che si sente, per esempio, anche all’Ilva di Taranto. “Noi gli diamo un bacio e in cambio riceviamo uno schiaffo”. Questa è un’altra delle frasi che mi è rimasta impressa. E qui entra in scena Medea, metafora della madre terra che viene tradita dallo straniero, in questo caso il “Big Oil” Giasone, e costringe ad un futuro di morte i suoi figli: a una mancanza di futuro, di certezza, uno dei due figli morirà per un carcinoma. E non sono favole. La Basilicata ha una popolazione di cinquecentomila abitanti: se in una famiglia iniziano a esserci numeri alti di morti di patologie, la questione comincia a essere allarmante. Inizi a chiederti: “Come mai nella diga del Pertusillo sono morti i pesci?”. Di fronte alla risposta: “Quest’anno c’è la moria di pesci perché è la stagione degli amori”, rimani perplesso, dici: “Ok, posso subire passivamente questa risposta oppure cercare di documentarmi”.Questo è quello che ho cercato di fare io: mi sono documentata. Ho una mia visione che non voglio imporre a nessuno. Non voglio dire il petrolio è giusto o sbagliato. Il petrolio è una risorsa però, sicuramente, poiché fa parte della terra, la terra te lo regala: tu la terra la devi lasciare così come la trovi, devi ripristinare l’ambiente, così come l’hai trovato. È questo ciò che io lamento. Molti ci hanno accusato di allarmismo, complottismo.


Avete trovato resistenze durante il vostro lavoro di documentazione sul posto?

Certo. Questa situazione fa comodo a molti, porta denaro ai comuni, a tanta gente. E tanta gente, invece, non ne ricava assolutamente nulla. L’unica cosa che ne ricava è la malattia.


Lo spettacolo gira ormai da un paio d’anni, avete avuto difficoltà nel farlo girare al Sud o in  Basilicata, che impatto c’è stato?

Lo spettacolo è stato fatto a Potenza per due volte, e poi a Tito. Il riscontro è stato molto positivo, la gente ha apprezzato uno spettacolo teatrale. Poi: qualcuno si è rivisto, qualcuno si è riconosciuto, qualcun altro ha stretto un po’ i denti perché non era d’accordo con la visione di Peppino [l’outsider della famiglia, l’unico che non ha paura di dire le cose come stanno, alla fine della storia scopriamo che gli è stato riscontrato un carcinoma]; qualcun altro si è schierato a favore dell’Eni, qualcuno a favore della popolazione. C’è probabilmente un po’ di timore ad affrontare quest’argomento e soprattutto molta paura a schierarsi. Come se, guardare questo spettacolo, significasse schierarsi con qualcuno o qualcosa. Questo spettacolo, innanzitutto, è arte. Un racconto disincantato della realtà, non è solo denuncia. Noi facciamo denuncia di un evento che sta, in un certo senso, squilibrando un Paese. Riportiamo un fatto ma lo raccontiamo in una forma che è la nostra arte, il nostro modo di concertare un branco di buffoni che racconta questa storia. Il nostro modo di recuperare i nostri canti popolari di demartiniana memoria, il fatto di riportare le vecchie litanie, è un recupero della tradizione, ma anche una voglia di parlare della contemporaneità.


Questo spettacolo mette in scena questioni di cui in Basilicata non si parla molto...

No, anche perché, con “Matera19” capitale della cultura, bisogna mettere in lustro le bellezze della Basilicata.


A Matera lo spettacolo non è mai andato in scena?

Ci abbiamo provato varie volte, ma non ci siamo riusciti. All’inizio ci avevano chiesto un fitto molto alto per usare il teatro, ed eravamo anche disposti a pagarlo ma, quando hanno appreso l’argomento dello spettacolo, non se n’è fatto più nulla.


Terry, trentasei anni, vivi a Roma. Che origini e che tipo di formazione hai?

Io sono nata a Milano, cresciuta tra Puglia e Basilicata, il mio cuore si divide tra queste due regioni. A Milano ci sono soltanto nata. Dopo il liceo mi spostai a Roma dalla Basilicata, mia madre non appoggiò subito questa scelta: “Roma, ma come, tanto lontano?” [questa battuta poi è entrata nello spettacolo, nel personaggio di Emi che vorrebbe andare a fare l’università a Bari]. A Roma volevo studiare recitazione, feci il provino all’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’amico. Non superai l’audizione e m’iscrissi a una scuola a pagamento. Ho fatto un percorso triennale di recitazione, contemporaneamente mi sono iscritta all’università Arti e Scienze dello Spettacolo. Dopo laurea e diploma ho continuato a fare corsi, stage. Ho sempre fatto l’attrice. Non trovavo nessun testo che mi desse quegli stimoli che per continuare su questo versante. Avevo necessità di raccontare. Ho scritto un monologo, Nel nome del padre, primo testo teatrale che ho rappresentato da sola, facendo tre personaggi: una mamma, una figlia e una nonna, è un testo sulla violenza sulle donne.

InternoEnki è un collettivo teatrale, com’è nato?

È nato prima di Medea, a Roma, nel 2010, dalla la voglia di creare una rete di artisti, soprattutto per non sentirci soli, in questo momento storico, in cui siamo sempre più soli di fronte ai network con l’illusione della collettività virtuale. Abbiamo detto: perché non unirci davvero in un luogo fisico a confrontarci su tematiche e portarle in scena? Dal 2010 al 2012 abbiamo creato un format col titolo Voci a rischio, eravamo nel centro sociale “Zona a rischio” a Casalbertone; il format era un contenitore di storie tratte dalla realtà, avevamo un mese di tempo per avere un’idea, scriverla, allestirla e andare in scena. Abbiamo fatto questo fino a che non è nato uno spettacolo. Il primo è stato La Iatta Mammona, anch’esso nato dalla notizia di cronaca di una suora messa incinta da un prete che, nello spettacolo, la costringe ad abortire, lei muore durante l’operazione e il prete celebra la messa di requiem: un racconto sempre in chiave sarcastica e dissacrante. Lo spettacolo vinse il Napoli Fringe Festival 2013.


Come molte giovani compagnie, vi autoproducete? Il collettivo è formato da ragazzi provenienti da molte regioni d’Italia, in scena siete in molti, cosa che è sempre più una rarità in questi tempi di “crisi” di produzione e maggiore necessità di “produttività”...

Ci autoproduciamo, proviamo in spazi occupati. Abbiamo girato l'Italia in lungo e largo, e dappertutto abbiamo trovato terreno fertile e ospitale, all’Opera Teatro Festival, Terni Festival, Primavera dei Teatri, Florian Teatro di Pescara, Brancaccino di Roma, ora il Teatro Area Nord di Piscinola. Siamo tutti emigranti poi approdati a Roma. Dalla Sardegna alla Puglia al Friuli, Veneto, Lazio, Umbria, Abruzzo. Nello spettacolo siamo in nove. Abbiamo un direttivo di sei persone che mandano avanti l’organizzazione. Non m’interessa la “produttività”. Vado in scena quando ho una creazione. Non voglio contenitori di spazzatura. Ormai lo sappiamo: non si vive solo di teatro. Ognuno di noi fa altri lavori per mantenersi. Per noi il teatro è una necessità.


Il tema dell’emigrazione/immigrazione è molto presente in Medea...

Per me è importantissimo. È anche il fulcro di una web serie che ho ideato e co-sceneggiato con altri sceneggiatori. Si chiama Welcome to Italy [uscita per la Rai nel 2015, ha avuto il riconoscimento per il Fondo Unico per l’Integrazione]. Racconta il microcosmo d’immigrati, anche se a me piace chiamarli nuovi italiani. Sette storie diverse, un palestinese, un iraniano, un’ucraina, un eritreo, un filippino, un sudamericano e anche un italiano, s’incontrano in una Radio, Radio Baobab, che è il nome di un centro d’accoglienza di recente chiuso a Roma. Faccio anche laboratori teatrali con migranti, di prima o seconda generazione. Il teatro è un fare insieme. Ogni volta scriviamo pagine di teatro che conosciamo solo noi.


Questo spettacolo ha un ritmo particolare, cori e canti antichi scandiscono il movimento scenico. Che tipo di operazione avete fatto con questo materiale della tradizione?

Alcuni cori sono d’ispirazione tradizionale, ma sono stati completamente riscritti. Altri sono reali, come la pratica del togliere il malocchio che mi hanno raccontato in segreto alcune signore. È un rito segretissimo che io poi ho voluto spiattellare nello spettacolo (ride). Se mi sentissero, probabilmente, non avrebbero una buona opinione di me. L’identità di un posto è anche molto legata alla musica, la musica è il racconto di una terra, è la voce del popolo, il coro è la voce di una civiltà che ha paura e continua a farsi domande. L’augurio che io faccio alla mia terra, come cittadina italiana, è che un giorno la nostra mentalità cambi. Abbiamo una mentalità ancora troppo vecchia.


Parlando con alcuni ragazzi della compagnia, raccontavano di come, durante le vostre ricerche sul campo, sia emerso questa sorta di trittico che è la base della quotidianità in alcune zone della Lucania: lavoro, religione, petrolio. Da questo punto di vista, la religione, intesa come pratica, è un elemento molto forte che, in un certo senso, fa da collante per tutto il resto e mantiene anche una sorta di stato di omertà.

Ti do un elemento abbastanza suggestivo. Sul monte di Viggiano c’è la Madonna Nera, venerata in tutta la Basilicata. C’è una festa grandissima che si tiene in due periodi dell’anno, uno a maggio e l’altro a settembre. Il rito prevede di portare la Madonna in pellegrinaggio, fino su al monte che ha un’altezza di 1600 metri. A settembre, la Madonna viene presa e riportata giù, alla chiesa. Molti pellegrini salgono in ginocchio, ci sono le stazioni della via Crucis, si parte di notte, quando si arriva al mattino, davanti alla chiesa, tutti intonano questo grido di gioia: “Evviva Maria!” [che il coro/famiglia nello spettacolo ripete, più volte]. Sotto il monte di Viggiano, c’è il centro oli che brucia, giorno e notte, idrogeno solforato che è un veleno più potente dell’arsenico.


Pensi che il teatro possa avere una funzione politica?

Politico è parlare di noi, di quello che siamo, dove siamo e dove vogliamo andare; cosa rappresentiamo, se siamo animali pensanti o soltanto pedine. Queste sono tutte domande mosse da un grande dubbio, e io ritengo di essere impertinente, in questo. Vorrei avere il coraggio di continuare a esserlo... per provare a lasciare a chi verrà dopo di noi un punto di vista. La realtà non è solo quella che racconto io. Il nostro è solo uno dei tanti punti di vista.


Prossimi progetti?

Sto scrivendo un nuovo spettacolo, tratto da una trilogia tragica di Eschilo, uno dei capisaldi della nostra letteratura mondiale. Mi sto confrontando con il mito di Oreste. L’ambizione sarebbe parlare di questo mito come pretesto per parlare dell’eterno conflitto tra Oriente e Occidente. Tutto ambientato in una famiglia, sempre Sud, dialetto...

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