“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 12 April 2015 00:00

Le regole della libertà

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Il sipario rosso è chiuso, il limitare del proscenio è sottolineato da una scritta grigia che sembra scalpellato nel marmo: 'Ospedale Psichiatrico'. Quando il sipario si apre il pubblico già si aspetta ciò che vedrà sul palco: la sala dell’accoglienza diurna a forma circolare del Manicomio di Aversa con un gabbiotto a vetri in secondo piano a destra, due tavoli rotondi con delle sedie a destra e a sinistra, due enormi porte-vetrate ai lati delle quinte, una che conduce verso l’esterno e l’altra all’interno dei reparti. La parte superiore è formata da un corridoio su cui si affacciano delle piccole celle quasi sempre buie: sono i ricoveri dei malati cronici, quelli resi completamente incoscienti da metodi brutali come l’elettroshock e la lobotomia.

Tutto è nella tonalità del grigio come la scritta iniziale, solo pochi sprazzi di colore bianco negli abiti della terribile Suor Lucia (l’attrice Elisabetta Valgoi) e dell’infermiera Spina (Giulia Merelli) e le divise azzurrine dei due inservienti, gli assistenti Esposito e Lorusso (Gabriele Granito e Antimo Casertano). Oltre alla breve apparizione della sgargiante Titty Love, amica del protagonista, l’azzurro e il bianco sono le uniche note di colore fisso anche nella postazione a sinistra, ai margini della vetrata dove campeggia la statua della Madonna di Lourdes fissata su un blocco di marmo. Il primo personaggio a comparire dietro il diaframma per le videografie che separa il proscenio dalla scena vera e propria è un gigante muto e quasi immobile con la sua maglietta bianca e i pantaloni grigi, illuminato da un occhio di bue, pensoso, che vede con gli occhi della sua mente una figura femminile che appare e scompare subito dopo. È Ramon, extracomunitario diventato schiavo e privato della sua libertà di essere uomo, che farà da trait d'union tra le varie scene con le sue proiezioni mentali. Subito dopo entrano in scena gli altri cinque pazienti della struttura, ognuno con la propria bizzarra patologia, ma visti fin da subito come innocui, vulnerabili, resi passivi ed inerti da un rigido sistema di regole imposte da Suor Lucia che crede che la disciplina sia un metodo molto più valido della cura psichiatrica. La muove la convinzione che questi uomini da piccoli abbiano infranto delle regole e che non siano stati puniti, perciò “l’indulgenza di allora è la vostra malattia di oggi”.
Ispirano immediatamente simpatia questi matti messi a contatto con la psiche tagliente della suora: il primo è Muzio di Marco (l’attore Mauro Marino) in perenne vestaglia rossa da signore colto e raffinato che ha represso la sua omosessualità in un matrimonio di facciata che lo ha schiacciato e castrato, poi c’è Fulvio, teneramente appellato come Fulvietto (Daniele Marino), giovane balbuziente, ricurvo anche fisicamente su se stesso, anche lui castrato da una figura materna dominante ed oppressiva che lo ha reso incapace a tutto. Poi ci sono i tre personaggi più simpaticamente bizzarri: Giacomo Buganè (Marco Cavicchioli) dalla parlata nordica che si fa chiamare dai compagni James, che si muove ondeggiando su se stesso e cammina saltellando solo nei riquadri bianchi del pavimento evitando quelli verdi; Manfredi Delle Donne (Alfredo Angelici) dalla capigliatura e dagli abiti in stile giamaicano che si aggira con una scatola di cartone che per lui è una bomba nucleare pronta a scoppiare, ed infine Adriano Bernardi (Giacomo Rosselli), l’uomo affetto dalla doppia personalità sempre esagitato perché i suoi “io” si confrontano sempre senza sosta. In questo quadro di varia umanità irrompe il protagonista Dario Danise (Daniele Russo), un giovane delinquente cresciuto tra strada e riformatori che, per sfuggire al carcere, finge di essere pazzo. Il giudice lo ha mandato ad Aversa per accertare che la sua malattia sia reale e non dissimulata. L’arrivo di Dario sconvolge gli equilibri esistenti all’interno del gruppo, inizialmente destruttura i ruoli ponendosi come l’anticonformista che toglie con violenza la maschera della loro patologia andando dritto al nucleo del loro dolore e della loro sofferenza. Più per natura e per sentimento che per cultura, Dario legge in ognuno di loro una forma di dolore esistenziale e di inadeguatezza che li ha fatti escludere dalla società contro cui lui stesso lotta e ha lottato, sia pure in forme diverse. Nella loro inermità vede l’uomo reso debole da regole inumane che mirano solo al dominio e alla sopravvivenza del più forte. Ad un certo punto Dario afferma: ”Voi non siete pazzi, siete angosciati”, dal loro dolore e dalla sofferenza che li sovrasta, così il giovane impone con il suo vitalismo nuove “regole” all’interno del gruppo, divertenti, vitali creando un legame affettivo vero ed autentico con ognuno di loro, anche con Ramon che poi tanto sordomuto non era, assurgendo quindi a paladino di una lotta contro un sistema oppressivo e ingiusto che si incarna in Suor Lucia e nel dottor Festa (Giulio F. Janni), succube della personalità della donna. Lo scontro tra Dario e Suor Lucia, che è da intendersi come la vera pazza e disadattata, verrà condotto fino alle estreme conseguenze. Il giovane troverà nel suo sacrificio il riscatto da una vita fino a quel momento condotta senza un senso e i suoi amici vedranno, in quell’immolarsi, rinascere la speranza di essere liberi soprattutto da loro stessi. Le musiche studiate appositamente da Pivio & Aldo De Scalzi, con note di chitarre elettriche, di brevi intermezzi, si sciolgono in un gran finale di archi in crescendo fino all’esplosione finale che si è diretta fino al cuore.
Maurizio de Giovanni nello scrivere la sceneggiatura ha enucleato la storia scritta da Ken Kesey nel 1962 e riscritta per il teatro nel 1971 da Dale Wasserman, da cui poi Milos Forman trasse il celeberrimo film con Jack Nicholson. De Giovanni ha fatto rivivere quella storia creando questa nuova ambientazione collocandola in una realtà vicino alla nostra sia geograficamente che temporalmente, nel 1982. Il tocco artistico, e verrebbe da dire la sua firma unica e riconoscibilissima, si ha quando Dario manifesta la sua passione calcistica nel voler vedere alla televisione la finale della Coppa Del Mondo di Calcio Italia-Germania, vietato dalla suora. Maurizio de Giovanni trasforma la scena in un’esperienza quasi mistica quando tutti i pazienti si troveranno ad immaginare la vittoria che poi realmente è avvenuta con tanto di videoproiezione di alcune scene sul campo verde. Ecco, le videografie. Il regista Alessandro Gassman ne fa spesso uso nei suoi spettacoli al punto da farle diventare un tratto quasi distintivo, ma in questo allestimento sono risultate un poco eccessive e invadenti, eccetto che per la scena prima descritta e per lo splendido e commovente finale dove la proiezione di quanto sta accadendo viene enfatizzata trasformando il tutto quasi nella scena finale di un film in cui Ramon diventa, nelle dimensioni, quasi una sorta di statua “per” la libertà conquistata frantumando il vetro che lo divide dal mondo con la statua della Madonna, fulcro di questo variegato interno. Questo finale emozionante fa ammenda con le eccessive videografie, appunto, e con certe lungaggini della messa in scena. Qui forse si sarebbe richiesto più coraggio ad un regista dallo sguardo lucido e poetico, capace di saper operare tagli e dare prospettive diverse di lettura, ma bisogna aggiungere anche che il testo ben strutturato ed una scelta di attori tutti bravissimi dal primo all’ultimo, hanno dato vita e corpo ad un’opera comunque costruita con perizia e talento. Ancora una particolare riflessione sulla bravura di Daniele Russo, capace finora di interpretare i ruoli più disparati e che qui, a Dario, ha dato accento, movenze, gesti del delinquente arrogante napoletano, senza mai farne una caricatura e senza eccedere nei tratti. Effetto, questo, del talento di Russo e della capacità registica di Alessandro Gassman. Applausi più che meritati.

 

 

 

Qualcuno volò sul nido del cuculo
di Dale Wasserman, dall’omonimo romanzo di Ken Kesey
traduzione Giovanni Lombardo Radice
adattamento Maurizio de Giovanni
regia Alessandro Gassman
con Daniele Russo, Elisabetta Valgoi, Mauro Marino, Marco Cavicchioli, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Giulio Federico Janni, Daniele Marino, Antimo Casertano, Gilberto Gliozzi, Gabriele Granito, Giulia Merelli
scene Gianluca Amodio
costumi Chiara Aversano
disegno luci Marco Palmieri
musiche originali Pivio & Aldo De Scalzi
videografie Marco Schiavoni
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini di Napoli
lingua italiano
durata
2h 45’ 
Napoli, Teatro Bellini, 10 aprile 2015
in scena dal 10 al 19 aprile 2015

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