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Wednesday, 26 February 2014 00:00

Il Teatro fotografato. Intervista a Vittorio Matrisciano di Olvidado Photo Studio

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Il punto di partenza di questa intervista potrebbe essere un racconto o meglio: un racconto di sé e del proprio lavoro. Per i lettori de Il Pickwick: chi è Vittorio Matrisciano e quando comincia a fotografare la scena?
Mi chiedete chi è Vittorio Matrisciano ma, più che parlare di me, preferirei parlare del progetto che, insieme alla mia compagna Gabriella Nugnes, abbiamo voluto fortemente e parlando del progetto si arriva a capire anche come si è arrivati sulle scene.
Vivendo in una città come Napoli, dove i drammi e le commedie quotidiane vengono accentuati e vissuti in modo totalmente unico, partimmo col fotografare le scene di vita della città, delle persone e dei luoghi “dimenticati” dai più ed ecco il perché ci chiamiamo “olvidado”, traduzione in spagnolo di “Dimenticato”. Spesso ci hanno chiesto perché lo abbiamo tradotto in spagnolo, beh, la risposta è semplice: abbiamo voluto riportare alla luce la natura spagnola della città, anch’essa dimenticata. Così nel 2008 nacque Olvidado Photographers, spagnolo e inglese fusi insieme, proprio come son fuse le diverse culture che creano Napoli, nel 2012 aprimmo Olvidado Photo Studio.

Dopo una premessa così, vien da pensare che arrivare a scattare in scena sia una normale evoluzione delle cose, ma non è così. Nella ricerca dei generi fotografici che animano l’Arte, sentivamo che ci mancava qualcosa, volevamo sperimentare ancora e così, quasi per gioco iniziammo a chiedere gli accrediti agli spettacoli, cercando di fondere il nostro modo di vedere le cose con la fotografia di scena. Sperimentando e creando, abbiamo sempre cercato di realizzare delle fotografie che non siano il raccontare lo spettacolo, ma che imprigionassero la passione dei protagonisti.

Il Teatro vive al presente e si disfa col suo stesso accadere. La fotografia coglie l’istante e lo fissa, in duratura continuità. Secondo te quale è il rapporto tra teatro e fotografia e qual è il rapporto – soprattutto – che tu che tu cerchi di stabilire con uno spettacolo, le sue scenografie ed i suoi interpreti, con la sua trama e un suo frammento?
Silvio D’Amico diceva che le pellicole fotografiche non sono teatro, non sono teatro perché una volta realizzate, sono sempre identiche e potranno essere proiettate tutte le volte che si vorrà, sempre identiche, inalterabili e insensibili alla presenza di chi le vedrà. D’Amico parlava del cinema, ma molte persone adattano questo concetto anche alla fotografia, riducendola al semplice istante fissato nel tempo. A nostro avviso la fotografia può accorrere in aiuto al teatro, fissando ancor di più, nella mente dello spettatore, le scene della rappresentazione.
Recitare significa citare due volte, la fotografia cita due volte anch’essa, lo abbiamo riscontrato anche durante la mostra che abbiamo fatto a Officina Teatro di Caserta, il pubblico ha visto le foto sia prima che dopo la messinscena. La prima volta le ha apprezzate per il lato tecnico e quello visivo, la seconda volta, ne ha apprezzato l’intensità dell’attimo fermato, ripercorrendo col pensiero ciò che avevano appena visto, rivivendo le stesse emozioni.
La mostra non era statica, ma era viva e in continuo mutamento, le fotografie non erano marginalmente raccolte sulle pareti, ma fluttuavano tra le persone, che hanno avuto modo di viverle, toccarle, ogni foto riportava un pezzo dei dialoghi, insomma le fotografie recitavano lo spettacolo anche dopo la fine dello stesso.
Anticamente si diceva che la fotografia rubasse l’anima della persona ritratta, noi vogliamo imprigionare l’anima dello spettacolo, vogliamo fermare l’intensità della passione dei protagonisti. Per ottenere ciò ci sottoponiamo ad un full immersion nello spettacolo, studiandolo prima a tavolino, poi vedendo le generali, parlando con gli attori, sia come persone che come personaggi e alla fine scattiamo. 

Quando e come nasce il tuo rapporto con Vucciria Teatro? E quando è nata di una mostra che accompagni la messinscena teatrale?
Subito dopo la rappresentazione dei Vucciria alla rassegna Stazioni d’Emergenza di Galleria Toledo di Napoli, abbiamo iniziato a sentirci per l’invio degli scatti, da cosa nasce cosa, parlando uscivano idee che poi pian piano diventavano concetti per poi trasformarsi in progetti. Così è nata la mostra che accompagna la messinscena teatrale, complici anche le immagini che son piaciute moltissimo a Joele, Enrico e Federica. Parlando con i ragazzi, abbiamo scelto le foto, solo dodici scatti, accompagnati dai testi ed infine abbiamo allestito la mostra nel foyer di Officina Teatro di San Leucio, che ci ha supportato.

Cosa ritieni di aver colto e fermato di Io mai niente con nessuno avevo fatto (spettacolo vincitore di Stazioni di Emergenza 2013)? E quali sono state, nello specifico, le difficoltà e le sorprese nel guardare lo spettacolo dall’obiettivo?
I temi dello spettacolo sono forti, cosa volevamo cogliere e fermare? Abbiamo voluto fermare l’ignoranza, la chiusura mentale, i pregiudizi e la superficialità dell’essere umano, accentuando le zone nere, che per noi rappresentano l’oscurità dell’animo della società odierna, lasciando che i personaggi spicchino in zone di luce, come un urlo nella notte, un urlo nell’indifferenza dei benpensanti, un urlo di denuncia: “La diversità esiste solo negli occhi di chi guarda”… Qualsiasi diversità.

Se potessi raccontare le foto che hai scattato ai lettori di quest’intervista quali parole useresti?
Rispondo usando un pezzo, da me scritto, che accompagna la mostra: "Su di un palcoscenico illuminato solo da una luce, sono stati messi a nudo i lati più oscuri dell’animo umano, una rappresentazione drammatica, violenta e brutale, diretta e vera dell’ignoranza e dell’incoscienza, uno spettacolo duro come sono duri i temi, duro come sono duri i pregiudizi, duro e violento come l’urlo 'ricchiò'". Ecco, le nostre foto sono questo: un pugno nello stomaco dii chi fa finta di non vedere, di chi si nasconde dietro ad un laconico “Io, Mai…”.

La mostra delle immagini di Io mai niente con nessuno avevo fatto è da considerarsi un atto unico o la prima di nuove e diverse mostre sul teatro reso per fotografia?
“ Io, Mai...” non è un atto unico ci sono progetti, qualcuno in fase embrionale, altri già in crescita, ma non sarà un atto unico. Posso anticiparti che con i Vucciria stiamo lavorando a un libro, e un libro che riguarda i concerti è già in stato avanzato; insomma c’è ancora tanto nel calderone. Certo, se avessimo uno sponsor che potesse aiutare, le cose andrebbero più speditamente.

Negli scorsi anni – ed in diversi articoli – alcuni importanti critici teatrali si sono lamentati della presenza “sonora” dei fotografi, durante le prime. I loro spostamenti, il click della macchina, i ripetuti scatti che pizzicano le battute attoriali. Quanto è importante l’invisibilità e la discrezione del fotografo e come si riesce a conciliare il diritto a svolgere il proprio lavoro col diritto al silenzio di chi siede in platea?
Scattare durante la rappresentazione, significa cogliere l’emozione e la passione degli interpreti, cosa che non si riesce a cogliere durante le prove generali. Sarebbe come dire ad un fotografo di cerimonie di scattare le foto agli sposi solo nelle prove, tanto il prete c’è gli sposi pure, si ma manca l’emozione, l’emozione di trovarsi a stretto contatto con la platea, l’emozione di sentire il suo respiro. Nelle prove generali ci si può sbizzarrire a creare le immagini che poi serviranno per le copertine, per le cartelle stampa ed altro, ma per le foto che siano veramente parte integrante dello spettacolo, le si può realizzare solo durante la rappresentazione vera.
Scattare in scena significa anche limitarsi al realizzare gli scatti degli attimi più pregni di pathos, per evitare di recare disturbo agli spettatori, deconcentrandoli dalla rappresentazione. Per scattare in teatro, non solo bisogna muoversi in silenzio, ma usare un abbigliamento che ti confonda con il buio della platea.
Per il rumore dello specchio, il classico click, beh, lì non possiamo farci nulla, le macchine reflex hanno lo specchio che si muove e genera il rumore, possiamo cercare di limitarlo utilizzando degli accorgimenti, ma eliminarlo non è possibile, sarebbe come dire ad un critico di non far rumore con i tasti del pc mentre scrive la sua recensione.

Accompagnare lo spettacolo con istantanee dello spettacolo, far precedere il teatro che sarà visto dal teatro che il fotografo ha già veduto. Esporre, quindi, in un teatro permettendo allo spettatore uno sguardo diverso, uno sguardo ulteriore.
Quanto – secondo te – uno spettacolo ha da guadagnare dalla presenza delle foto nel foyer; quanto ha da guadagnarci lo spettatore?
Se le foto nel foyer sono parte integrante del pubblico che aspetta, non sono rilegate in una teca abbandonata su di un muro e sono solo pochi scatti di punti chiave, beh, ciò può solo acuire la curiosità dello spettatore. Vedere teche piene di fotografie, ma distanti e distaccate dal pubblico, certamente non fa bene ne allo spettacolo ne al fotografo.

Infine. Quello teatrale è un settore nel quale – sovente – alla professionalità non corrisponde professionalizzazione, al lavoro non segue salario. Uffici stampa, attori e registi, scenografi, critici teatrali motivano la gratuità con la passione, in attesa (forse) di tempi migliori. Vale anche per i fotografi di scena? Quale la condizione professionale di un fotografo? Quali le modalità di formazione, di crescita, di affermazione lavorativa?
Purtroppo vale anche per i fotografi e non solo quelli di scena.
Spesso ci si ritrova a trattare con enti e individui che ti chiedono un lavoro gratuito, giustificando la richiesta nascosti dietro associazioni senza scopo di lucro o in cambio di visibilità, dimenticando che il “senza scopo di lucro”, vuol dire che tra ingressi ed uscite si deve avere il pareggio, appunto senza lucrare, non senza pagare.
La visibilità può darmela anche un social network gratuito; invece si travisa e si adatta il tutto solo per evitare di "sborsare" denaro ma poi, a ben vedere, sono le stesse persone alle quali, se gli chiedi di fare una mostra, ti chiedono cifre altissime.
Se ho scelto di fare il fotografo è perché ho passione per la fotografia, ma la passione da sola non ti fa pagare le bollette. I fotografi di scena, come tutti gli altri, spendono fior di quattrini per aggiornarsi, per comprare le ottiche, per revisionare le macchine e tenerle sempre efficienti e, poi, ci sono le tasse da pagare e certamente tutto ciò non lo puoi fare se ti offrono solo pubblicità o motivando con la passione: l’Enel vuole contanti, il negozio di obiettivi vuole contanti, Equitalia vuole contanti.
Sabato prossimo provate ad entrare in un locale e chiedere un drink promettendogli “visibilità”, vedrete come vi risponderanno.
Affermarsi professionalmente significa lavorare sodo, combattendo con chi non ha una posizione fiscale, con chi s’improvvisa e con chi vuole senza dare, per sopravvivere si devono abbracciare anche altri campi lavorativi, che ti permettono di pagare le bollette, ma che ti tolgono tempo e forze per quello che realmente vorresti fare. Questo meccanismo mette in gioco altri procedimenti: ecco, allora, che il fotografo “di scena” fa anche le cerimonie, ma questo spesso diventa un arma a doppio taglio, perché trovi il probabile cliente che storce il naso, pensando che ti stia offrendo in un settore che non ti confà.
Insomma, per sopravvivere devo correre il rischio di passare per quello che fa tante cose e che forse non ne sappia fare neanche una.
Possiamo concludere dicendo che la gratuità, o la pretesa di essa, uccide la professionalità e svilisce il professionista.
Sarò stato troppo diretto, ma è esattamente quello che succede.

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