“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 17 January 2013 19:19

Il pregio e il difetto

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Sedie di legno, tavolini di legno, scrivanie di legno; un giradischi dalla puntina funzionante, una macchina da scrivere turchese, un proiettore vecchio modello; lampade da scrittoio, lampade a parete, lampade da pavimento; antiche figurine giocattolo, un recipiente “per cogliere le fragole nel bosco”, un bicchiere di vetro con dentro del latte; tappeti, tappeti, ancora tappeti; una moto giocattolo, un aspirapolvere rumoroso, maschere e costumi d’animali; un basso mobile a scomparti, un mobile ancora più basso a scomparti, una porta di legno sul fondo e poi valigie e valigie tra bandiere, parrucche, stendardi e scarpe, vesti, una macchina da cucire di acciaio annerito, icone sacre, album di fotografie, vecchi giornali, vecchi fogli, vecchi elenchi. Un giorno tutto questo sarà tuo di Davide Iodice dimostra – con la sua ostentazione materiale – qual è il suo pregio e qual è il suo difetto.

Il pregio. Il racconto dell’Italia dei padri e delle madri – e del tempo dei padri e delle madri – si solleva dal palco per giungere lentamente in platea in forma di suoni, di piccole vibrazioni all’udito che inteneriscono gli animi, coinvolgendo di nostalgia anche chi non ne avrebbe motivo: il ticchettio ferroso dei tasti nel battere a macchina una lettera; il pigolio acuto dell’ago mentre passa e ripassa una stoffa; l’amaro fruscio delle carte ingiallite e indurite dagli anni. Percezioni uditive accompagnano frammenti d’immagini che accennano una raffinata tendenza poetico-visiva: una fanciulla partorisce alle mani e alle caviglie i suoi lacci, il suo corpo è una veste, il suo volto è una maschera: la fanciulla si fa burattino e, burattino tenuto da mano paterna, danza caracollando la testa, fino al taglio necessario dei fili.
Ancora: una madre e una figlia carezzano vecchi giochi trascorsi: figurette di legno colorato, fatte a mano, con cui s’inventavano le storie d’infanzia in un tempo di slogan; un’altra figlia aiuta suo padre – operaio tubista – a liberarsi dalla tuta della fabbrica; la frase “forse non sono come tu mi vuoi” detta da un’altra figlia ancora al padre. Ed ancora: la polvere che si alza a fare nebbia, un chiaroscuro dovuto a fioche luci tra il buio, l’attrezzeria del teatro lasciata volutamente alla vista: cordame, fari, gli spazi nudi ai lati del palco. Sono tessere singole di uno spettacolo che, nel tentare la narrazione storica di un periodo, sceglie la frammentazione memoriale, la diversità dei segni, l’insieme policromo delle sensazioni rimaste.
Il difetto. Il racconto dell’Italia dei padri e delle madri – e del tempo dei padri e delle madri – si solleva dal palco portando in dote un passatismo ideologico non metaforizzato ma esposto: il drappo nero fascista, l’uniforme che marcia, i lampi delle bombe; certe frasi da marcia di popolo, la vaghezza nella resa delle lotte sindacali, la scritta qualunquista a gessetto “Bel Paese di merda”. Voluta evidenza politica, scialba fino a quasi far scomparire del tutto le immagini che ci avevano conquistato. Una bandiera rossa tenta la sua sortita nel mezzo del palco: si alza, cade, si rialza, ricade, non si stacca da terra; la sua asta si spezza, tenta comunque di raggiungere l’alto, s’impunta per cercare il trionfo, finisce per sparire al pavimento. È questo il destino di una Sinistra impossibile? Oppure: siamo al finale dell’opera, le coppie di genitori e figli sono disposte in più punti, la porta sul fondo si apre: entra Carlo Giuliani, o meglio: un attore che mima l’unica immagine resistente di Carlo Giuliani: i pantaloni neri, la canottiera bianca, il passamontagna nero, l’estintore rosso. Passi lenti, lentissimi, dal fondo alla ribalta, poi il crollo. Posta evidentemente in rapporto con l’altra Tragedia Italiana evocata (la bomba che, alle 16:37 del 12 dicembre 1969, sporca di sangue le pareti, i banconi, gli sportelli ed i vetri, le scansie, i piccoli tavoli, le sedie di ferro o di plastica, i gangli delle porte girevoli, gli scalini in muratura della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano), dovrebbe forse mostrare che ogni generazione ha la sua strage (Piazza Fontana per i padri; Piazza Alimonda per i figli) perché padri e figli, madri e figli e fratelli e sorelle, nonni e nipoti, zie e cugini hanno in sorte un’unica Italia, “Bel Paese di merda”?
Facendo incetta ed esposizione di emblematici residui della Storia (“come mai, come mai/ noi non decidiamo mai/ d’ora in poi, d’ora in poi/ decidiamo solo noi”) Davide Iodice non ricorda il tempo furibondo delle possibilità ignote o disilluse bensì fa mostra sacrale di parole d’ordine, di ricorsi consueti, di certezze morali da contesto amorale finendo per rendere la poesia un messaggio ed il messaggio un compito corretto ma grigio.
Svilendo la stoffa misurata coi pollici (“un metro e mezzo, un metro e mezzo, un metro e mezzo”) in una bandiera italiana “venuta un po’ storta” o impoverendo la solidarietà di una costrizione privata (“cominciai a lavorare in banca per dare una mano alla famiglia”) a marchingegno narrativo per giungere al racconto dell’ordigno milanese, lo spettacolo si persuade, progressivo, della propria responsabilità dimostrativa preferendo – all’incanto allusivo e  poetico – lo smercio balbettante di didascalie già sentite.
Per questo l’accumulo materiale – segno tangibile di una tentata sperimentazione visiva – diventa un emporio accalcato in eccesso, un fardello ed un peso piuttosto che il sostegno che servirebbe per il volo.
Se si aggiunge al dispiacere della retorica il dispiacere dei troppi vuoti, degli interstizi fin troppo visibili tra una scena e una scena, delle sovrapposizioni di voci che annullano le voci medesime, se ne conclude che Un giorno tutto questo sarà tuo è una buona occasione perduta.
Progetto di un’opera che sorge da un delicato e assai fragile laboratorio da palco (che ha coinvolto giovani attori ed i loro veritieri genitori), Un giorno tutto questo sarà tuo mostra – ancora – tutta la propria delicatezza, tutta la propria fragilità. E mostra quell’incertezza dolce che è di ogni tentativo sincero che perde la strada dopo averla immaginata chiarissima.
Spettacolo partito alla ricerca delle ore che hanno smarrito il loro orologio, Un giorno tutto questo sarà tuo è giunto ad una bottega ripiena di oggetti. Occorrerà carezzarli ancora, cercarne l’odore, sentirne l’incrinatura più lieve, percepirne davvero la storia perché il passato sia offerto – come un dono e non come un proclama – a chi vivrà il proprio tempo in futuro.

 

 

 

Un giorno tutto questo sarà tuo
drammaturgia e regia Davide Iodice
con Ilenya Caleo e suo padre Paolo, Davide Compagnone e sua madre Anna, Alessandra Fabbri e suo padre Alessandro, Tania Garribba e sua madre Luisa, Stefano Miglio, Mattia Castelli
scene e maschere Tiziano Fario
costumi Enzo Pirozzi
luci Angelo Grieco
suono Diego Iacuz
produzione Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival
residenza creativa presso La Corte Ospitale di Rubiera
durata 1h 20’
Napoli, Teatro San Ferdinando, 16 gennaio 2013
in scena dal 16 al 20 gennaio 2013

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