“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 07 December 2014 00:00

Bologna Violenta: "Siamo polvere su ciò che c'è già stato"

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I temi dell’emergenza espressiva, del mercato indipendente, dell’approccio del pubblico a ciò che musicalmente può essere definito “piccolo”, la consapevolezza degli italiani rispetto a ciò che è musica. Sono questi i temi focali di questa intervista a Nicola Manzan, violinista di levatura classica che con il progetto Bologna Violenta, si dona al Grindcore più estremo e avaro di compromessi. Ma come afferma lo stesso musicista: la battaglia (quella delle realtà indipendenti) non è ancora persa.


Partiamo dal principio. Quando e dove nasce lidea di dar forma a Bologna Violenta?
L’idea nasce in un momento di delusione totale in cui mi sembrava di aver buttato nel cesso anni di studio e di dedizione totale alla musica. Ad un certo punto mi sono ritrovato libero da impegni (dal punto di vista musicale) dopo due anni dedicati ad un progetto morto ancor prima di vedere la luce. Posso dire che di mezzo c’era pure una major e tante promesse e tanti compromessi, troppi, che sapevo non avrebbero portato a risultati soddisfacenti. L’unico risultato tangibile era un senso di fallimento totale, con pochissima voglia di rimettermi in gioco. Però avevo in testa da anni l’idea di fare un disco grindcore, senza compromessi, senza che ci fosse qualcuno che mi dicesse cosa fare e soprattutto come farlo. Da lì ne è uscito il mio primo album (2005) e da allora il progetto è passato dall’essere uno sfogo momentaneo ad un vero e proprio lavoro, nel senso che gran parte della mia vita è ora dedicata al progetto.

Si dice, o forse si diceva, che le cose migliori nascono da un binomio creativo che tende a far scontrare componenti tra loro molto distanti. Nel tuo caso il background di stampo classico ed il Grind. Questa volontà di mettere insieme cose distanti è nata per caso o da una scelta precisa?
Inizio col dire che di base sono d’accordo con te. Però devo anche dire che ci ho messo parecchi anni ad arrivare a questa formula per cui i miei due background più “forti” convivono. È stata una scelta dettata dal tempo, in un certo senso. Quando ho registrato il primo album volevo cercare di far dimenticare il Nicola Manzan violinista, un po’ come se fosse addirittura il contrario di tutto ciò che avevo fatto fino ad allora. Poi, col tempo, ho sentito la vera e propria necessità di mettere anche quell’”altro” Nicola dentro i pezzi, perché sentivo che la mia musica non era completa. Se la mia volontà era quella di rappresentare me stesso in quello che facevo, dovevo farlo pensando soprattutto a quello che mi piaceva ascoltare e suonare, quindi ho distrutto le barriere che avevo in testa, mi sono fatto coraggio ed ho provato a scrivere qualcosa che rappresentasse al meglio la mia natura. Dopo l’esperimento di Utopie e piccole soddisfazioni (terzo album), con l’ultimo Uno Bianca ho deciso che era quella la via da percorrere, ovvero mettere insieme le cose più estreme che ho in testa per creare una sorta di via di mezzo che alla fine mi soddisfa più di qualunque altra cosa abbia fatto fino ad ora.

Nel tuo curriculum puoi vantare un ventaglio di collaborazioni, del panorama indipendente italiano, molto ampio. Sei uno di quei musicisti che arricchisce o che si lascia arricchire?
In genere, chi mi coinvolge nelle registrazioni o negli arrangiamenti di un brano o di un disco vuole un arricchimento della propria musica con strumenti ed atmosfere che altrimenti non potrebbe ottenere da solo. Questo ovviamente è molto bello e mi fa sentire molto orgoglioso. C’è da dire, però, che ho capito fin da subito che se la mia partecipazione fosse stata “attiva” (quindi non un semplice esecutore di idee altrui), avrei avuto la possibilità di imparare molte più cose che non standomene a casa a scrivere brani in completa solitudine. Quindi fin quasi da subito ho capito che qualsiasi registrazione mi avrebbe insegnato qualcosa, arricchendomi moltissimo sotto svariati punti di vista. In definitiva penso che quello che faccio oggi sia il risultato di anni di collaborazioni, di ascolti attenti, di consigli e di critiche. A volte mi trovo a registrare cose che non mi convincono molto, ma sono sempre dell’idea che anche da quello posso imparare qualcosa, se non altro so cosa non vorrò mai sentire nei miei dischi.

Proprio in merito a tali collaborazioni ultimamente hai partecipato, con Bruno Dorella (Ovo, Ronin, Bachi di Pietra), alla esecuzione della riscrittura della colonna sonora di Deserto Rosso di Antonioni ideata dallo stesso Dorella. Sarei curioso di sapere come è andata questa cosa, visto che accompagnavate dal vivo la proiezione.
Quello che è stato fatto, più che una riscrittura della colonna sonora originale, è stata la sonorizzazione del film con temi nuovi creati ad hoc proprio da Bruno con l’aiuto di Cristian Naldi (Ronin, Fulkanelli). Io e gli altri musicisti coinvolti, abbiamo innanzitutto ricevuto i temi che dovevamo sviluppare, poi ci siamo incontrati singolarmente con Bruno per vedere le varie parti del film e decidere insieme la direzione da dare ad ognuna di esse. Ci siamo poi trovati per quattro giorni di prove tutti insieme per lavorare sui dettagli e sul suono generale e ci siamo quindi esibiti. È stata un’esperienza molto bella, devo dire, sia per come è stata gestita da Bruno e gli organizzatori in generale, sia per il risultato ottenuto, che secondo me era quasi al di sopra delle nostre aspettative; quando si fanno queste sonorizzazioni non si sa mai come andrà a finire, ci sono molti aspetti tecnici che possono creare problemi in qualsiasi momento, mentre il concerto è filato liscio ed è stato a tratti molto emozionante.

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere, su un sito americano, un grafico sulla vendita della musica nellera 2.0. Dato per scontato il dato che vedeva i supporti in calo pauroso rispetto alle vendite in digitale. La cosa che più mi ha impressionato, è che la stragrande maggioranza degli ascoltatori ascolta musica in streaming. A questo punto ti chiedo: bisognerebbe rivalutare le presunte potenzialità di network come Bandcamp e Soundcloud?
Personalmente uso molto Bandcamp, molto meno Soundcloud, per una serie di motivi che non sto ad elencare. Il problema maggiore di questo tipo di piattaforme è il fatto che non pagano i diritti d’autore connessi allo streaming. Anche se Youtube o Spotify pagano, lo fanno con cifre a dir poco ridicole (per non dire quasi offensive), quindi penso che siamo ancora abbastanza lontani dal poter dire che si può vivere di solo streaming, quindi senza i supporti fisici. Non che la vendita dei dischi possa rappresentare un grosso guadagno di per sè, ma almeno qualcosa si vede, di sicuro più dello streaming. Quindi posso affermare che, se da un lato le piattaforme da te citate sono importantissime al giorno d’oggi, c’è anche da sottolineare il fatto che non sono comunque al passo coi tempi, perché se lo fossero avrebbero trovato un sistema efficace per dare il giusto compenso a chi fa sì che loro stesse possano esistere. Certo è che prima di Internet le cose erano molto, ma molto più difficili, quindi alla fine evito di lamentarmi troppo e cerco di sfruttare al meglio le possibilità che mi vengono offerte senza star troppo a pensare a chi si può eventualmente arricchire alle mie spalle (per quanto penso che nessuno dei siti citati fino a qui siano coperti d’oro grazie allo streaming della mia musica).

Tornando su Bologna Violenta, come è nata lidea di produrre un album sulle storie della Uno Bianca?
L’idea di fare un disco sulla banda della Uno Bianca nasce prima del progetto Bologna Violenta. Conoscevo la storia perché i telegiornali dell’epoca non parlavano d’altro, perché nella zona di Bologna c’era veramente un’aria di terrore che fino ad allora non si era mai percepita. Quando sono andato a viverci mi sono imbattuto immediatamente in documentari e libri che parlavano della vicenda, quindi ho cominciato ad interessarmene, perché mi intrigava il fatto che la città che io conoscevo per ben altre cose (l’università, la vita notturna e via dicendo) avesse anche dei lati nascosti, spesso molto macabri, che secondo me andavano scoperti o riscoperti, perché la rendevano ancora più interessante e più “vera”. Questo è anche un po’ il motivo per cui ho dato proprio questo nome al progetto, perché volevo che finalmente si parlasse anche di ciò che normalmente veniva omesso o dimenticato, ma che crea anche una visione più completa di quello che è la città stessa.

Stai già lavorando a del materiale nuovo, e se si dal punto di vista musicale, quanto sarà lontano da Uno Bianca?
Sto lavorando al disco nuovo e forse anche ad altre uscite. È diverso da quanto fatto fino ad ora perché sto “usando” un batterista vero, quindi ho molto materiale che mi ha inviato su cui sto costruendo i nuovi pezzi. Saranno da un certo punto di vista molto vicini all’ultimo album, ma sono sotto molti aspetti un ulteriore passo avanti. Forse c’è un po’ meno nichilismo musicale, ma direi che è ancora presto per trarre conclusioni di questo tipo. Ogni pezzo che faccio mi riserva delle sorprese, quindi i giochi sono in gran parte ancora aperti.

LItalia elapproccio del pubblico al mercato indipendente. A tuo modo di vedere questa mancata cura verso il panorama che ha dentro una maggiore emergenza espressiva potrà un giorno finire? E di chi sono le colpe di questa mancata cura riguardo al piccolo?
Finché la grande distribuzione musicale sarà in mano a multinazionali che pensano solo al profitto finale, non ci sarà mai così tanto spazio per gli indipendenti che puntano più all’urgenza espressiva che non alla vendita smisurata di copie. Finché ci sono programmi in tv come X-Factor, la gente “normale” non capirà mai che per diventare grandi musicisti non bastano dei passaggi tv in prima serata. Però c’è anche da dire che ci sono finalmente delle belle realtà indipendenti, magari anche nate da poco, che però grazie ad alcune scelte oculate sono riuscite a crearsi un pubblico giovane, interessato e molto coinvolto. Penso a “fenomeni” come i Fast Animals and Slow Kids, che da quando hanno iniziato non hanno fatto altro che pensare a suonare e a registrare dischi che li rappresentassero al cento per cento, senza pensare ai sacrifici, ai soldi, alle rotture di palle che ha ogni band di questa terra quando è agli inizi, ed ora a distanza di pochi anni riempiono i locali ed hanno un pubblico molto attento e attivo che li segue incondizionatamente.  Quindi ora come ora non so se questa cosa finirà, di sicuro questo periodo non è il migliore neanche per le major (che stanno ormai raschiando il fondo da anni in cerca di denaro facile), ma non mi stupirei se proprio gruppi come i FASK diventassero i futuri “big”, senza però avere la necessità di avere alle spalle qualcuno che fa grossi investimenti, ma costruendo il proprio pubblico suonando il più possibile ed in ogni dove. Poi, forse, il ricambio generazionale farà il suo corso, quindi non so immaginarmi come sarà il mercato discografico tra una decina d’anni.

Riprendendo la domanda precedente, siamo condannati a vedere intere generazioni di musicisti mortificare il proprio estro creativo e a fare cover bands perché il pubblico vuole sentirsi al sicuro con ciò che è mainstream mentre mangia una patatina fritta?
Secondo me il problema è proprio dei musicisti stessi. Non dovrebbero mai mettersi a fare cover band solo per tirare a casa dei soldi facili, in questo modo restano dei semplici esecutori di musica altrui, ma di sicuro non lasceranno un segno nel mondo della musica. Hai perfettamente ragione quando dici che “il pubblico vuole sentirsi al sicuro”, ma sta a noi aver la capacità di far qualcosa che sia almeno interessante e che non faccia star male chi la ascolta (a meno che la cosa non sia voluta, sia chiaro). Non dico di fare musica in funzione del pubblico, ma almeno cercare di fare qualcosa di interessante e soprattutto suonato bene, perché spesso si trovano band che si lamentano del fatto che non riescono a suonare in giro, ma quando poi le senti ti rendi conto che avrebbero bisogno di molte ore in sala prove prima di salire su un qualsiasi palco. Ritengo che ci debba essere un approccio professionale rispetto a quello che si fa, perché per “esprimersi” con uno strumento non è facile, ci vuole tempo e dedizione. Poi, sai, siamo in un Paese in cui in tv vengono ritrasmesse continuamente le stesse cose che vedevano i nostri genitori negli anni Sessanta, in cui le canzoni sono sempre le stesse da decenni, c’è pochissimo interesse a far sentire cose nuove, a far crescere la gente. A volte mi viene da pensare che siamo solo un sottile strato di polvere sopra a tutto ciò che c’è già stato (che rappresenta il “giusto” e il “bello”), ma nonostante tutto ho ancora voglia di continuare e di far sentire la mia musica da più persone possibile, quindi direi che la battaglia non è ancora persa.

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