“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 12 January 2013 15:51

Elegia di naufragi

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Un Ulisse a rovescio: non eroe dal multiforme ingegno, che affronta dei mari la burrasca, proteso al ritorno alla sua Itaca petrosa, ma mezzo mozzo, marginal-man dal deforme contegno, senza un approdo cui anelare, senza una Penelope quantunque modesta sul molo ad aspettare. Costui è "'o Spicchiato", fulcro scenico di Acquasanta.

Acquasanta, ovvero recita per voce sola, quella di Carmine Maringola, pronta a sdoppiarsi nel verso di più personaggi, declinandosi in un dialetto napoletano che è lingua franca per vocazione; Acquasanta, ovvero soprattutto recita per un corpo solo, quello di Carmine Maringola, pronto a piegarsi, snodarsi, contorcersi, flettersi al comando d’invisibile mano di puparo. Sospeso galleggia, marionetta tra i flutti, sartie legate ad ancore in luogo dei fili fanno del mezzo mozzo “’o Spicchiato” – che tradurremmo con “il miope”, sottraendo però all’epiteto quel misto di dileggio e icasticità fondamentali al senso profondo della definizione – un’essenza umana in balìa del turbinare degli elementi e del prevaricare dei superiori in grado. Sul suo capo aleggia e penzola un tempo dilatato ma inesorabile, che egli sulle prime sembra in grado se non di gestire, quanto meno di regolare a suo piacimento. Ma non è che la prima delle illusioni. Illusioni ulteriori provengono dalla vista, le lenti, il suo essere “cecato” che lo porta a dire che negli occhiali è concentrata tutta la sua saggezza. La sua è un’odissea della memoria, lucida anamnesi di un folle; disgustoso, repellente nei suoi abiti laceri e lerci, nel suo schiumar saliva e saliva ancora sputacchiare all’intorno, “’o Spicchiato” ripercorre a ritroso il suo rapporto con il mare, amante fedele che l’accoglie come amniotico ricetto fra le sue braccia, equorea placenta: imbarcato adolescente, ha veduto il mondo attraverso quei suoi occhiali resi opachi dalla salsedine, le cui incrostazioni non gli hanno però impedito di possedere il mondo stesso nel suo sguardo, portandolo a rifuggire dalla terraferma, ricettacolo di inganni ed illusioni (e in ciò suggerisce un’analogia piuttosto evidente con Novecento, il pianista che Tornatore aveva confinato in una leggenda in mezzo all’oceano, trasfondendo in immagine filmica il monologo di Baricco).

“‘O Spicchiato” diffida di quella terra in cui non c’è mai alcuno a salutarlo quando salpa, in cui nessuno è mai lì ad attenderne il ritorno; è un reietto, un disadattato, ma in grado dalla sua specola di osservatore “esterno” di osservare con lucidità un mondo che s’allontana facendosi piccino, minuscolo in confronto al mare e all’infinito. L’illusione di “’o Spicchiato” è come sospesa, la sua (in)coscienza di emarginato lo trasforma in un essere ipercosciente, capace di scrutare il mondo dal punto di vista privilegiato d’un occhio puro, capace da miope di farsi ipermetrope, come se “’o Spicchiato”, mezzo mozzo, tutto sozzo, mezzo scemo, tutto matto, si fosse issato di vedetta in cima all’albero maestro e avesse inforcato un cannocchiale dai vetri lucidi e tersi, attraverso il quale più vivida e reale l’umanità mesta gli appare.

Il mare è la sua casa, il suo universo, il suo unico eterno amore; il solo sentimento del tempo lo riconduce alla realtà dell’abbandono (trillano i timer), restituendolo alla coscienza d'esser stato lasciato lì, in totale balìa del mare, estrema ingiuria patita da parte dell'equipaggio della nave su cui era imbarcato; solo il mare, oggetto di culto decantato come in poetica elegia, continua a non negargli il suo abbraccio ed egli gli si abbandona cantando Indifferentemente (“famme chell’ che vuo’”); l’abbraccio al mare, all’Acquasanta, è l’abbraccio alla propria sorte.

Drammaturgia che affascina, quella firmata da Emma Dante, che fa leva su un linguaggio esuberante ed una fisicità d’attore – quella di un Carmine Maringola ammirevole per elasticità ginnica e verbale – a tratti debordante, che sfonda la quarta parete, più e più volte squarciata, come da una falla a babordo, nell’allocuzione diretta del protagonista al pubblico, irrorando le prime file di fiotti d’acqua e infine rimanendo in scena, a spettacolo terminato, senza uscir dalla parte.

Tempo e sguardo i due cardini attorno a cui ruotano le evoluzioni di una folle marionetta, poeticamente lucida, follemente lirica.

 

Acquasanta

testo e regia Emma Dante

con Carmine Maringola

produzione Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Stabile di Napoli, CRT Centro di Ricerca per il Teatro

con il sostegno di Théâtre du Rond Point

luci Cristina Fresia

foto Giuseppe Di Stefano

lingua napoletano

durata 50'

Napoli, Galleria Toledo, 10 gennaio 2013

in scena dal 10 al 20 gennaio 2013

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