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Sunday, 05 October 2014 00:00

Lili Refrain: l’estetica dell’ipnosi

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La cosa che più mi affascina dello scrivere di musica è la ricerca. La ricerca di realtà nuove e stimolanti, cose che possano catturare l’attenzione e che si possano fregiare di essere particolari e personali. Non ricordo bene come e quando mi sono imbattuto nel progetto Lili Refrain, ma ricordo con precisione assoluta l’appagamento derivato dagli ascolti di Kawax, ultimo album di questo solo project capitolino.


Chi e cosa è musicalmente Lili Refrain?
Lili Refrain è il progetto solista che ho dal 2007 e in cui suono chitarra elettrica, voce e loop in tempo reale.
Musicalmente si tratta di brani originali scritti ed eseguiti seguendo il criterio della composizione per strati verticali: ogni frase è eseguita dal vivo, registrata all’istante tramite un pedale e rimandata in loop; su ogni frase ne registro un’altra e un’altra ancora, e così via fino a formare l’intero blocco sonoro che forma il mio brano. Non credo ci sia un genere adatto ad identificare la mia musica, di volta in volta scelgo che umore seguire, per quanto riguarda il lato chitarristico ho sicuramente molte influenze metal, blues, folk, psichedeliche e techno, mentre vocalmente uso spesso il registro lirico.

Dopo esserti autodefinita, passiamo all’album Kawax. Questo lavoro è un concentrato di sperimentazione, in particolare dal punto di vista vocale e non nascondo che più di una volta mi ha riportato alla mente i Dead Can Dance. È difficile sperimentare sulla voce; dove iniziano e dove possono finire queste stesse sperimentazioni?
Ti ringrazio moltissimo per il paragone con i Dead Can Dance, anche se non credo di raggiungere le vette di Lisa Gerrard! Prima di Kawax il mio modo di cantare accompagnava le varie chitarre come un sottofondo, in questo ultimo album invece ho cercato di mettermi molto più in gioco dando maggior risalto alla vocalità, forse perché avevo bisogno di raggiungere territori più viscerali e credo che la voce ne sia lo strumento più affine. L’inizio della sperimentazione vocale accomuna ognuno di noi quando proviamo ad emettere suoni per la primissima volta nella vita e probabilmente  finisce quando smettiamo di farlo.

Sperimentazione è andare oltre il limite di ciò che si è già fatto, o è un tornare alla propria autentica forza espressiva senza alcuna preoccupazione legata alla reazione dell’ascoltatore?
Dipende da cosa si intende per “sperimentazione”. Trovo che questo termine attualmente sia spesso fuorviante, soprattutto in ambito musicale. La maggior parte dei musicisti che si ritengono “sperimentali” o che vengono catalogati come tali, magari non fanno altro che riproporre pratiche di un passato dove al contrario c’era stata davvero sperimentazione e ricerca sul suono: dodecafonia, musica concreta, dissonanze, i primi esperimenti elettronici… Stiamo parlando di un secolo fa e di musicisti che senza dubbio avevano un bisogno vitale di esprimere tutta la loro forza andando oltre ogni limite, sperimentando del nuovo al fine di rispecchiare ciò che due guerre mondiali avevano appena sovvertito senza tener conto di conseguenze o reazioni. A mio avviso oggi “sperimentare” ha una valenza un po’ diversa considerando che ora come ora è piuttosto difficile creare qualcosa di totalmente nuovo, che non sia mai stato fatto o detto prima. Per quel che mi riguarda più che sperimentare si possono esplorare varie strade e magari mescolarle, creare dei punti in comune tra cose, concetti, suoni o generi musicali distanti tra loro per esempio. Attuare una ri-creazione… è un po’ come accade in cucina: gli ingredienti sono sempre quelli da millenni, l’arte dello chef è saperli mescolare tra loro rendendoli appetitosi anche in presenza di imprevedibili accostamenti.

Una delle cose che ho notato, ascoltando Kawax è il suo darsi attraverso molti momenti estatici e poco legati a sensazioni sonore fisiche. Una sorta di cura che il suono ha per l’ascoltatore, una cura così magnanima che non lo indirizza ma lo smarrisce. A tal proposito il “dovere” di un musicista è quello di rassicurare o di inquietare?
Wow, le sensazioni che descrivi in merito all’ascolto di questo disco mi fanno sperare che sia un album ben riuscito! Più che rassicurare o inquietare, penso che la musica debba smuovere qualcosa dentro, non importa cosa sia, ma trovo che sia molto bello avvertire quella piccola sommossa dell’animo dopo aver ascoltato o suonato qualcosa. Ho scritto questo album dopo la morte di mio padre, capisci bene che in quel momento non mi sono posta molti problemi su quale fosse o non fosse il mio “dovere” di musicista, mi sono ritrovata a scrivere questi brani perché avevo bisogno di salutarlo e, con lui, di salutare anche qualcosa di me. Se c’è un “dovere” forse quello di un musicista è semplicemente essere sincero.

Mi parli delle collaborazioni presenti all’interno del disco, di come sono nate e sviluppate?
Kawax, come i miei altri due album, è stato registrato all’HombreLobo Studio di Roma insieme al produttore e fonico Valerio Fisik, autentica garanzia in fatto di qualità sonora.
Per la prima volta in un mio disco ho deciso di allargare il viaggio condividendolo anche con altri musicisti e ho avuto il privilegio di collaborare con dei cari amici oltre che con degli eccellenti compositori.
In ordine di apparizione ci sono gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll insieme a Roberto Cippitelli dei Juggernaut che hanno dato vita alle voci maschili del bordone monacense di Tragos.
Valerio Diamanti, fantastico batterista dei Dispo, ha fatto entrare per la prima volta in un mio disco una vera batteria, creando tutta la parte percussiva di Baptism of Fire.
Nicola Manzan aka Bologna Violenta, ha impreziosito Sycomore’s Flames con i suoi meravigliosi e poetici archi.
Riguardo a tutto il lavoro grafico ho collaborato con la straordinaria artista argentina Fernanda Veron che oltre ad aver disegnato la copertina del disco, ha curato anche tutto l’inserto dove ogni brano è raffigurato ad arte da un’illustrazione.

Osservando il panorama musicale nazionale odierno, le produzioni migliori sono quelle che mi piace definire “dal difficile approccio”. Se il dovere della critica è quello di far luce sulle innovazioni, quello dei musicisti è di continuare ad innovare e ad innovarsi? E quanto costa, in termini di sussistenza, restare legati a questa dimensione che non è nata per il facile?
Ma guarda, io non credo che il “difficile approccio” sia automaticamente sinonimo di “innovazione”, forse solo qui in Italia, dove abbiamo un panorama culturale piuttosto lacerato. Credo che chi si occupi di cultura a livello critico debba saper leggere tra le righe di ciò che accade quotidianamente anche e soprattutto a livello socio-politico. Viviamo in un Paese fossilizzato nel suo passato, dove non si investe affatto sulla ricerca o sulla cultura, viviamo nell’unico Paese al mondo ad avere una cosa come la SIAE, che tassa chiunque voglia ospitare musica all’interno di uno spazio, per non parlare della sua classe dirigente e di come siamo sistemati a livello economico! Da come sono messe le cose non mi meraviglia che ci sia una crescente massa di persone che continua ad aggregarsi in modo del tutto indipendente, autogestendosi, autofinanziandosi, autoproducendosi, reinventandosi e rischiando tutto ogni volta. Fare musica in un certo modo e con una certa attitudine è fare anche tutto questo: prendere una posizione, attuare delle scelte, operare una forma costruttiva di resistenza e condividerla con gli altri, è di certo una scelta difficile in termini di sussistenza, ma visto il panorama credo sia anche l’unica possibile per cercare di smuovere qualcosa di migliore rispetto a ciò che abbiamo già.

Lili Refrain e il loop: prescindendo dal suo scopo strettamente funzionale, visto che ti esibisci da sola, cosa dà la riproduzione/ripetizione continua che non può dare un performer in carne ed ossa?
L’ipnosi. La ridondanza agisce in modo psicoattivo esattamente come una droga ma è del tutto innocua e legale.

Quanto è difficile riproporre dal vivo il tuo materiale e che tipo di strumentazione porti con te ogni volta che ti esibisci live?
Ad ogni viaggio porto con me circa cinquantasei chili di cose tra chitarre, pedali, cavi e il vario merchandising, e viaggiando in treno posso assicurarti che non è così semplice, mentre invece disfare il tutto su un palco e suonare è molto meno complesso! Tra l’altro tutto il mio repertorio nasce dal vivo ed è proprio in sede live che i miei brani sono più efficaci.

Lili Refrain e il futuro, se provi a proiettarti come ti vedi?
Mi auguro di avere sempre a che fare con la musica e diventare una simpatica signora con un sacco di storie da raccontare.

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