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Tuesday, 13 October 2015 00:00

Vincenzo Albano o l'ostinata dedizione al teatro

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In questa intervista ci diamo del “tu” ma, in realtà, io non conosco Vincenzo Albano. Non so quanti anni abbia, dove abiti precisamente, quale sia la sua formazione; non so quale sia il teatro che ama, anche se posso intuirlo, né conosco la teatralità che invece non lo convince o che non gli interessa. Vincenzo lo incontro nei foyer dei teatri napoletani – di solito prima di qualche messinscena proveniente da Sud: Puglia, Calabria, Sicilia – e detengo con lui un rapporto strettamente professionale, quella “giusta distanza” che mi fa recensore di alcune delle opere che ha ospitato e proposto a Salerno. Una volta ho preso – in sua compagnia – un caffè, in vista di un progetto di cui sono stato spettatore. Qualche chiacchiera in attesa dell'inizio di uno spettacolo, un saluto – spesso sbrigativo – subito dopo, quando ho l'esigenza di scappare dal teatro appena visto, portandomene dubbi, suggestioni, gesti e parole.

Scrivo questo per affermare l'unica vera ragione che mi ha portato ad intervistarlo: la stima, dovuta al lavoro che svolge. Una stima dovuta all'ostinazione che mostra, alla chiarezza di idee, alla pazienza e alla passione quasi vocazionale con cui motiva e sostiene ogni tentativo, ogni azzardo, ogni singola scommessa tentata.
Vincenzo non è il solo, naturalmente, ma per me è un simbolo: intervistarlo significa intervistare un operatore teatrale capace, al quale tuttavia manca quel sostegno necessario e concreto che dovrebbe ricevere dalle istituzioni locali, incapaci invece di riconoscerne il merito, incapaci di apprezzarne qualità e quantità dell'impegno ma intervistarlo, in tempi di discutibile riassetto del sistema teatrale italiano, significa intervistare − idealmente − anche il teatrante indipendente, che riesce ad autoprodursi lo spettacolo ma che poi si scontra con un mercato avvelenato da limitazioni e furberie, meschinità danarose, rifiuti d'accesso al credito, impossibilità distributive, sapiente retorica artistico-politica, buona a celare puerilità comportamentali; significa intervistare il critico che – nonostante sappia fare critica – non ha una pagina su cui scrivere o non trova chi investa sulla sua capacità di sguardo e racconto; l'artista che non ha accesso agli uffici dei direttori degli Stabili; il giovane artigiano di scena, al quale non viene riconosciuto il lavoro che ha svolto; la compagnia, a cui si chiede di andare in scena a spese proprie e che − spesso − si vede costretta ad accettare.
In questi giorni di turbinio napoletano, in cui la pseudo riforma voluta da Nastasi e controfirmata da critici ed esperti teatrali spinge alcuni a chiedere alla politica e ai suoi rappresentanti istituzionali nuovi finanziamenti e risorse ulteriori (mentre nulla si dice dei cambiamenti che davvero servirebbero all'assetto teatro-organizzativo della nostra regione), ho scelto perciò di intervistarlo. Perché è uno degli esclusi da un dibattito che dovrebbe invece riguardarlo pienamente: come soggetto proponente ed oggetto di nuove e diverse politiche d'investimento culturale. E perché avverto la necessità di veder attuato un cambio generazionale; perché continuo a credere ancora nel merito, nonostante tutto; perché penso che i suoi sforzi debbano essere conosciuti.
Lascio quindi che sia lui a raccontare la sua storia, i suoi progetti, i suoi timori.


Produzione, coproduzione, ospitalità e distribuzione; rassegne monografiche o dedicate alla nuova drammaturgia meridionale, accompagnate e completate da laboratori teatrali, mostre finalizzate ad integrare e mettere in rapporto le arti, i saperi, gli sguardi. Tutto questo senza usufruire di alcun contributo pubblico: né economico, né logistico. Ti va di raccontare ai lettori de Il Pickwick questi progetti, queste esperienze, questa fatica, questa ostinazione?
L’associazione Erre Teatro, che ho fondato a fine 2012 a Salerno, è cresciuta sulle ceneri dei miei anni romani al fianco di Maurizio Scaparro, fondamentali per le responsabilità operative e gli incontri, ma al tempo stesso illusori per le prospettive che mi sembrava stessero finalmente delineando. Risponde – a tre anni da quel congedo – alla più completa desolazione che ne è conseguita ed oggi mi permette di coltivare ancora una speranza. Sentivo necessaria questa premessa perché Erre Teatro è intanto il mio spazio interiore, gratuito per fortuna, visto che mi è capitato di pagare perfino le mura nude e crude. Nel tempo spero matureranno condizioni diverse di ascolto, anche per poter lavorare in modo più continuativo e strutturato; qualche segnale c’è, e lo sottolineo doverosamente, ma nel frattempo ho quella speranza da tenere in vita e mi impegno a cercare anche altri modi per farlo. Così è stato sin dall’inizio, quando ho costituito una prima cassa grazie alla vendita di alcuni effetti personali e a piccole donazioni di parenti e amici (una sorta di crowdfunding “casereccio”); così è anche oggi, aiutato dalla fiducia del pubblico e da piccole sponsorship cui sottopongo, con alterne fortune, i risultati raggiunti. L’alternativa sarebbe rinunciare, e non è il momento, o andare via, ma averlo fatto già tante volte non ha prodotto mio malgrado grandi risultati (l’ultima è valsa addirittura un rocambolesco ritorno). Insomma, una prospettiva provo a costruirmela io dal basso. Poi si vedrà.
È in corso una mia “piccola” proposta teatrale (mi riferisco alla II edizione di "Per voce sola", con le presenze di Daniele Timpano, Tindaro Granata, Rosario Palazzolo e Leonardo Capuano), che fa seguito all’esperienza di "GEOgrafie", sotto la cui egida ho ospitato a Salerno quattro Compagnie calabresi, on air e on stage, per conoscere ancora meglio − e far conoscere − la creatività autentica di quegli universi regionali, provinciali e microurbani, che si dibattono tra miserie, griglie burocratiche e superbe nobiltà. Credo che questo progetto abbia interessanti possibilità di crescita e mi piacerebbe poter coinvolgere anche l’editoria.
Farò in modo di poter chiudere il 2015 con "Teatrografie III". Dopo l’edizione 2013 interamente dedicata a Francesco Silvestri (a completamento tra l’altro delle mie ricerche sulla sua drammaturgia, sostenute da Antonia Lezza e pubblicate − con il titolo ... E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri − da Dante&Descartes per il Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo) e dopo quella 2014 condivisa con Spiro Scimone e Francesco Sframeli, proverò ad ospitare a Salerno il teatro di Tino Caspanello.


Napoli e la sua moltitudine di grandi e medio-piccole o piccolissime sale; Caserta, con i suoi luoghi d’avanguardia, a variare l’offerta teatrale tradizionale; Benevento ed i suoi fuochi d’arte che resistono; Avellino, tra commercialità e nuove o vecchie avventure indipendenti che nascono o perseverano. E Salerno? Come descriveresti la realtà – pubblica e privata – del teatro (prodotto ed ospitato) a Salerno? Quali potenzialità? Quali mancanze?
Nella tua domanda, una risposta istintiva. Spazi e relative programmazioni. È indubbio che a Salerno manchi la progettualità delle medio/piccole sale che abitualmente frequentiamo o delle quali monitoriamo le vicende; è altrettanto indubbio, sempre a Salerno, che molte di queste sono chiuse ormai da decenni (né se ne provano ad aprire altre, e cito con gioia il “Progetto d’Arte” del gruppo Vernicefresca di Avellino). Al trascorrere del tempo resistono solo le mura del Piccolo Teatro del Giullare, grazie anche alle cure dell’attuale gestione, ma una svolta davvero incisiva è un percorso tutto ancora da compiere. Detto questo, se consideriamo anche l’attività comico-dilettantistica del Teatro Arbostella, quella “di quartiere” del Teatro La Mennola e quella un po’ più strutturata del Teatro La Ribalta, c’è davvero poca alternativa alla “tradizione”, qualità ovviamente a parte, sia in inverno che in estate.
Perse ultimamente le interessanti edizioni di “Out of Bound/ drammaturgie fuori confine” a cura di Officina Teatrale LAAV al Teatro Genovesi (sede a sua volta del Festival “Teatro XS” – riservato a gruppi non professionisti – a cura della Compagnia dell’Eclissi); perse altre belle avventure che nel tempo hanno provato a tracciare una parabola diversa rispetto allo stato di fatto. Teatri Sospesi, delizioso salottino teatrale nella zona orientale della città, è tra le ultime nate ed è tutta da incoraggiare. A proposito di “avventure”, definirei tale a tutti gli effetti l’apostolato teatrale via A3 (Napoli-Salerno) in atto della dependance Antonio Ghirelli (con tanto di parco). Non per ultimo, mentre si attendono i contenuti di Teatro Pubblico Campano per la sala ex Diana (restituita alla città in tutta la sua bellezza polivalente), ai “dominus” ci si rivolge anche per gli spettacoli al Teatro Verdi, al Teatro Nuovo “salernitano” e al Teatro delle Arti. Ecco la topografia cittadina in breve.
Diverso il discorso sulla produzione artistica salernitana, che ora come ora trovo più sensato considerare come censimento di singole risorse, comprese quelle che si sono allontanate per scelta o necessità. Tante, validissime. Dico però una cosa, rimanendo in città; se è vero che la delega costante fa appassire ogni germoglio; se è vero altrettanto che “è tutta colpa della politica” o “della amatorialità”, inviterei anche ad un po’ di autocritica. Noi, diciamo, addetti ai lavori? Premesso che la “salernitanità” che sventoliamo non ci dà né deve dare alcun diritto a priori – semmai è un valore aggiunto alle capacità e ai fatti − io vedo, da un lato, la memoria storica della città guardare troppo i suoi tempi andati (tra l’altro, tranne qualche eccezione, a teatro non l’ho mai vista); dall’altro, le “affinità” di oggi (termine che preferisco a quello troppo abusato di “rete”) poco coordinate e disponibili al dialogo, ciascuno con le rispettive identità. Ma anche qui, la letteratura del “proprio orticello” è vasta. Dico anche un’altra cosa; ci sono derive assolutamente diseducative, soprattutto ad opera di chi cura la formazione propedeutica dei ragazzi (in città abbonda la pratica), perché in anni conto sulle dita di una mano gli allievi presenti in platea. In riferimento alla letteratura di cui sopra, credo che anche questo non sia sano. Incuriosire e formare un nuovo pubblico è doveroso.


Francesco Silvestri e Spiro Scimone; Saverio La Ruina, Mimmo Borrelli, la nuova parola, diversamente calabrese, di Saverio Tavano e Lorenzo Praticò, Carlo Gallo e Rosario Mastrota. Se negli ultimi decenni il teatro under italiano è stato soprattutto corpi, mondi, materie – per citare la Valentini – tu hai invece posto attenzione alla drammaturgia, alla capacità di generare storia e racconto. Da dove nasce e di quali ragioni si nutre questa tua passione per la scrittura di scena?
Per la “parola” direi, anche muta e affabulata, che non è necessariamente plot, racconto. “Punctum” mi verrebbe da dire, citando Roland Barthes, ovvero quel dettaglio che ti colpisce, in cui puoi riconoscerti e che ti predispone all’ascolto, allo “stare”. È qualcosa cui cui ti abbandoni, cui ti concedi o a cui concedi spazio per “succedere dentro”, prima di tutto. È l’espressione individuale che diventa relazione, moto, slancio (più che azione), già dalla pagina scritta; che arriva al lettore (e allo spettatore) in maniera meravigliosamente umana. Credo nella compiutezza ed autonomia del testo e parlerei di disponibilità alla sua traduzione scenica, che non è verifica della parola stessa, piuttosto traccia di un suo percorso possibile.
In questa direzione, senza dubbio, ravvedo anche il “nuovo”. Mi riferisco ai risultati “fruibili” o comunque “decriptabili” proporzionalmente alla nostra capacità di meravigliarci, di abbandonarci appunto. Mai comunque perentori o didascalici.


In maniera diretta ti chiedo: cosa pensi della “riforma” del teatro?
Non credo sia il caso di chiamarla riforma. Mi pare sia più un aggiornamento di regolamenti e nomenclature che tradisce le stesse dinamiche del passato. Forse sarebbe bastata una verifica più capillare e severa sull’uso improprio di denaro pubblico. Molte risorse sottratte agli sprechi, agli usi privatistici e al “mercato delle vacche” avrebbero dato slancio vitale a quella straordinaria e moderna tessitura artistica fatta di piccoli spazi e piccole ensemble; quante di queste risorse si sarebbero potute reinvestire per favorire l’occupazione e l’impresa creativa; quante anche per ricucire uno strappo evidente con il pubblico e ritrovare il senso di una partecipazione attiva, del tutto smarrita; quante superbe nobiltà si sarebbero potute ridimensionare, quante inutili produzioni cancellare.
Esistono già abbondanti analisi degli algoritmi ministeriali, opinioni qualificate e doverosa cronaca. Orienterei il mio ragionamento su quanto tutto questo tradisca un’idea di teatro ancora troppo passatista e su quanta di questa letteratura (mi si passi il termine) ha senso per una generazione che il teatro ha dovuto da sempre rincorrerlo e farlo in altro modo, alla quale si è sempre raccontata la favola della sua morte o della mancanza di denaro. Quanti predicano bene e razzolano male. Sono onestamente stanco di molta retorica. Un ragionamento complessivo dovrebbe considerare anche tutto quanto arriva grazie ai progetti europei e altre forme di finanziamento, pubblico o privato che sia. Non mi sento quindi in dovere di combattere battaglie altrui. Guardo le mie e quelle di chi come me cerca di cogliere con ottimismo le sfide che il futuro riserva. Il problema del teatro non è la riforma, il FUS; al rinnovamento non servono bandi under 35 (che magari chiedono ai gruppi pure una quota economica per andare in scena), ma un cambio di mentalità. Quanto teatro può rivelarsi in nuove abitudini.


Hai preso parola ad una recente riunione tenutasi al Teatro Area Nord, finalizzata alla conoscenza reciproca ed al confronto tra gli spazi teatrali indipendenti della Campania: operatore senza una propria sala, organizzatore che non ha un teatro ma un’idea di teatro che va affermata, condivisa, diffusa. Quanto è difficile ottenere un tuo luogo, quali sono gli impedimenti concreti, che tipo di ostacoli hai trovato e cosa o chi ti impedisce – a fronte delle risposte ottenute dalle rassegne cui hai dato vita – di ottenere la gestione e l’amministrazione continuativa di un palco?
L’idea di uno spazio gironzola nelle mie fantasie, ma finora non l’ho realmente avallata. Il vero impedimento è questa decisione non ancora presa, forse perchè l’esigenza che sento prioritaria è quella di avere “braccia” che aiutino le mie. Ho della mia l’appoggio prezioso di Claudia Bonasi e Antonio Dura, mediapartner delle mie iniziative con il magazine Pura Cultura; il confronto sollecito e quotidiano con Emanuela Ferrauto; l’intraprendenza e la pragmaticità di Stefania Tirone, ma è un punto di partenza. Mi dibatto troppo spesso in assoli, tra competenze diversissime (alcune delle quali non di mia diretta conoscenza) e disponibilità episodiche accordate dagli amici (per fortuna, ma fin quando?). Devo intanto rimediare a questa condizione che definirei acrobatica. La ricerca di un luogo troverebbe l’incoraggiamento necessario ed Erre Teatro − indubbiamente − vedrebbe rafforzata la sua identità o comunque la sua possibilità di attivarsi, ad oggi troppo frammentata. Considera che le monografie cui do vita, al netto di ogni aspetto artistico, trovano ragione anche nella necessità di dare un “taglio” a proposte che esauriscono il loro ciclo vitale in massimo quattro appuntamenti. Vorrei poter accogliere istanze e sollecitazioni; vorrei poter creare collaborazioni virtuose, dialogare di più con spazi e operatori che ovviamente programmano con tempi diversi dai miei, ma al momento non è possibile. Credo però che il lavoro svolto abbia gettato solide basi, in attesa di futuri scenari.


L’università e la collaborazione di giornalisti, dottorandi, ricercatori; l’uso della radio del campus di Fisciano e le mostre d’accompagnamento e d’integrazione agli spettacoli; i docenti, i critici. Sempre più mi sembra tu stia puntando sulla relazione delle competenze, sull’integrazione delle professionalità. Ti chiedo allora quale compito possono svolgere – non solo a Salerno – le cattedre teatrali e quale, invece, immagini sia oggi il ruolo e la funzione della critica?
Parlavamo prima di scrittura, di possibili percorsi della “parola”. Mi stimola molto l’idea che di un testo si possa fare esperienza reale e condivisa. C’è una dimensione indipendente dalla messinscena che mi incuriosisce scovare con l’aiuto di altre sensibilità (competenze a parte). In quali altre “grafie” − spesso mi chiedo − possono tradursi le parole scritte per il teatro? E quando dico “grafie” non intendo solo i segni visivi, legati cioè direttamente all’immagine, ma tutte le suggestioni che le parole scrivono nella nostra mente, nei nostri sensi, nella nostra fantasia. Mi interessa il percorso creativo che la parola compie verso il palcoscenico, ma anche quello che la stessa compie nella mente del lettore, stimolandolo in maniera soggettiva. In occasione di "GEOgrafie/La Calabria", ad esempio, anche grazie all’interessamento del Prof. Alfonso Amendola (Sociologia degli audiovisivi sperimentali e Sociologia dei processi comunicativi), ho affidato i lavori di Tavano, Praticò, Gallo e Mastrota (protagonisti dell’edizione) a quattro diverse sensibilità (Emanuela Ferrauto, Vincenzo Del Gaudio, Grazia d’Arienzo ed Elio Goka), chiamate non tanto ad una testimonianza, ma ad un’esplorazione del testo in diretta radio, coordinata da Davide Speranza e Laura Cuomo e condivisa in studio con gli stessi artisti. 'Unisound', webradio universitaria, mi ha permesso quindi di aprire un canale “on air” e di raggiungere ascoltatori diversissimi tra loro per età e interessi.
Esplorazioni, traduzioni di una suggestione, di una “lettura”, sono state le fotografie di Adele Filomena e il cortometraggio di Teatri Sospesi sulla parola di Spiro Scimone, ma anche la pittura di Bonaventura Giordano dal teatro di Silvestri. Mi interessavano due cose: mettere in relazione le persone e i loro sguardi (Adele per esempio ha donato gli scatti a Spiro) e non ridurre questo rapporto alla mera fruizione in platea. È una modalità trasversale di fruizione e di educazione al teatro – non solo di analisi e testimonianza – che anche la critica e le cattedre, con i relativi strumenti, potrebbero affiancare. È partecipazione attiva, sollecitazione che eredito in buona parte dai miei anni di studentato e collaborazione con la Cattedra di Letteratura Teatrale Italiana della Prof.ssa Antonia Lezza, una presenza costante ed affettuosa.


Maurizio Scaparro. Francesco Silvestri. Tino Caspanello. Tre nomi per tre momenti della tua formazione, della tua crescita, del tuo (mutevole) rapporto con il teatro. Posso chiederti di descrivere queste relazioni artistiche, collaborazioni o vicinanze?
Maurizio mi ha dato un’opportunità concreta. La sua convocazione, dopo due anni dal nostro primo incontro a Venezia, fu provvidenziale. Avevo deciso di “mollare”, tant’è che al cellulare mi trovò intento ad esercitarmi per un concorso. Ribaltò completamente quella prospettiva, nel giro di una settimana. Era luglio 2010. Arriva sempre il momento di salutare il proprio Maestro, è fisiologico, ed io non faccio mistero del rammarico per averlo dovuto fare dopo soli tre anni, nel momento in cui avevo più bisogno di proseguire, ma gli sarò sempre grato di una promessa mantenuta. Me la fece alla Biennale Teatro, quando durante un suo seminario ebbi modo di dirgli che volevo fare l’organizzatore. Mi disse che se ne sarebbe ricordato e l’ha fatto, a dispetto del tempo e del silenzio intercorso a seguire.
Maurizio ha dato spazio alle mie attitudini da subito, ne ha incoraggiate nuove a me ignote; chiesto sempre il mio parere e dato corso ad esso in più di un’occasione. Mi ha lasciato fare e soprattutto guardato fare, alla pari, senza mai pesantezza o giudizio di sorta. Mi sono sentito sempre libero, anche di sbagliare, di non nascondere le mie lacune o “immaturità”. La sua guida è stata leggera, ironica, straordinariamente giocosa. Come lui del resto.
Conosco Francesco da dieci anni. Il teatro era tutto in quella caffettiera pronta al primo pomeriggio, quando lo raggiungevo a Santa Maria La Nova per la mia intervista. Per mesi l’ho raggiunto. Dico però soprattutto una cosa. Il teatro, con Francesco, era tutto in quel registratore che mi chiedeva di spegnere. Se mi chiedi di lui non posso che dirti d’aver imparato a prendere la giusta distanza dal teatro, da alcune sue dinamiche. È qualcosa di autentico che va oltre la competenza specifica e che porta in dono gli umori della vita.
Tino lo conosco da poco. Se è vero che l’istinto lega subito le persone, devo dire che con noi ha fatto un ottimo lavoro. Non ci sono collaborazioni professionali, non posso dire nulla in questo senso, ma i pensieri che mettiamo in relazione li avverto meravigliosamente lenti. Ecco, trovo uno dei punti di contatto nella “lentezza”, che è poi un approccio interiore che ti predispone all’ascolto del mondo e al silenzio. In fondo, Mari


Infine. Hai paura di non farcela? Hai paura di essere costretto a mollare, di non poter o volere proseguire con quest’impegno volontario, autofinanziato, resistenziale? E cosa – invece – ti dà forza, cosa ti spinge a continuare, ad insistere, a progettare ancora e di nuovo?
È un’ipotesi che oggi vivo con serenità. Ciò che mi dà forza e mi induce a proseguire è proprio l’averla messa in conto, senza drammi o fallimenti. Qualche anno fa non ti avrei risposto così. Oggi che le rinunce presentano il loro conto, e al danno anche la beffa d’aver visto crollare in sequenza molti miei castelli, mi accorgo di avere tra le mani – grazie anche ad Erre Teatro – la libertà preziosissima di poter abbattere l’ultimo rimasto in piedi. Ma per mano mia.

 

 

 


NB.
Le immagini delle opere a corredo dell'articolo sono di Francesco Silvestri, sono proprietà privata, sono state gentilmente concesse dall'autore per questa intervista e sono coperte da copyright (©FrancescoSilvestri). Ne è dunque rigorosamente vietata la loro riproduzione, parziale o completa, in qualsiasi formato.
titoli opere nelle immagini Adolescenza; Primi alberi; Salomè prima; Salomè dopo; Loro; Busto 1; Volto 2; Donna triste; Busto 4; Bacio 2; Io; Ancora io.
immagine di copertina Ancora io (part.)

 

 

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