“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 30 January 2013 06:40

Fecondo lucore

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Officina teatro, spazio che s’apre alle spalle d’una serranda per farsi teatro. A fare teatro, Alessandra Asuni. Ma, quando a “fare teatro” è Alessandra Asuni, questa semplice locuzione, pur conservando tutto il suo potere poietico, s’accresce d’un farsi molteplice che declina in più ambiti, tutti abbracciandoli con densità di  senso trasmessa mediante immagini barbaglianti.

Il “fare teatro” della Asuni è qualcosa che s’imparenta con l’antropologia, che accarezza precordi ancestrali e che si sviluppa in forme e suggestioni più vissute che semplicemente riprodotte sulla scena; anzi, la scena stessa tracima dallo spazio convenzionale per avvolgere l’intorno: la quarta parete non s’abbatte, è annullata a priori.
Questo “fare teatro” si rinnova in Matrici, di Alessandra Asuni e Marina Rippa.
L’avevamo lasciata, Alessandra Asuni, involta nelle nere vesti di “Sa femmina Accabadòra”, ovvero sacerdotessa arcaica e pagana di un rituale di morte; la ritroviamo, Alessandra Asuni, nel candore virginale d’un abito bianco, a celebrare altro rito, liturgia femminina per eccellenza: la maternità. Da un capo all’altro della catena biologica: se l’Accabadòra aiutava il defluir della vita dal mondo, questa volta è materno candore a vestir una donna, luminescente visione di chi la vita la dona.
All’alzarsi della serranda che dà adito all’officina riattata a teatro, vestita di bianco come una sposa, dominante e ritta su di un tavolo, avvolta in un candore che s’intona col lucore che le promana dal viso, la Asuni domina dall’alto, dirige e fa accomodare.
Attorno al tavolo, in cerchio dispone che siano donne ad attorniarla, a ciascuna ella porge una bottiglia e, deterso il tavolo in centro di scena, vi svuota sopra l‘involto che le sporgeva grembo: farina. Principio fecondatore, lievito di vita. Nelle mani sue alacri prende corpo, lievita l’impasto come lievita in grembo di donna un feto che cresce verso la vita. Ogni donna è chiamata ad esser compartecipe, ogni donna versa il proprio obolo d’acqua, ogni donna è grembo, generatrice in potenza. A ciascuna viene chiesto di narrare della propria nascita, in casa, in ospedale, addirittura altrove. Intanto mani sapienti, di donna, plasmano l’acqua con la farina creando forma, sostanza, essenza feconda. La mimesi e l’affabulazione: di nuovo sacerdotessa d’un rituale, ancora custode di un’essenza ancestrale, la donna nelle cui mani prende forma la vita, racconta miti popolati di janas (che letteralmente tradurremmo “fatine”, deprivando però di senso e d’essenza) e genti d’un tempo remoto; il mito si fa simbolo e parabola, il “segreto” del pane donato agli uomini come agli uomini si svela il “segreto” della maternità. Tutto è in natura, bisogna solo assecondare…
Candida nel viso, bianche le vesti, infine anche le mani imbiancate d’impasto; creano forme e per ogni forma c’è una storia, una parcella di mito, commisto nel duale intreccio tra pane e fertilità. Divinità d’un culto remoto, divinità della nascita e del parto, assumono figura in forme di lievito e acqua, fino ad assumere la forma finale, fino a procedere, con naturalità estrema, dal mito al presente: “E questa sono io”, la forma ultima, quella accolta in grembo, stretta al seno e coccolata.
Dal mito al presente, dalla natura – che  in sé contiene, conserva e tramanda con implicita ciclicità il segreto della vita, rinnovandolo nello stampo d’ogni donna – alla violenza indotta che quel segreto vìola, che quello stampo profana: una mascherina asettica, un bisturi ed un forcipe, s’allude al taglio cesareo, lo si simula, lo si evoca… soprattutto lo si esecra, nella sua degenerazione forzosa, nel suo illegittimo sostituirsi al corso naturale del parto, nel suo soppiantare l’empito del generare, la dignità di patire le doglie, di urlare un dolore autentico, di sentire il corpo che si contrae, che spinge, cha ansima e affanna. E infine genera.
E generando rinnova una sacralità innata, ancestrale, rivendica l’autonomia del generare, rigetta l’arbitrio del taglio, “storia cucita male”, ferita che, inferta, lede e non cicatrizza mai del tutto, ferita che, inferta, si cuce dolore nel grembo.
Un fiotto di sangue sporca il tavolo operatorio – quello stesso che era stato piano di panificazione – d’un rivolo sporco di non sopito dolore, che non si placa neanche quando raggruma.
Matrici, il “fare teatro” di Alessandra Asuni, è ancora una volta un barbaglio fecondo di densa bellezza.



 

 

Matrici
di Alessandra Asuni e Marina Rippa
con Alessandra Asuni
elementi scenici Massimo Staich
produzione f. pl. femminile plurale
in collaborazione con le pecore nere
San Leucio (CE), Officina Teatro, 27 gennaio 2013
in scena 27 gennaio 2013 (data unica)

 

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