“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Serena Martucci

Non c'è amore... ma sin troppi quadri a soggetto

Nel 2013 La Réunification des deux Corée, di Joël Pommerat, venne ospitata al Napoli Teatro Festival. Quest'anno Alfonso Postiglione ha sentito il bisogno di riproporre lo spettacolo al pubblico italiano, nella traduzione di Caterina Gozzi. Teatro della performance la Sala Cannoni del Castel Sant'Elmo, solide mura di tufo, umido che ti penetra nelle ossa, concreta realtà che fa da giusto contrappeso al clima di sospensione nel quale galleggiano i diciotto quadri scenici, che materializzano altrettante situazioni di infelicità, infedeltà, incomunicabilità vuoto esistenziale.

Una mano di vernice fresca

Parafrasando liberamente Italo Calvino, il classico è tale perché ha ancora qualcosa da dire, è eterno, nel senso che continua a vivere di vita propria nelle opere che lo riprendono, lo traducono, lo travisano, lo trasformano, lo rispettano, lo caricano di nuova linfa, nuove domande, nuove risposte, nuovi scenari. Ma il classico resta lì, in sottofondo, in sottotraccia, aleggia. Ibsen è un classico indiscusso del teatro e Casa di bambola una pietra miliare nella definizione del teatro moderno e della donna. Nora è eterna, ciascuna di noi è stata Nora, o avrebbe dovuto esserlo una volta nella vita. Eppure gli allestimenti filologicamente corretti, gli allestimenti bomboniera, buoni per rassicurare il pubblico borghese colto e benpensante, hanno sempre qualcosa di posticcio, di stucchevole, di lontano. Nora è esterna, eppure così lontana, troppo eterna, troppo fissa in quella gaia immagine di lodoletta gorgheggiante.

Lampi lucidi

Usciamo dopo mezzanotte dal Castel Sant’Elmo. Lo spettacolo è finito. L’aria diventa progressivamente più tiepida mentre ci si allontana dalle umide mura di tufo, le acacie profumano la sera estiva. Il Carrefour è ancora aperto, con la sua insegna blu elettrico e rosso, le luci al neon, le formiche impazzite della civiltà occidentale che finalmente possono fare acquisti ad ogni ora. Anche a Napoli. Un buon punto di inizio per parlare di Dovevate rimanere a casa, coglioni. Intanto il titolo, chiama in causa ciascuno di noi, un tu generico nel quale si può sperare, ci si può illudere di non essere inclusi, mentre è proprio a ciascuno di noi che Rodrigo García si rivolge, attraverso il corpo e la voce di Rebecca Rossetti.

Dietro la tammorra di Pasquale

Alberi e uccelli inconsueti all'Orto Botanico di Napoli. il sole è caldo e potente, ma l'ombra delle fronde fresca e profonda. I bambini giocano in attesa dello spettacolo. Si rincorrono, fanno a nascondino. Il traffico della città è lontano, solo qualche aereo in decollo o atterraggio ci ricorda che siamo nel ventunesimo secolo e non in quel territorio senza tempo che è il regno della favola e del teatro. Del resto i Romani chiamavano "fabula" l'azione scenica.

Il tormento della scrittura

La scena è aperta, ostesa prima dell’inizio al Ridotto del Mercadante. Un rettangolo bianco al centro, immerso nel buio delle pareti, riflesso nel nero lucido del pavimento tirato a specchio. Un’ombra si muove sotto il bianco, un nero più opaco del nero dell’assito. Un uomo esce dal rettangolo, Andrea Renzi, il racconto ha inizio. L’uomo parla, guarda senza guardare, il suo sguardo alza la parete che ci separa, sta parlando a noi, come entità collettiva, ma siamo ben consapevoli che non sta parlando a ciascuno di noi, che il racconto si svolge altrove, si è già svolto altrove e lui lo sta evocando, per noi, voce medianica cui sono affidati, di volta in volta, i personaggi.

I ferri del mestiere

Due proiettori illuminano di luce bianca la tela blu del sipario. Un allegro motivetto è il tappeto sonoro che ci catapulta in una Napoli antica, ma per certi versi ancora viva, quella Napoli di fine XIX secolo, sottoproletaria, colorita e malandata, in cui il Pulcinella inurbato di Petito si è ridotto a mille mestieri per sbarcare il lunario. La tela si apre su una misera stanza, ricreata con curato realismo di solida scenografia: le mura scalcinate, con l’intonaco scrostato, i mattoni a vista, evidenti macchie verdognole di umidità, le porte e le finestre malconce, i vetri rotti, un pavimento sconnesso che un tempo doveva essere stato di marmo, mobilio di legno di fortuna, una scopa di saggina nell’angolo.

Gioco di specchi

Si apre la tela sul buio che non è ancora azione. Un proiettore fa scendere il suo cono di luce dall’alto. Poi un altro, a illuminare della panche rosse. Poi di nuovo buio. Azione. Quattro figure sedute su panche rosse, fisse, immobili, lo sguardo duro, corrucciato, quasi ieratiche. E poi compare Amleto, alto e pallido, avvolto in una coperta di lana a quadri e recita il titolo: Hamlet travestie, da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare. Non siamo in Danimarca però, ma a Napoli, o forse piuttosto nell’hinterland napoletano. Amleto Barilotto ha perso il padre in un incidente d’auto, la madre, lo zio e il cugino si arrabattano come possono, per ripagare il debito contratto con il perfido don Gennaro e Ornella, la sua fidanzata, aspetta un figlio da lui.

Nel teatro di Donna Peppa

Avevo conosciuto i Naviganti InVersi questa estate, lungo gli approdi di una navigazione di piccolo cabotaggio nelle acque dell'edutainment. Ho rincontrato Vittorio Passaro a Natale, nei credibili panni di un petitiano Felice Sciosciammocca. E ora li ritrovo nel porto della ZTN, Zona Teatro Naviganti, che stanno costruendo insieme, punto di partenza e ritorno di più coraggiose navigazioni.

"Io non sono Casanova"

A scena chiusa si ode una voce: “Aprite! Aprite! Aprite!”. Poi la tela si apre su uno spazio nudo, foderato di bianchi lenzuoli sui quali si proietteranno le luci, le ombre, le storie. Un uomo anziano, vestito di velluto verde oliva, emaciato, stanco nell’aspetto, sofferente, costituisce l’unica nota di colore. Cinque bianche sedie, munite di ampie ruote, sono disposte in secondo piano, a semicerchio. Altrettante figure femminili vi sono sedute, di spalle. Il capo è ornato da voluminose acconciature, ricche di nastri e complesse trecce, il busto stretto in bianchi corsetti che lasciano nude le spalle, le gonne sono ampi e trasparenti veli bianchi che scivolano morbidi sotto il guardinfante. In mano recano mazzi di fiori, si direbbe di carta. Le pose sono rigide, statiche, quasi meccaniche, non sembrano corpi di donna, ma piuttosto membra di bambole meccaniche.

Circo onirico

Tutto inizia e finisce a Napoli. Piazza del Carmine. Una veduta da stampa di Raffaele d’Ambra. In fondo la mole violacea del Somma-Vesuvio, minaccioso e fumante come un gigante lontano. In primo piano la strada, lo slargo del Carmine, i palazzi squadrati (prima della lottizzazione Ottieri...), la facciata della chiesa, l’inconfondibile campanile di fra' Nuvolo, che qualcuno ha definito come la punta di una matita stagliata contro l’azzurro del cielo. Entrano i musici, abbigliati in sgargianti giacchette a quadroni gialli e verdi, scarpe con le ghette, farfallini gialli. La tela si alza sul circo, o meglio, su un’idea di circo, un’evocazione attraverso elementi simbolici.

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il Pickwick

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