“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 20 February 2013 11:59

L'arte come pharmakon. Fabio Imperiale e Stefano Parisio Perrotti

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L’arte è anche un mestiere, c’è ben poco da fare. Ma dire questo è dire nulla, in realtà. Il problema sta proprio in quell’“anche”, se proprio volessimo fare riflessione spicciola. Ma cosa si intende per mestiere? C’è l’artigianalità dell’artista vecchia maniera, cioè l’artista chiuso nel suo laboratorio, che incontra e si scontra con i materiali, che si sporca le mani, che lavora nell’officina della sua creazione, c’è poi l’intellettualità della rappresentazione di una pura idea mentale, come nell’arte concettuale, cioè il lavorare su una determinata relazione concettuale, sulle forme e sulla riduzione, c’è poi anche la serialità ossessiva delle forme d’arte più contemporanee (se è lecito utilizzare questa espressione) che compresa la tendenza epocale replicano e riproducono un modello, un’idea, figurativa o non, e ne fanno la propria personalissima cifra stilistica e la propria personalissima forma di sopravvivenza economica.

Per cui, nella riflessione che noi andiamo frammentariamente costruendo, anche l’arte a noi contemporanea (forse sarebbe più adeguata la dizione: arte “attuale”, laddove l’attualità è sempre uno scarto rispetto al contemporaneo) è espressione del tempo, della struttura storica (cioè economica) della propria epoca. Per cui i modi di fare arte si scontrano e si incontrano sempre di più con i modi di campare con l’arte. Se l’artista è povero par excellence o almeno così nel nostro immaginario romantico piace immaginarlo, è pur vero che l’artista del XXI secolo deve riuscire a campare del suo “mestiere”, ma campare “oggi” del proprio mestiere significa anche fare determinate scelte stilistiche, in poche parole guida la stessa produzione o “ispirazione” artistica. Tutto ciò ha aiutato a trovare nuove forme di produzione artistica, si va dalla grafica che “riproduce” per sua stessa natura, è seriale a tal punto dal lasciare nell’indistinzione gli antichi concetti di “originale” e “copia”, ma c’è anche il ritorno alle forme classiche, come la “pittura”, che accetta e rinvigorisce il senso della serialità attraverso nuove forme di rappresentazione estetica. Potremmo allora dire che l’arte è un certo modo di vivere il presente, che l’arte è sempre un modo, una forma in cui una determinata struttura storica si rivela o si svela. Almeno questo dovrebbe essere il senso e il significato dell’arte. E allora, nella nostra ricerca, nei taccuini che riempiamo andando di mostra in mostra, l’urgenza di interrogarsi sulle forme d’arte che si producono nel tempo “attuale” ci permette di incontrare artisti e arti che giocano con questa struttura.

È ad esempio il caso di questa mostra duplice.

Passeggiando all’interno delle due forme di rappresentazione artistica che questa esposizione ha messo in scena, si possono notare degli atteggiamenti decisivi e dei giochi prospettici fondamentali. Appena entrati, ci troviamo alla nostra destra le tele di un giovane pittore romano, Fabio Imperiale, che immediatamente impressionano per la capacità da un lato di raccontare “qualcosa”, dall’altro di porsi come una “maniera” matura e riconoscibile di quel racconto. Il tema è la città, le false complicità e i falsi assembramenti, il tema è l’individualismo esasperato di cui facciamo esperienza quotidianamente, il tema è la solitudine liquida (un po’ come la tecnica mista sfumata utilizzata dall’artista che di tanto in tanto sembra colare giù) che racconta ciò che non siamo più o non siamo mai stati, in poche parole la sua “maniera” di concepire il gesto artistico racconta perfettamente ciò che non possiamo non essere, attraverso l’assenza determinate e significativa dei volti, in alcuni casi l’immagine (spesso di stampo fotografico) è proprio “tagliata”, le figure sono rappresentate soltanto fino al busto, i volti sono assenti (come in Le giornate attraversate o Il primo dell’anno) o, come ci dice lo stesso artista, che “se proprio devo rappresentare delle figure intere, le rappresento sempre di spalle”, per cui nelle altre tele campeggiano individui e figure, i cui volti sono irriconoscibili, sfocati, la cui unica tensione è data dal nervoso gesto del pennello che sfuma. E il nostro artista ci confida anche qual è la sua idea di produzione artistica, laddove per “produzione” bisogna intendere proprio le relazioni economiche di mercato, ma questa confidenza non la riveliamo al lettore, perché forse troppo preziosa e troppo disvelante la nostra epoca, forse perché è una delle prime volte che percepiamo l’assoluta sincerità di un’artista “attuale”. Fabio Imperiale è un artista “vero” forse proprio perché parla attraverso la verità del nostro tempo.

Poi stranamente, nel nostro passeggiare, dopo aver attraversato paesaggi e solitudini urbane, compaiono degli strani omini di cartapesta (le opere di Stefano Parisio Perrotti), omini “assoluti” nel senso latino del termine, cioè sciolti da qualsiasi contesto, omini che ironicamente sono gli uomini di oggi e di ogni tempo, omini che, in parole povere, siamo noi, anche io e lei, mio caro lettore, omini insomma impegnati in certe indubbiamente strane attività, omini che ad esempio sono seduti su un bel tappeto di pietre e, con in mano una ben lunga canna da pesca, attendono che qualche pesce abbocchi all’esterno del quadro (quante volte, stanchi della nostra stessa intimità, cerchiamo di pescare qualcosa dall’esterno assoluto, da quell’esterno che ci liberi dal nostro noiosissimo Io?), oppure omini che si sforzano in uno dei più antichi giochi di forza, il tiro alla fune, e che mentre tirano quella fune, il terreno su cui poggiano i piedi (sempre lo stesso tappeto di pietre) va sgretolandosi (ah! il nostro mondo che si sgretola e scomparirà presto, mentre noi siamo intenti a tirare le funi della nostra gloria economica terrena) o, forse uno dei più intensi, quell’omino che è una rappresentazione delicata e ironica, ma profondamente consapevole, della natura umana: si tratta infatti di un omino che di corsa sul solito tappeto di pietre si ritrova con un piede già nel baratro, ma ciò che rende efficace la rappresentazione è proprio il fatto che il cielo è nero, l’abisso è nero e l’omino è nero, come a dire che dal mondo umano non si scappa e che, quando si precipita, si precipita in qualcosa che siamo già sempre noi stessi. Caro lettore, qui si ride amaramente. La tecnica è originale e garbata, tele sulle quali vengono “installate” pietre e conchiglie e questi omini di cartapesta, la purezza formale, la simpatia della rappresentazione, la gradevole riflessione (“stoica” si scherza con l’artista) fanno di queste opere un piccolo godimento per lo sguardo e sono fonte di lievi ironie.

Insomma, l’arte non è soltanto “genio” folle o delirio creativo, o forse non lo è più o lo è soltanto a tratti, l’arte forse è un mito che si rincorre o è un’esigenza di vivere se stessi e la propria misera esistenza, una maniera di sentirsi liberi o di rincorrere i tempi e i luoghi in cui si respirava aria pulita, che Van Gogh abbia tagliato il proprio orecchio o che Caravaggio abbia forse ucciso un uomo, questo è ciò che noi ci aspettiamo da un artista, ci aspettiamo la violenza assoluta del gesto e l’intensità esistenziale, ci aspettiamo che almeno lui ci dica che questa vita vale la pena di essere vissuta e che la morte vale la pena di essere agognata, che il grigiore del nostro lavoro, che la difficoltà di pagare l’affitto, che l’ottusità tecnica del nostro potere, che un’esistenza lasciata nelle mani arbitrarie degli altri possa almeno per qualche istante sfumare in qualcosa di bello, di alto, di puro, ma Andy Warhol che ne sapeva già tanto, forse troppo, aveva già indicato la strada dell’arte contemporanea e della nostra esistenza. Strada dalla quale non si uscirà finché il nostro porco mondo sarà sempre il nostro porco mondo, finché insomma i grandi della terra grufoleranno nella mota del nostro tempo affamato alla ricerca di residui di cibo o di cadaveri umani di cui cibarsi. E allora il passato è una nostra illusione retrospettiva, una nostra patologica deformazione, una terapia al male del presente, ma il passato è un pharmakon, cioè, allo stesso tempo, una medicina e un veleno, perché sì il passato è vissuto da noi “attuali” sempre con lo sguardo malinconico e con quello sguardo che lo rende l’ideale mai raggiungibile del nostro “attuale”, il passato è sì il nostro personalissimo e umano (troppo umano) modo ancora puro di illudersi che siano sempre quelli i tempi (forse mai esistiti) in cui l’uomo era artista perché non poteva farne a meno e che l’immensità dello spirito umano (e non la materialità delle relazioni) abitava le anime dei nostri grandi (ma idealizzati) artisti del passato, ma, finché non distruggeremo sin dalle fondamenta questo mondo, il passato sarà soltanto la nostra personalissima fuga, la nostra più cupa malinconia notturna, il fallimento del nostro essere al mondo, il veleno che fiacca la nostra possibilità d’azione nel qui ed ora dell’“attuale”.

E l’arte veramente “attuale” ci insegna anche questo. A non farci illusioni. E, forse, a combattere per la distruzione del nostro mondo.  

 

Monos
di Fabio Imperiale e Stefano Parisio Perrotti

Galleria Cellamare Internocinquantasei
Napoli, dal 19 febbraio al 19 marzo 2013

 

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