“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 08 February 2013 04:07

Genio senza tempo. Al di sopra del tempo

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Castel Capuano. Il tribunale della Vicaria vecchia. Sala del Tronetto (o della Regina). Migliaia di chilometri. Più di un centinaio di anni. Un vecchio processo, ormai sepolto dal tempo e dai mutamenti dei tempi, riprende vita in un vecchio tribunale, già regale residenza, ormai privato della sua funzione e in cerca di nuova occupazione.

Oscar Wilde vs Edward Carson. L’accusatore (inizialmente era stato Wilde a citare in giudizio Lord Queensberry) si trasforma in accusato e deve difendersi, difendere il suo essere altro, la legittimità di essere altro rispetto alla società costituita.
La solennità del teatro trasforma gli oggetti scenici in frammenti occasionali di realtà. Qui è la realtà, quanto rimane della realtà del vecchio tribunale, che si fa teatro. In teatro avremmo una quinta, da cui entrano ed escono i personaggi per creare l’illusione dello spazio e del tempo, qui la struttura in legno da cui entra ed esce l’avvocato Carson è realmente la porta da cui entrava il giudice, in nome della solennità della sua funzione.
Il processo a Wilde, celebrato il 3 aprile 1895, riprende vita attraverso le parole degli atti processuali originali. Roberto Azzurro (Oscar Wilde) e Pietro Pignatelli (Edward Carson) si logorano a vicenda, si stuzzicano, tratteggiano due forme irriducibili dell’essere umano, l’individuo e la società.
Cilindro, cappotto con il collo di pelliccia, frac nero, camicia, gilet e cravatta bianchi. Un mazzo di rose verdi, un vistoso anello sulle dita delicate e leziose nei movimenti.
OscarWilde domina la scena, abituato ad essere sempre e comunque protagonista, troppo per il suo tempo, e forse anche per il nostro.
Pose manierate, frasi ad effetto, Roberto Azzurro ci fa ripercorrere con delicatezza, con la levità degna di un aforisma, i punti salienti della vicenda, ci fa godere le battute migliori del processo, perché le problematiche sottese, solo in parte ormai inattuali, continuino a scorrere sotto pelle, dopo che il gusto della risata è dileguato, lasciando lo spunto della riflessione.
Logori i più prossimi paralleli, gli accostamenti alle realtà contemporanee, le analogie e le profonde differenze storicamente e socialmente determinate, resta il genio. Resta il nitore della vicenda e della figura in sé, tratteggiata a tutto tondo, senza edulcorazione e senza apologia, anche se naturalmente non possiamo che parteggiare per Wilde e il suo superbo spirito, contro la grigia normalità dell’avvocato Carson.
Wilde e il suo sorriso tirato, i suoi movimenti affettati, la consapevolezza del suo genio, della non appartenenza a quel tempo, storicamente e socialmente determinato, ma al suo mondo, la sua società, quasi trascendente l’umano. Non ha nessuna voglia e nessun bisogno di essere un uomo rispettabile, come il suo avversario (tra l’altro suo compagno all’epoca degli studi al Trinity College), la sua posizione sociale (imprescindibile nell’Inghilterra dell’epoca, ma anche attuale) e le sue capacità intellettuali gli garantiscono l’esistenza su un piano diverso, autoregolamentato. Genio senza tempo, al di fuori o al di sopra del tempo.
Resta l’uomo vecchio, schiavo del suo desiderio, non più capitano della sua anima. Resta Dorian Gray, il tentativo vampiresco di perpetuare la giovinezza, con ogni mezzo... “Per riavere la mia giovinezza farei di tutto, tranne far ginnastica, alzarmi presto la mattina, diventare un uomo rispettabile”.
Il richiamo alla vecchiaia, l’odiosa vecchiaia (odiosa già ai lirici greci...), il freddo delle carni, è un leit motiv del testo, insieme al dispregio delle convenzioni sociali (possibile, si badi bene, solo perché Wilde ha una posizione sociale tale da permettersi di ammettere alla sua compagnia anche coloro che sono socialmente inferiori). “La giovinezza è un’arte” e come tale viene coltivata e reiterata attraverso la compagnia di giovani uomini, tutti intellettualmente poveri (al pari dei loro coetanei altolocati), ma ricchi di quel valore in sé che è la giovinezza, vivificante come un alito fresco nel fetore della decomposizione dei corpi e delle menti.
Resta ciò che non è detto. Ciò che non emerge dalle cronache del processo. Il silenzio delle donne, oggetti di piacere, mogli compiacenti (anche Wilde ne aveva una), mai soggetti autonomi.

 

 

 

Oscar Wilde, il processo
tratto da Atti Processuali Originali (Unilibro)
a cura di Paolo Orlandelli, Paolo Iorio
progetto e regia Roberto Azzurro
con Roberto Azzurro, Pietro Pignatelli
prodotto da Ortensia T
lingua italiano
durata 45'
Napoli, Castel Capuano-Sala del Tronetto (o della Regina), 7 febbraio 2013
in scena 7 febbraio 2013 (data unica)

 

 

 

 

 

 

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