“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 21 October 2015 00:00

Il teatro, la lingua, questa città. Intervista a Latella

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Napoli, 13 ottobre 2015.
Dopo oltre tre anni dal primissimo debutto al Napoli Teatro Festival del 2012, la riscrittura visionaria della Sceneggiata C’è del pianto in queste lacrime torna allo Stabile. A un paio d’ore dalla prima, incontro Antonio Latella nel foyer del San Ferdinando. Seduti di fronte alle teche con i costumi di scena di Eduardo, Scarpetta e Viviani, ha inizio una lunga chiacchierata.


Bentornato!

Grazie. (sorride)


Iniziamo da C’è del pianto in queste lacrime. Come nacque il lavoro e cosa è cambiato dopo tre anni dal primo debutto?

È partito da tantissime cose. Una era il bisogno di confrontarmi con qualcosa che mi apparteneva e che mi faceva anche arrabbiare. Devi sapere che per noi emigranti la Sceneggiata era onnipresente, a Natale le nostre famiglie l’ascoltavano tantissimo, soprattutto Mario Merola. Per noi bambini era difficile capire l’attaccamento dei nostri genitori. Ricordo che mio padre amava soprattutto Lacreme napulitane e Lo zappatore. Questo è un motivo privato ma anche qualcosa con cui dovevo confrontarmi, prima o poi. Avendo più volte lavorato a Napoli, ho sentito il bisogno di farlo, ovviamente tenendo uno sguardo critico. Non solo la parte struggente della Sceneggiata, sentita soprattutto da quelli che vanno via da Napoli e sentono qualcosa che magari coloro che vivono qua non sentono. Ma anche altro: la Sceneggiata racconta di malefatte che vengono sempre giustificate, prendere la pistola e sparare. Il fatto che uno si vendicasse da solo all’epoca [in cui le Sceneggiate andavano in scena] era applaudito. Questa è una parte che io ho mai accettato ed è uno dei fattori che mi ha portato a fare un’analisi su questo lavoro.
Ritornarci a distanza di tre anni ha comportato un distacco emotivo che all’epoca del primo debutto non avevo, perché ero troppo coinvolto da una serie di vicissitudini successe a Napoli. Non c’era né il distacco né l’ironia necessaria per potere essere lontani da questo materiale. Sono passati tre anni e devo dire che mi piace più oggi che prima: secondo me oggi ha raggiunto l’obiettivo, è più vicino a quello che io volevo dire. Forse, allora era troppo presto, avevo ceduto a delle facilità, cose che in questa edizione ho tolto per rendere più efficace soprattutto il secondo atto che per me era importante fosse più duro, più diretto. Si tratta di un materiale che è totalmente nel mio corpo, sia a livello emotivo che razionale, da cui non mi posso distaccare. Mi rendo conto che a tratti è una critica anche violenta, però è anche vero che è un po’ quello che è successo. Lo vedi anche nel napoletano stesso, questa meravigliosa lingua che poi Eduardo ha trasformato nella lingua napoletana, oggi ha perso questa bellezza, oggi la lingua dei quartieri è molto primitiva. Per noi era importante fare anche questo viaggio nella lingua e oggi questa cosa è più chiara rispetto alla prima edizione.


Per quanto riguarda la scrittura, tu e Linda [Dalisi] come avete lavorato?

Ovviamente, il lavoro grosso l’ha fatto Linda, cui devo moltissimo. Io non parlo napoletano ma nelle orecchie ho delle sonorità: le parti scritte da me sono dei suoni che poi Linda ha trasformato in parole. È stato veramente un corpo a corpo, non saprei dirti quali sono le cose scritte da lei e da me oggi, il lavoro è molto organico. La mia necessità era sicuramente più privata, la sua invece è proprio un lavoro fantastico sulla lingua, in alcuni momenti è alta, poi nelle ossessioni e nelle ripetizioni perde la bellezza e diventa più violenta, volgare. La chiave di svolta è stato “scimmiottare” un po’ l’andatura dell’Amleto di Shakespeare. Questo ci ha fatto entrare ancora di più in sintonia.


In questi tre anni, in mezzo c’è passato Natale in Casa Cupiello, che probabilmente era già contenuto nel lavoro sulla Sceneggiata…

In realtà Natale era sempre stato pensato come la seconda tappa di questo lavoro sulla lingua napoletana. Eduardo scrisse prima il secondo atto, nato proprio sotto le luci della Sceneggiata. È stato fondamentale che abbia sentito, negli anni, il bisogno di scrivere la prima parte e la terza parte, portando Natale in casa Cupiello a qualcosa di grande. Era importante, per me, passare per Eduardo perché proprio lui ha ucciso questo genere, o meglio, ha preferito mettere su carta il dramma e lasciare poco spazio alla recitazione a braccio e all’improvvisazione col pubblico. Lui ha fatto un lavoro da autore, neanche da drammaturgo, ma da grande autore qual è. Credo che sia stato quello che veramente ha definitivamente chiuso con questo genere.


Parlando di uccisioni, nel finale dello spettacolo viene esplicitata la necessità di effettuare un turn over, se vogliamo generazionale, anche violento, e più volte si parla di madre come “malattia”…

La questione della madre riguarda la lingua, ma anche questa città che, se non sei sano di tuo, ti distrugge: ti fagocita, ti corrode. Napoli ha sentito il bisogno di creare questo genere [la Sceneggiata] che non ha dei veri natali, è un genere inventato, anche per una questione economica. Nello stesso tempo era – passami il termine – pornograficamente popolare, andava a toccare dei sentimenti che facevano leva soprattutto sulla povera gente; la borghesia andava a vedere le reazioni del pubblico, per loro lo spettacolo era quello. Questo populismo era pericoloso, credo che anche per questo la Sceneggiata sia stata fermata. È anche vero che si tratta dell’unico genere che teneva vivo il rapporto degli emigranti con questa città, soprattutto quelli andati fuori dall’Italia, in America, Svizzera, Germania. Eduardo non si è sostituito a questo perché ha creato altro, ha scritto; nonostante anche lui parli degli ultimi, ha creato il grande dramma napoletano borghese.


La questione dell’emigrazione ti tocca tanto. In C’è del pianto in queste lacrime il figlio si arrabbia davanti alla sceneggiata, mentre il padre piange…

Oggi forse posso piangere anch’io. Allora, non potevo piangere, anzi: mi dava fastidio. Noi eravamo i figli che non potevano capire. La storia ne Lo zappatore del padre che si sacrifica per far studiare il figlio e il figlio non lo riconosce m’infastidiva perché io invece riconosco tantissimo ciò che ha fatto mio padre per permettermi di studiare. Sento che in me c’è un allontanamento. Sono cresciuto nella cultura torinese che è un altro modo di vivere. Senza essere critici, sono due modalità di approccio alla vita completamente diverse. Essere figlio di emigranti oggi mi fa sorridere, ma se pensi a tutto quello che sta succedendo in Europa adesso, viene da dire: ma come può essere che abbiamo dimenticato? Quello che sta succedendo a questi disgraziati, alcuni dei quali magari molto più colti e intelligenti di noi, è un po’ quello che succedeva a noi. Arrivavamo a Torino e non ci affittavano le case. “Non si affitta ai meridionali e ai cani”. Poi andavi a lavoro e trovavi le saponette con scritto “lavati”. Sono cose vere che abbiamo dimenticato, anzi: i figli dei migranti sono ancora più duri dei figli dei torinesi stessi, la povertà è quello che fa più paura. La questione è che magari abbiamo qualche soldino in più ma, in realtà, culturalmente, siamo rimasti poveri.


Forse proprio questo tuo essere qui e altrove ti fa avere uno sguardo diverso. Nel contesto del teatro napoletano, sei uno dei pochi, forse l’unico, ad aver affrontato una serie di discorsi sulla tradizione o, come dici tu, “eredità”.

La questione è diversa: nonostante mi etichettino sempre come regista napoletano, ho uno sguardo completamente diverso. Prima di arrivare a Napoli ho lavorato a Milano, in altre città, poi sono arrivato qui e ne sono felice: Napoli mi ha sempre accolto molto, molto bene. Non mi sono mai sentito un regista napoletano, ma un regista italiano, a trecentosessanta gradi, nella capacità di mettere insieme più livelli dialettici: in questo considero una fortuna essere emigrante. Il fatto di sentire di non appartenere a qualcosa è stato un problema. Arrivato qui, mi sono illuso di avere ritrovato qualcosa, soprattutto per la sonorità, per la lingua che era la stessa che sentivo da piccolo, come se fossi cresciuto qui: ma non è così. Questo l’ho capito lavorando a Napoli. Siamo molto diversi, nel bene e nel male.


C’è anche rabbia, da parte tua.

C’è stata molta rabbia. Adesso c’è un po’ di tenerezza e soprattutto un po’ di cinismo. Non vivo Napoli come una trappola, per me continua a essere un luogo fertile. Non avendo nulla qui, non posso arrabbiarmi. Per arrabbiarti, devi vivere qua. Arrivare, dire quattro cose e poi andarsene, è troppo facile. Incontrare le stesse persone che, dopo che sono passati vent’anni, si lamentano − anche i miei colleghi teatranti − sempre allo stesso modo: questo non lo sopporto più. Penso: se hai deciso di essere figlio di questa città, accettalo. La questione del “c’è del pianto in queste lacrime” che prende in giro “c’è del marcio in Danimarca” di Amleto vuol dire che spesso il napoletano ha le lacrime facili, ma l’attraversamento del dolore del pianto è un’altra cosa. Il dolore è qualcosa di talmente intimo che, se lo attraversi, forse smetti anche di cacciare lacrime, però ti permette veramente di arrivare in zone nuove di te stesso. Se hai voglia di farlo.


Ci siamo lasciati quest’estate al Nest, spazio off a San Giovanni a Teduccio, e ci ritroviamo allo Stabile dove, dopo tre anni di attesa dal debutto al Napoli Teatro Festival del 2012 (il Mercadante era insolvente nei confronti della compagnia stabilemobile) C’è del pianto in queste lacrime è tornato in scena. Differenze tra le due situazioni?

Sono due cose totalmente diverse. Essere stato lì quest’estate mi ha insegnato molto, è stato vivere un’altra Napoli. Ho imparato ad avere meno rabbia e più sofferenza. Lì vedi un bambino che cresce dove si spara, che cammina e gioca in mezzo alla spazzatura, per lui è normale. Mi capita di fare delle discussioni, anche in Germania. Dico: non potete parlare perché non capite com’è terribile, per loro questa è la normalità, non hanno altra possibilità, non l’hanno neanche vista. Per questo è stato importante. Qui [allo Stabile] siamo in un luogo borghese, protetto. Per assurdo, è più difficile fare delle scelte artistiche qui, mentre in uno spazio come il Nest ti è permesso di osare di più. Penso che la ricerca vada portata nelle grandi istituzioni, altrimenti morirà. È troppo consolatorio continuare a recitare in piccoli spazi per quelle dieci persone che ti dicono che sei bravo. Devi accettare anche persone che ti fischiano, altrimenti non dai la possibilità a quelli che vengono dopo di te di crescere. Non che mi senta un santone, semplicemente è ciò che ha contraddistinto il mio percorso. Per me il teatro è il teatro, non c’è problema a passare da un teatro istituzionale a un teatro off. Se sono qui [allo Stabile] vuol dire innanzitutto che mi hanno pagato. Siamo riusciti ad avere ciò che ci spettava di diritto da quattro anni. Questo ha portato la nostra compagnia a una situazione molto difficile, eppure siamo stati in silenzio, abbiamo voluto aspettare. Oggi fare questa Sceneggiata significa dire: ce l’abbiamo fatta. Con rammarico, perché questo è uno spettacolo che tre anni fa era stato visto, chiesto e non abbiamo potuto far girare da soli. Oggi siamo orgogliosi soprattutto di non aver bluffato: la cifra che ci avevano dato l’abbiamo spesa tutta per lo spettacolo, ci abbiamo creduto. Essere qui è molto bello, soprattutto per il lavoro.


Tu lavori molto all’estero. Come vedi la situazione italiana, anche dopo la recente riforma?

La nuova legge è una vera trappola per topi. Avrebbe avuto bisogno di direttori artistici illuminati, essere uno stimolo ad alzare il livello della qualità. Purtroppo invece si sta abbassando perché, per i parametri, gli abbonati, i numeri, le repliche, si è tornato, invece, a un populismo. Ci sono pochissimi direttori artistici che provano a fare qualcosa di diverso, a scapito soprattutto delle giovani compagnie che hanno grande difficoltà a farsi conoscere. La nuova legge prevede che, come Stabile, non puoi coprodurre una compagnia, questo porta ancora di più a una scissione delle compagnie, le distrugge. Al contempo, credo che la legge, visto che non alza il livello degli Stabili, possa alzare il livello delle compagnie. Quest’anno le cose più interessanti sono successe nei festival − Sant’Arcangelo, Festival delle Colline, Festival di Dro – che hanno alzato il livello tenendo un taglio ben preciso, mentre gli scorsi anni capitava di vedere le stesse cose dappertutto. Così dovrebbe fare lo Stabile Nazionale. Il problema sono i direttori che dovrebbero avere il coraggio di portare sui grandi palchi anche i giovani, scommettere, ma seriamente. A volte, teatri importanti chiamano nuovi registi e gli dicono: ti facciamo fare questa regia ma devi farla con l’attore che dico io. Stai scommettendo su di lui o ti stai creando un pacchetto di sicurezza? Questo è quello che, secondo me, i direttori illuminati dovrebbero fare... ci auguriamo. (sorride)


Della situazione napoletana c’è qualcosa che t’ispira?

Sono stato una settimana chiuso in teatro a provare, non ho visto nulla. Sento che c’è un fermento, vedi Pino Carbone, Benedetto Sicca. Questa città continua a mordere. Altrove è più facile: per esempio, a Milano hai la critica. Napoli invece vive di una critica locale e difficilmente riesce a vivere di una critica nazionale se non c’è un teatro che lavora per questo.


Prossimi progetti?

In questo momento sto lavorando sul tragico a un corso di specializzazione che sto facendo a Rubiera, alla Corte Ospitale. Sono otto pezzi che debutteranno ad aprile, sarà un lavoro di una ventina di ore su Gli Atridi. In mezzo, c’è sempre un tragico: Edipo che sto preparando per Basilea e dovrebbe debuttare a febbraio.


Per Natale in Casa Cupiello invece dobbiamo aspettare...

Il Natale potrebbe avere vita nel 2016-17. Quest’anno gira Ti regalo la mia morte, Veronika.


Ultima domanda. È vero che Luca De Filippo, dopo la tua versione del Natale in casa Cupiello, vi ha reso la vita un po’ complicata con i diritti d’autore?

Credo che abbia chiesto ciò che normalmente gli spetta. Non è poco, ma è quello che gli spetta. Credo che abbia visto il mio lavoro in video, capisco che non lo possa condividere... giustamente. Credo anche che non lo debba condividere, è uno spostamento molto forte. Penso, però, che sia non un’offesa, ma un grande omaggio, come lo posso fare io, ma è un grande omaggio. Ci sono grandissimi nostri maestri che hanno fatto un teatro meraviglioso di finto realismo e l’hanno fatto talmente bene che noi potremmo fare solo dei cloni. Il tentativo è capire se questa drammaturgia del Novecento può essere anche musa per dei registi che, pur conoscendo la regia del Novecento, provano a fare uno spostamento, magari sbagliando. La scoperta meravigliosa è che il testo comunque vince sempre. Questo dovrebbe far inorgoglire gli eredi: scoprire che il testo di Eduardo vince a una regia − forse brutta − di Antonio Latella, ma vince; che riesce a essere come un grande autore − si può paragonare tranquillamente a Heiner Muller – che riesce comunque a uscirne, a testa alta. Questo per me è qualcosa di strepitoso.

 

 

NB. La fotografia, posta in copertina all'intervista ad Antonio Latella, è opera di Brunella Giolivo

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