Si tratta, per lo spettatore non troppo esperto di raffinate pratiche concettuali e minimali, di una esposizione, di un’artista, di un modo di concepire la ricerca che lascia assolutamente esterrefatti e così, proprio leggendo i commenti sulle labbra di spettatori che davano l’idea di non essere comunque del tutto a digiuno di arte, e cercando di lavorare dalla loro prospettiva, ci siamo calati in questa non facile impresa, di discutere l’arte di Sol LeWitt, senza necessariamente fare gli intellettuali – oggi ne abbiamo fin sopra i capelli di questa attività – e cercando di coglierne l’aspetto non soltanto teor(et)ico ma anche emozionale.
Ovviamente non ci siamo riusciti.
In realtà, l’esposizione, congegnata bene e che permette di seguire gli sviluppi di tutta l’esperienza artistica del creativo e che fa entrare letteralmente nel suo mondo anche attraverso l’esposizione di alcuni importanti pezzi della sua collezione di opere di contemporanei e amici, è giocata tutta sul lavoro concettuale dell’artista. Si tratta di analizzare la maniera attraverso la quale Sol LeWitt ha potuto percepire (ad esempio) l’influenza degli esperimenti di Muybridge, per intenderci colui che riuscì a montare fotografie di un cavallo in movimento in maniera tale da rendere l’idea del movimento – in poche parole uno dei tanti fotografi (stanchi della stasi pittorica della fotografia) che hanno precorso il cinema e, non sapendolo, hanno prodotto materiali per enormi lavori concettuali posteriori; oppure come Sol LeWitt fosse un appassionato della fotografia di Blossfeldt e Sanders che lavoravano sui soggetti, da piante a esseri umani, in maniera estremamente pura dal punto di vista della rappresentazione, spesso negando la stessa presenza dello sfondo e giocando dunque sulla struttura formale dell’immagine.
Certo, è difficile, quando ci si confronta con l’opera di Sol LeWitt, cercare di non pensare a tutta la sua ricerca, di non pensare ai lavori sulle strutture, le forme e le dimensioni o a tutto il suo percorso che lo ha portato dalla bidimensionalità del foglio o della tela alla ricerca della tridimensionalità e dunque alle sue “strutture modulari” (come Hanging complex form 1989 – Pyramid n. 33” 1988 in esposizione) in cui il lavoro sulla struttura delle figure e sulla serialità della riproposizione geometrica sono rese attraverso strutture materiche (legno dipinto di bianco) che pendendo dal soffitto si ritrovano dinanzi allo spettatore in tutta la loro purezza e incomprensibilità, come assurde forme e figure pure del pensiero umano, e ancora il ritorno alla bidimensionalità dei wall drawings di cui si trovano vari esemplari nel percorso della mostra e infine, una delle cose più allucinanti (ed efficaci) e che danno il metro e la misura per comprendere tanto sperimentalismo novecentesco (quanto ci sembra già lontano quel secolo!), l’esperimento Dance, in cui, lavorando con Philip Glass, si mostra contemporaneamente un film che riprende un ballerino e un ballerino realmente sulla scena che riproduce gli stessi movimenti ma che pian piano (e lo stesso fa la musica!) risulta essere sfalsato, in maniera tale da produrre né più né meno che uno stato di stordimento (intellettuale); ed è difficile anche (e forse un po’ provocatorio) cercare di lavorare su questo autore a partire dai commenti letti sulle labbra dello spettatore medio (e che poi, bisogna pur dirlo, il “senso comune” è uno dei sensi più importanti o comunque uno dei sensi par excellence, da non rigettare con snobismo), ma quello che abbiamo potuto appurare, a partire dal fatto che apparteniamo a un secolo oramai già avanzato – siamo pur sempre (lo si voglia o no) negli anni ’10 del XXI secolo – che quelle forme di sperimentazione sembrano già appartenere al passato, sembrano già essere state ricoperte dalla patina del passato, dalla polvere dei secoli, progetti e ricerche e risultati assolutamente esaltanti ma che già rientrano in un libro di “storia” dell’arte e che sembrano realmente (al di là dei commenti dello spettatore medio) avere poco da raccontare di innovativo o comunque tanto da raccontare come esperienza del passato ma ben poco da dire su quali strade l’arte stia prendendo o su dove stia andando a finire il nostro mondo (non soltanto da intendersi come “mondo dell’arte” ma come “mondo umano”) – che poi è quello che interessa lo spettatore medio.
E così, un po’ delusi da noi stessi, ce ne torniamo verso casa, stanchi e massacrati dopo una giornata di combattimenti con la realtà (la vita mica è soltanto passeggiate per mostre d’arte), delusi da noi stessi perché mai come questa volta ci sentiamo di concordare con il giudizio non troppo raffinato, non troppo intellettuale, non troppo colto, dello spettatore medio che ricerca nell’esperienza artistica, in tempi come questi di desertificazione esistenziale, un po’ più di carne e sangue.
Sol LeWitt. L’artista e i suoi artisti
di Sol LeWitt
MADRE – Museo d’arte contemporanea Donnaregina
Napoli, dal 14 dicembre 2012 al 1° aprile 2013