“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 09 October 2015 00:00

Taranto, stArt up e dintorni – 3

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Terza giornata tarantina, che comincia all’insegna del rapporto col territorio e con un confronto performativo proprio con quell’elemento del paesaggio locale che ne caratterizza e ne condiziona la vita: l’ILVA. Il sabato mattina, di buon’ora ci vede spostare da Taranto alla volta di Massafra; il percorso dell’autobus però s’arricchisce di un’opportunità “turistica” in più, ovvero la visione da vicino – con tanto di commento al microfono dell’autobus da simil-guida turistica – dello stabilimento dell’ILVA.

Il pubblico viaggiante è spiazzato, più che inconsapevole e a malapena si rende conto della performance in corso, cui partecipano, mimetizzati (forse sin troppo affinché tutti possano accorgersi della loro presenza) tra i passeggeri tre interpreti: un presunto lavoratore dello stabilimento che viene raccattato a bordo come se dovesse tornare a casa dopo il turno di notte e due signore che abborracciano un entusiasmo da turiste stupite al cospetto delle “meraviglie” che si parano davanti ai loro occhi. La voce della guida è incerta, come di chi stia improvvisando senza saper bene dove voglia andare a parare e si diffonde in spiegazioni semplicistiche di ciò che è visibile dai vetri del bus: i guard-rail su cui si deposita la polvere rossa, sedimento di risulta delle lavorazioni dell’acciaio, i pini e gli eucalipti piantati tutt’intorno a creare vano e surrettizio argine alle esalazioni mefitiche, alberi dal fusto rachitico che sembrano chiedere mercede d’una violazione perpetrata contro la natura di quei luoghi. Questo Industrial Grand Tour, che pure sarebbe potuto essere un’idea performativa valida, alla riprova dei fatti si rivela un esperimento frettoloso, non sostenuto da una struttura sufficientemente salda, rabberciato in una forma vaga e incompiuta, che finisce per inficiare ed isterilire anche la portata sociale di tale operazione.
La performance termina con l’arrivo a Massafra, il cui Teatro Comunale, piccolo ma grazioso, ospita Gramsci, Antonio detto Nino: quella che in principio potrebbe sembrare una semplice e statica orazione civile, si rivela invece essere una messinscena densa e profonda, “costretta” in un immobilismo ricercato, quasi Fabrizio Saccomanno – unico attore in scena – fosse lì fermo, seduto in centro palco a volerci far percepire la difficoltà di un corpo, quello di Antonio Gramsci, “costretto” da tormenti fisici che l’accompagnarono sin dall’infanzia. Chiuso in un pastrano come intirizzito dal male descritto nel suo svilupparsi negandogli la fanciullezza, rendendogli difficile persino la scuola; stretto nelle spalle, lo sguardo basso, le mani sulle cosce; le gambe che tremano, i piedi incrociati, il movimento, quasi impercettibile, delle dita delle mani che si contorcono, come di chi fa fatica anche a gesticolare; tutti questi dettagli fanno del corpo statico di Fabrizio Saccomanno, che progressivamente si stinge ancor di più nel suo paltò, il racconto dinamico di un’anima sofferente, vista nel privato umano di un vissuto arduo, del quale l’esperienza politica è sfondo, significativo ma non segnatamente precipuo.
Le due fasi, quella pubblica e quella privata, culminano nel carcere e nelle lettere che Gramsci scrisse. Qui vengono recitate quelle più intime, scritte ai propri cari, alla moglie, ai figli, alla madre, toccando le corde della delicata umanità dell’uomo, prim’ancora che lo spessore politico del personaggio. Sparpagliate all’intorno man man che vengono lette, le lettere, mentre ai piedi giace una rosa, quella che ricorre nella lettera del 22 aprile del 1929 è raccontata vizza e che i Radiodervish cantano metaforicamente ravvivata (La rosa di Turi).
Nel finale poi c’è una totale variazione di registro, un ribaltamento che sposta la narrazione sul versate del teatro, l’orazione civile in apologo metaforico; la stessa staticità che aveva contraddistinto la prima parte, si trasforma in una mobilità ed in una gestualità più accentuate, nel raccontare sotto forma di apologo il disincanto e la disillusione che sottendono alla storia di Gramsci, di Antonio detto Nino, raccontato uomo, per l’occasione diventato teatro.
Il tempo dell’applauso è quello che ci separa dal ritorno all’autobus, dal ritorno a Taranto per un altro spettacolo a cui assistere: La beatitudine di Fibre Parallele. Il gruppo barese conferma la costante crescita drammaturgica anche se, rispetto ai precedenti lavori, in questo non manca qualche momento non del tutto convincente, come il deflagrare di una violenza a tratti troppo artefatta e il ricorso ad un finale di maniera. Nel mezzo però c’è tanta sostanza teatrale, a cominciare dal gioco dichiarato in esergo della duplicità teatro/vita, realtà/finzione, che vede La beatitudine confondere e sovrapporre i piani, con la vita e il teatro che sfumano i loro contorni confluendo nella cifra espressiva grottesca di Fibre, nel loro linguaggio della scena che porta in scena la vita, che la dipinge con pennellate iperboliche, in un apparato scenografico rosso scuro, che s’avvale di un disegno luci ragguardevole, come fosse un narratore interno alla scena stessa.
Non c’è più in assito una umanità “bassa”, com’era stato in precedenti drammaturgie di Fibre Parallele, ma c’è la bassezza degli istinti di un’umanità usuale, fotografata in tre focus compresenti: una coppia che ha alle spalle la devastazione di un aborto, il sogno di una maternità trasformata in un incubo, surrogato da un manichino fanciullo sul quale convogliare istinti frustrati e recriminazioni reciproche; una anziana madre con un figlio disabile, alle prese con beghe condominiali e difficoltà interrelazionali; e infine, sullo sfondo e defilato, la figura chiave del mago ciarlatano Cosma Damiano, emblematica incarnazione del deus ex machina cui fideisticamente greggi di disperazione umana si rivolgono alla ricerca di taumaturgica salvazione, ricorso alla fandonia per ingannare la realtà. La scena è costantemente occupata e condivisa dai diversi fuochi di visione, cui il gioco delle luci conferisce orchestrazione progressiva. L’abiezione come deriva verso cui procedono i rapporti umani viene raccontata con quel tratto ormai caratteristico della compagnia barese che scandaglia il torbido recondito, quel retrobottega degli orrori e delle meschinità che spesso non vogliamo vedere, né vogliamo che ci sia raccontato; eppure ci è speculare, come sono speculari le figure di donna (Licia Lanera e Lucia Zotti) che si fronteggiano svestite, specchio diacronico di generazioni accomunate dal desiderio frustrato, da realtà subite come cappe d’asfissia.
Quando i due fuochi di visione s’intersecano e si sovrappongono risulta palese la complementarità delle vicende messe in assito: le affezioni dell’essere umano sono trasversali, sono speculari, sono intrecci di vite perpendicolari, vite di una quotidianità che può apparire “disturbante” ma che non può essere rimossa. La scena per Fibre Parallele è ancora una volta uno specchio deformante, che assume la distorsione del reale e la trasforma, attraverso la finzione, in paradosso sublimato. La beatitudine del titolo è un anelito effimero cui tendono vite neglette, esseri che aspirano ad un momento di riscatto, ottenuto bramando il piacere, la gioia, l’estasi – fossero anche effimeri lampi di un istante – che le proprie esistenze non hanno saputo conoscere e che vorrebbero surrogare in un momento altro strappato alla sorte canaglia che li imprigiona (la maternità negata, la disabilità, la vecchiaia fatta di frustrazioni). Ed è, la beatitudine desiderata, destinata a scemare, così come scompare dal fondale su cui era impressa per iscritto, mentre la voce di Rino Gaetano canta l‘omonima canzone, confusa con gli applausi.
Al Teatro TatÀ va poi in scena La volontà. Frammenti per Simone Weil, che vuole essere una delicata elegia testimoniale della vita di una donna morta sola, cui s’inventa su scena un testimone, un angelo custode, nastro magnetico da impressionare ad imperitura memoria di un’esperienza di vita. È l’attraversamento di un secolo (il Novecento, o meglio il suo primo scorcio), fatto di voli e sospensioni, come quelli che vedono i corpi in scena agganciati e sospesi ad un cavo elastico, in volo sulla storia, attraverso la storia e la vita di chi la ha abitata, di chi l’ha fatta, di chi ci si è interrogato. Ma l’elegia, dai toni accorati, è poggiata su una partitura verbosa, che al di là di una simbologia scenica vagamente allusiva (i giacigli sparsi sulla scena, effigi di un dolore personale e dei dolori di tutti) e di una presenza attoriale notevole – con la sorprendente rivelazione della prova di Catia Caramia – finisce per denunciare nel complesso una prolissità eccessiva. Probabile che un approccio molto concettuale, ancorché minuzioso e filologicamente valido, abbia finito per condizionare la messinscena, rendendola accessoria al testo.
Di qui la natura frammentaria, che pur dichiarata nel titolo, non affranca La volontà da un proprio limite struturale. 

 

 

NB. In appendice i due precedenti reportage tarantini:
Michele Di Donato, Taranto, stArt up e dintorni −1 (Il Pickwick, 05.10.2015)
Michele Di Donato, Taranto, stArt up e dintorni −2 (Il Pickwick, 07.10.2015)

 

 

 

 

 

stArt up Teatro
Industrial Grand Tour (studio)
performance di
Isabella Mongelli
assistente alla realizzazione Antonello Greco
lingua italiano
durata 30’
Taranto-Massafra, Interno Bus GT, 26 settembre 2015

 

Puglia Showcase
Gramsci, Antonio detto Nino
di
Francesco Niccolini, Fabrizio Saccomanno
regia Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno
consulenza scientifica Maria Luisa Righi (Fondazione Gramsci)
foto di scena Alberto Caroppo
produzione Thalassia
con la collaborazione di Carcere di Turi, Festival Collinarea (Lari), I Cantieri dell’Immaginario (L’Aquila), L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Thalassia – Residenza Memoria migrante di Mesagne
lingua italiano
durata 1h 15’
Massafra (TA), Teatro Comunale, 26 settembre 2015


Puglia Showcase
La beatitudine
di Licia Lanera, Riccardo Spagnulo
drammaturgia Riccardo Spagnulo
regia e spazio Licia Lanera
con Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Riccardo Spagnulo, Lucia Zotti
luci Vincent Longuemare
costumi Luigi Spezzacatene
assistente alla regia Ilaria Martinelli
tecnico di palco Amedeo Russi
foto di scena Rosaria Pastoressa
produzione Fibre Parallele
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, Co&MaSoc. Coop. Costing e management
con il sostegno di Consorzio Teatri di Bari – Nuovo Teatro Abeliano
lingua italiano
durata 1h 10’
Taranto, Teatro Orfeo, 26 settembre 2015

stArt up Teatro
La volontà – frammenti per Simone Weil
drammaturgia e regia
César Brie
con César Brie, Catia Caramia
scene e costumi Giancarlo Gentilucci
musiche originali Pablo Brie
luci Daniela Vespa
assistenti alla regia Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Vera Dalla Pasqua
consulenza tecnica e macchinistica Sergio Taddei, Stefano Ronconi, Nevio Semprini, Matteo Fiorini, Gianluca Bolla
foto di scena Paolo Porto
produzione Campo Teatrale/César Brie
lingua italiano
durata1h 10’
Taranto, Teatro TatÀ, 26 settembre 2015

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